Milo De Angelis - Retrospettiva della sua poesia (1976-2010)
Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere. Ha pubblicato Somiglianze (1976); Millimetri (1983); Terra del viso (1985); Distante un padre (1989); Biografia sommaria (1999); Tema dell’addio (2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010).
*
La poesia di Milo De Angelis da Somiglianze (1976) a Quell’andarsene per il buio dei cortili (2010), che vuole essere la più decisa reazione alla cultura dello sperimentalismo, a guardare bene dentro i suoi meccanismi segnaletici e semantici, è uno «sperimentalismo interiorizzato», un deragliamento dei legamenti di inferenza e di inerenza che costituiscono la struttura della significazione, è insomma uno sperimentalismo rovesciato. Ma è grazie a questo «rovesciamento» che l'autore milanese è riuscito ad imprimere alla poesia del secondo Novecento quell’accelerazione, quei cambi di marcia, quelle cuciture inserite tra le dis-connessioni sintagmatiche che sono state il prodotto più cospicuo di novità degli anni Ottanta e Novanta; ma c’è un equivoco di fondo che va sciolto: il discorso poetico inteso dall’autore milanese come «parola destinale», presso i suoi numerosissimi epigoni diventa una forzatura, un prodotto di epigonismo mimetico. La parola poetica abita il linguaggio mentre il destino abita l’esistenza storica dell’ente. Sono due sfere separate e distinte che la poesia deangelisiana tenta di far combaciare. Ecco il vero nodo da sciogliere, che la poesia post-deangelisiana degli epigoni che vive nell’equivoco di dichiararsi a priori destinale non potrà mai risolvere. Che una lussureggiante lettura di Heidegger possa condurre a questa conclusione non può esimerci dal dire che la pratica e la teorizzazione della parola-destinale indica l’esasperazione di un concetto forzoso. Nel primo libro di De Angelis viene assunto a linguaggio poetico la struttura emozionale, emotiva e commotiva di un linguaggio transmentale potato di ogni legame e riferimento al linguaggio strumentale-relazionale. De Angelis opera un vero e proprio disboscamento di tutto ciò che è razionale nel linguaggio relazionale. C’è il trionfo della parola-frontale, della parola-destino della parola-emotiva che diventa una sorta di super modellizzazione secondaria del linguaggio poetico che presso gli epigoni conoscerà un successo di massa eguagliato soltanto da quello arriso alla poesia di un Magrelli. Va detto però che l'influenza esercitata dalla poesia di De Angelis su quella italiana è stata senz'altro positiva ma si è risolta in un fenomeno di costume negativo per la chiave conservatrice con la quale i suoi elzeviristi ne innalzano sperticate lodi. Ma è dalla modellizzazione secondaria di De Angelis che occorre ripartire per ricostruire il discorso poetico.*
* da Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, 2013 pp. 150 €14.
da Somiglianze (1976)
LA LUCE SULLE TEMPIE
Che strano sorriso
vive per esserci e non per avere ragione
in questa piazza
chi confida e chi consola di colpo tacciono
è giugno, in pieno sole, l’abbraccio nasce
non domani, subito
il pomeriggio, i riflessi
sui tavoli del ristorante non danno spiegazioni
vicino alle unghie rosse
coincidono con le frasi
questa è la carezza
che dimentica e dedica
mentre guarda dentro la tazzina le gocce
rimaste e pensa al tempo
e alla sua unica parola d’amore: “adesso”.
*
L’ISOLA SARÀ GUARDATA NELLA SUA BELLEZZA
Anche la faccia, al risveglio
ogni volta, panico e ansia
di diventare diversa:
un secolo intero scorreva
nei suoi movimenti
perché era l’unicità.
Eppure qualcuno, già salvo,
sfidando i suicidi vicino al letto e le pastiglie
che cadono dalle mani
qualcuno sta dicendo:
l’isola sarà guardata nella sua bellezza
non importa se da noi o da altri.
*
T. S.
Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell’autoambulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l’attimo dell’offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.
da Biografia sommaria (1999)
Semifinale
La Doxa mi chiede per chi voterò. La voce
è di un ragazzo che, dall’altra parte, respira. Non so
quale chiarezza dentro la rovina. Tutto
ritorna qui, confine del luogo. Quel non parlato
di chiodi per terra. Il professor D’Amato spieagava
un pronome…nemo: nessuno, non nemo: qualcuno
nessuno giungerà oltre le vene, è semplice, ragazzi. Qualcuno
è scomparso o comunque non dà notizie. Il postino
mi consiglia di guardare meglio nella buca,
anche in quella vicine. Guarderò. Neminem
excepi diem: per nessun giorno ho fatto eccezione.
Morire è dunque perdere anche la morte, infinito
presente, nessun appello, nessuna musica
di una chiamata personale. Oltre le vene che furono rito
e dimora, milligrammo e annuncio, grido infinito
di gioia e di soccorso, nessuno mai
oltre queste vene. È semplice, ragazzi, nessuno.
*
Idroscalo
Il ragazzo che si tuffa
In un crawl potente e urta un sasso…
…la ciocca insanguinata…
…la giovinezza prese la forma
di un passo oscuro, di una rosa
appesa alla finestra
«salvami, padre, da quest’ora dolorosa»
la gente saliva, scendeva, cercava
una fune, una cosa
qualsiasi, sputava, gettava in acqua
il suo fazzoletto, ciascuno
parlava all’orecchio
di un altro, diceva
Dio non ha più desiderio,
una volta aveva freddo, Dio, tendeva
le mani per indossare,
un cappotto, il primo, anche questo
che è vecchio, guarda,
toccalo, tienilo pure…
un cappotto, capisci, non i velluti
scesi dal cielo, ma questo,
il mio, persino il mio cappotto.
*
CARTINA MUTA
Ora lo sai anche tu
lo sappiamo
mentre stiamo per rinascere
Franco Fortini
Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia
dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto
del metronotte: viso assetato non posso valicarlo,
è lo stesso che una volta chiamai amore, qui
nella nebbia della Comasina.
Camminiamo ancora verso un vetro. Poi lei
getta in un cestino l’orario e gli occhiali,
si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa.
«Perché fai questo?»
«Perché io sono così», risponde una forma dura della voce,
un dolore che assomiglia
solamente a se stesso. «Perché io…
…né prendere né lasciare». Avvengono parole
nel sangue, occhi che urtano contro il neon
gelati, intelligenti e inconsolabili,
mani che disegnano sul vetro l’angelo custode
e l’angelo imparziale, cinque dita strette a un filo,
l’idea reggente del nulla, la gola ancora calda.
«Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli
a molti esseri prima di diventare nostra…
…vita, proprio tu vuoi darle
un finale assiderato, proprio qui, dove gli anni
si cercano in un metro d’asfalto…»
Interrompiamo l’antologia
e la supplica del batticuore. Riportiamo esattamente
i fatti e le parole. Questo,
questo mi è possibile. Alle tre del mattino
ci fermammo davanti a un chiosco, chiedemmo
due bicchieri di vino rosso. Volle pagare lei. Poi
mi domandò d’accompagnarla a casa, in via Vallazze.
Le parole si capivano e la bocca
non era più impastata. «Dove sei stata
per tutta la mia vita» Milano torna muta
e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio
e umido che le scioglie anche il nome,
ci sprofonda nel sangue senza musica. Ma diverremo,
insieme diverremo quel pianto
che una poesia non ha potuto dire, ora lo vedi
e lo vedrò anch’io…lo vedremo,
ora lo vedremo…lo vedremo tutti…ora…
…ora che stiamo per rinascere.
da Quell'andarsene nel buio dei cortili (2010)
Era buio. Il centro di agosto era buio
come il corpo nudo. Non potevo
trovare riposo né movimento: solo il battere
del sangue sulle labbra. Il buio
giungeva dal respiro aperto, dalla freccia alata
che entra nel mondo. Il buio
era lì. Era lì, nel vertice
della prima caduta, era me stesso,
questo freddo che, oltre i secoli, mi parla.
*
Non rispondono all’appello, sono
dispersi ai bordi della terra, hanno
il segreto della linea che trema, sono usciti
dalle vene dell’essere amato e ora
potete vederli, di sera, verso le tangenziali
chiedere silenzio con un dito sulle labbra.
*
E’ tardi
nettamente. La vita, con il suo
perno smarrito, galleggia incerta
per le strade e pensa
a tutto l’amore promesso.
Cosa attende da me? Dove batte
il cuore dei perduti? E’ questa
la meta misteriosa
di ciò che vive?
La casa si allontana
dai soggiorni, tutto
è consegnato all’evidenza
della fine, tutto è sfuggito….
… ma la sillaba
che stringeva la gola
è questa.
*
UNA POESIA di Milo De Angelis "Linn, l’avvicinamento" da Distante un padre (1989) con un Commento di Giorgio Linguaglossa
Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere. Ha pubblicato Somiglianze (1976); Millimetri (1983); Terra del viso (1985); Distante un padre (1989); Biografia sommaria (1999); Tema dell’addio (2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010).
Commento di Giorgio Linguaglossa
Chi è «Linn»?. Linn è il «padre» e il sostituto del «padre», è l'equivalente del «padre» e la sua «traccia», l'orma mnestica che è scomparsa, un indizio di «presenza», una segnaletica dell'«assenza». Tutte queste cose assieme. In questa poesia viene messo in luce uno schema familiare. Di qui il perturbante, l'estraneo che nella poesia di De Angelis è presente con le immagini del «quaderno», della scuola, l'«algebra», la «guerra punica» etc. La poesia può anche essere intesa come un Autoritratto con convitati, con sconosciuti, con presenze non riconoscibili, prive di identità definite, o con finte identità. In questo schema, il logos occupa la posizione del «padre», il quale è sempre «distante»; è colui che parla da una distanza, da una traccia, da una breccia, da un altrove. Parla per disseminazione. La disseminazione non equivale a polisemia: mentre la polisemia è sempre in qualche modo irreggimentabile, controllabile (diremmo: ubbidisce a un qualche principio di realtà), la disseminazione non è mai riconducibile all'ordine, si abbandona a un principio di piacere dispersivo che ha un rapporto necessario con il godimento e con la pulsione di morte. Nella sua mancanza di un principio ordinatore, la disseminazione configura il testo (e qui la differenza tra "linguaggio" o "scrittura" e "realtà" viene completamente a cadere) come una serie di innesti, ibridazioni, formazioni mostruose. La presenza del «padre» si manifesta attraverso una molteplicità di «voci», o meglio, di tracce di voci, che parlano e, a loro modo, interloquiscono. Il loro parlare è un vaneggiare, un parlare attraverso una rifrazione, una com-posizione che deriva da una s-com-posizione, una dis-sezione, una dis-persione. Al fondo di questa metafisica della presenza della dispersione c'è una disseminazione delle voci e dei linguaggi.
Nel suo fondo vige il «principio della discesa infinita», la «dura madre spinale», il totem del «padre», vige la Babele dei linguaggi, le loro differenze, le loro sovrapposizioni, i loro scarti, i loro conflitti che non sono mai conflitti semantici, nulla è più estraneo alla sensibilità di De Angelis che pensare il discorso poetico in termini di modulazione dei significanti o delle stratificazioni semantiche. Per De Angelis la semantica nasconde al suo interno sempre una «mantica», un meccanismo incognito che agisce all'interno del discorso poetico come un codice, come la duplice elica del DNA, un misterioso regolo che ordina il caos dei linguaggi. Sicuramente, in questa poesia come in tutta l'opera di Milo De Angelis, concetti psicoanalitici come rimozione, castrazione, sublimazione, pulsione di morte, coazione etc. giocano un ruolo di primo piano, ma non è questo il punto, quanto tempo e controtempo, retrospezione e prospezione, stop and go, invariante e varianti formano la spina dorsale della scrittura deangelisiana. Una sorta di struttura binomiale presiede la sua scrittura: testo e sottotesto. L'analisi dei suoi testi poetici può essere condotta alla stregua di un tentativo di individuazione di atti mancati, lapsus, mascheramenti, sintomi, salti, brecce che la decostruzione sfrutta per inserirsi in sistemi che, a prima vista, nei loro meccanismi di difesa, appaiono solidi e inossidabili. Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di «disseminazione» assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni, di supplementi. Salta come sulla dinamite il rapporto di interdipendenza tra la scrittura fonetica e una certa concezione della temporalità come successione lineare, discreta, di istanti. Il testo come ibrido si presta invece a una lettura molteplice, su vari livelli e in più direzioni (possibilità che non si riscontra ad esempio nella scrittura ideografica, che non è fonetica), perché non assoggettabile a un centro unico, a una direzione principale, a un significato egemone:
Quel mutarsi del sole in stoffa militare
Si tratta di qualcosa di affine alla procedura alchemica, di una magia che affiora all'improvviso dalla non-presenza dell'inconscio, di qui il mistero inafferrabile di certe inspiegabili associazioni, il mistero del numero:
Nella cartella, l'indomani, rimangono i nostri disegni, ciascuno
con un numero araldico. L'undici è la fortezza, difesa da uno sguardo
di fanciulla gotica. Il cinque è un uomo in mezzo al fiue: ha in mano
uno scrigno di gioielli, nuota a fatica, annaspa, forse cede.
[...]
... «Si salverà...», pensavo, ed era il numero accanto,
lo zero matto, un efebo con il berretto a visiera
e l'acchiappafarfalle si prepara per la disfida medievale
Ma il numero viene associato all'«efebo», all'«acchiappafarfalle», cioè ad esseri demonici, incompiuti e inconcludenti, a metà tra il definito e l'indefinito. Può apparire paradossale che il «numero», cioè la più alta quantità di astrazione simbolica, possa equivalere ad esseri indefiniti e indistinti come l'efebo e l'acchiappafarfalle, ma per l'inconscio tutto ciò non ha la minima importanza, tutto è simile al tutto, ogni parte disseminata corrisponde simbolicamente con un'altra parte del suo insondabile e vasto universo: «Tutto ritorna qui, confine del luogo», scriverà De Angelis in un'altra poesia della medesima raccolta. Quindi c'è un «luogo», per sua essenza inarrivabile, ma è un luogo navigabile, perlustrabile, sondabile con gli strumenti del logos poetico, luogo che non sarà mai colto nella sua «origine» ma soltanto attraverso i suoi supplementi, le sue sostituzioni, le sue sovrapposizioni, i suoi ribaltamenti, i suoi rinvii, le sue dis-connessioni simboliche segrete e alchemiche. Si assiste alla presenza di due assenze strutturali della scrittura: assenza del destinatore (mittente) e assenza del destinatario (ricevente).
È una poesia della «presenza disseminata», che si presenta come nuda presenza, non è un caso che tutta la poesia sia costruita al presente indicativo; e domina il deittico che ben si addice al verbo coniugato al presente: «appena vieni», «io sono sempre qui», «sempre qui», «vicino», «È un tempo al neon, non ha stagioni». La poesia della presenza assoluta è possibile solo declinando al presente il suo universo. È la non-presenza dell'inconscio che si rivela nella presenza assoluta. La poesia assume la forma di una deriva della non-presenza dell'inconscio. Anche la stessa ossessione dei luoghi, di cui la poesia di De Angelis è così ricca, rivela la non-presenza del luogo assoluto: il qui e ora è il luogo indescrivibile del presente assoluto, dell'adesso.
Questa teoria della non-presenza può essere riassunta nel concetto di «traccia». La traccia (che Derrida riprende da Emmanuel Lévinas) è «un passato che non è mai stato presente», cioè la dimensione di un'alterità che non si è mai presentata ne potrà mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione psicoanalitica di inconscio: «con l'alterità dell'"inconscio" abbiamo a che fare non con degli orizzonti di presenti modificati - passati o a venire - ma con un "passato" che non è mai stato presente e che non lo sarà mai, il cui "avvenire" non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile con quello di ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente. Non si può pensare la traccia - e dunque la différance - a partire dal presente, o dalla presenza del presente» (La diffèrance). Possiamo adesso comprendere perché la scrittura deangelisiana si presenta come presenza di un ordito di tracce disseminate, è la sua ragion d'essere, il modo per rendere raggiungibile ciò che è un ordito di scarti, di invii, di rinvii:
O forse non è questo,
ma un altro luogo senza vetri, il luogo più prossimo,
mi dicevi, in cui eravamo
già stati. Quell'intuito sosta in me. È il bar che si riempie...
Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso una catena di sostituzioni. Scrive Derrida: «e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce "inconsce" (non c'è traccia "cosciente"), il linguaggio della presenza o dell'assenza, il discorso metafisico della fenomenologia è inadeguato».
Ed è infatti proprio questo l'esito principale consentito dalla nozione di «traccia»: quello di far intendere l'ordine del senso (della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioè l'insieme stesso della metafisica) come un ordine supplementare, radicalizzando con ciò quella che, secondo una tale metafisica, era una condizione limitata alla semplice scrittura. Vale a dire che l'irrappresentabilità della traccia tende a far leggere ogni presentazione o rappresentazione come ciò che sta al posto della traccia «originaria», la sostituisce, ne è insomma la scrittura, così come la coscienza, in un testo famoso in cui Freud la paragona ad un notes magico e che Derrida discute in La scrittura e la differenza, è la traccia «visibile» dell'inconscio. Questa «logica del supplemento» è ovviamente impensabile all'interno della logica, scriverà in Della grammatologia: il supplemento supplisce una mancanza, una non-presenza, nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non preceduta da nulla, ma a partire dalla quale qualcosa «appare». «Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c'è nessun presente prima di esso, è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento. Il supplemento è sempre il supplemento di un supplemento».
Linn, l’avvicinamento
I
Si è travolto d’algebra il sereno, è caduto sulla prima
guerra punica, con i miei ventimila neuroni alla
campana, giaculatorie da ripetere in numero dispari. Non posso
dirti dove sei giunto, ma posso dirti dove tutto è iniziato. Ecco che l’esilio
si fa idea. Animali bisbigliano al viaggiatore in sordina
le antiche regole del sopravvivere, gli mostrano la foto,
il bambino su una lontana spiaggia del ’59 con le braccia e le gambe
bloccate nella corsa. Era quella grafia che
non sbanda, quel mutarsi del sole in una stoffa militare. C’era in me
qualcosa che sa di me. Ogni sera viene
a dirmi addio con una cartolina e il libro
di scienze sottobraccio. Segniamo in blu le espressioni sconosciute
“dura madre spinale”, “principio della discesa infinita”.
Le scriviamo sul registro, ci diamo la buona notte.
II
Nella cartella, l’indomani, rimangono i nostri disegni, ciascuno
con un numero araldico. L’undici è la fortezza, difesa da uno sguardo
di fanciulla gotica. Il cinque è un uomo in mezzo al fiume: ha in mano
uno scrigno di gioielli, nuota a fatica, annaspa, forse cede.
(“Anna la naspa, fin da piccola la chiamavano così”, sentenziava
uno stronzo della Bocconi sulla sorella
scappata in Bolivia e ritornata qui, due mesi fa, tra i corridoi
del Besta) (Eppure gioiosa in certi sbalzi, in brevi
passi orientali). “Si salverà... “, pensavo, ed era il numero accanto,
lo zero matto, un efebo con il berretto a visiera
e l’acchiappafarfalle si prepara per la disfida medievale
o per quella più domestica, sconfitto anche in giardino
da vanesse e cavolaie. Era Anna,
che non conquista e non è presa, e ha in faccia
lo stesso coraggio di beffa addolorata.
III
Spiamo insieme, dalla finestra, uomini che si accoppiano
con i loro incubi, la camerata che gira su se stessa, uomini e donne
distesi sul pavimento liquido. Poi, vicinissimo a noi,
un fruscio interno, le ultime vibrazioni di un insetto, la sua
sostanza evaporata. E di colpo tutta la vita ha bisogno di questo
buio per condurmi a sé o dovunque io mi accanisca –
un’occhiata al passaporto, all’indirizzo del postumo incontro – Café
des pauvres, Montpellier.
“Sono vent’anni che guardo e che non dormo... appena vieni
cantami la canzone in italiano... vieni
appena tu puoi... io sono sempre qui.”
IV
Sempre qui, mi dico, sempre qui, vicino
alla specchiera per trovare un solo tono di voce. So
la premura di questo golf azzurro, non la sua fine,
questo giro dopo giro intorno alle piastrelle. So di un tempo
che adunava gli abitanti, il turgore nelle corolle:
era il figlio pianeta che due donne vestivano,
la teologia di un borgo. Qualcosa
di mai vissuto nel mio sangue macera. È un tempo a neon,
non ha stagioni. Basta un’edicola aperta e ogni passo
diventa veloce, davvero veloce: se lo fermo,
la strada si avvicina, sparge essenza astratta, una cinepresa
che moltiplica porte e scale mobili, mi incalza, mi lascia. Allora
l’unica missione è una telefonata, una sorpresa di voce
attenta prima di me e dei miei secoli: accorcerà il tratto che manca
al cuscino, il punto da cui ricomincio. Oppure è il salone
di via Padova, gli ultimi giocatori di biliardo, come una
sfera nel percorso ci tiene il respiro: scambiare
un commento esatto, non oltrepassare la sostanza di legno, il panno
di tutti noi, questo bene che mi accerchia.
V
O forse non è questo,
ma un altro luogo senza vetri, il luogo più prossimo,
mi dicevi, in cui eravamo
già stati. Quell’intuito sosta in me. È il bar che si riempie
con le prime ore, forza mattutina degli ortomercati, Fabienne
che contempla le saracinesche socchiuse
per prestarle un suo rovescio azzurro. Sì, è con bene, con bene:
la bilancia insensata sul palcoscenico,
qualcuno verrà a toglierla, tra poco... forse noi.
VI
Sono qui anche per questo, pensavo, se chiudo
nel corpo le cose in migrazione, se i miei cerchietti
per l’al di là sono in vetrina, sono a strappi. La nudità che
si misura con i burattini, le tibie trepidanti,
ha supplicato di crescere:
c’è ancora tempo, lo sai, sull’erba batte una cadenza
di colpi consolati. Pensavo a questa lettera:
te l’avrei data in un film allegro, in un digiuno spezzato fuori
avrei parlato delle luci che ondeggiano tra i vestiti, come montagne
da prendere a forza, da accucciare nella ciotola, nei lenti
meccanismi di un raffreddore, costruzioni a mano a mano. E ancora
avrei parlato di te, com’eri da ragazzo e come sei tornato, ti avrei
descritto uno per uno i passi troppo veloci,
sempre più veloci, finché l’angelo custode si aggrappa
alle caviglie e siamo salvi.
da Distante un padre (1989)
POESIE SCELTE di Milo De Angelis da Incontri e agguati Mondadori, Lo Specchio, 2015 con un Commento di Giorgio Linguaglossa
Milo De Angelis Incontri e agguati Mondadori Lo Specchio, 2015 pp. 70 € 18
Commento di Giorgio Linguaglossa
Che il tema della «morte» sia un leimotif e una macrometafora che attraversa tutta l'opera di Milo De Angelis fin dall'opera di esordio del 1976, appare chiaro dai due versi di Bigongiari citati in Poesia e destino: «la morte è questa / occhiata fissa ai tuoi cortili», particolarmente apprezzati dal poeta milanese per quella pausa al termine del verso e quella nominazione diretta della «cosa», per quelle spezzature e pause interne ai versi che il poeta milanese adotterà come uno dei cardini del proprio fare poesia fin dagli esordi di Somiglianze del 1976 e Millimetri del 1983. In quest'ultimo libro il periscopio di De Angelis si è indirizzato su un unico tema, lo mette a fuoco da tre punti di vista corrispondenti alle tre sezioni del libro («Guerra di trincea», «Incontri e agguati» e «Alta sorveglianza»). Il pensiero della «morte» è il tema regnante di questo libro, il dialogo con la «morte» intesa come naufragio, scacco, possibilità interrotta, esperienza del limite, sfondamento del limite.
Recita il risvolto di copertina: «Una ricognizione sulle avventure mentali di un passato ormai remoto e sul loro quotidiano scontrarsi doloroso e frontale con l'idea di un precipizio assoluto, di un risucchiante nulla infinito; e poi il riemergere di giovani volti e figure, di minime vicende, salvate, chissà perché, dalla memoria: e infine il resoconto, condotto con oggettiva esattezza, di un drammatico fatto di cronaca, di un episodio di tenero amore e orribile violenza. Sono questi i tre momenti essenziali, quanto mai ricchi di situazioni e implicazioni interne, della nuova opera di Milo De Angelis».
Con le parole di De Angelis: una serie di «incontri e agguati», una «guerra di trincea», una «alta sorveglianza». È chiaro che un tale tema non poteva venire pronunciato se non con un lessico diretto, spoglio e scabro. Un discorso frontale. L'inizio del libro è eloquente:
da Guerra di trincea I
Questa morte è un'officina
ci lavoro da anni e anni
conosco i pezzi buoni e quelli deboli,
i giorni propizi, la virtù
di applicarsi minuto per minuto e quella
di sostare, sostare e attendere
una soluzione nuova per il guasto.
Vieni, amico mio, ti faccio vedere,
ti racconto.
*
Tutto cominciò in una cameretta
con i regali e le candeline
che in un soffio spensero mio padre
fermo nella sua giacca per sempre
e un cerchio di puro niente mi assalì
in un solo attimo franò sul tavolo
e mi mostrò cento di questi giorni.
*
......................................................
......................................................
...... nel 1967, dopo una lunga guerra
di trincea, dopo una guerra di metri
guadagnati e persi, iniziai
una trattativa con la morte.
*
iniziai dunque a trattare, sì, a trattare
ma lei recalcitrava, negava la firma,
si dava per dispersa e riappariva sul più bello
nella vela di una carezza o nella voce
che indicava lassù un'orsa favolosa
era lei con un sapore di mandorle bruciate
iniettava nell'alba il suo buio primitivo.
*
Con la morte ho tentato seriamente
per un po' è stata buona
ha rinunciato al suo impero universale
ha cominciato a muoversi caso per caso
ha lenito alcuni sussulti con il suo unguento
poi ha cominciato a intonare
una canzone in re.
*
Con la morte ho cercato ancora
un patto, ma lei era astuta e discontinua
appariva nei traffici dell'amore,
diventava giallore e numero fisso
era il respiro e l'artiglio nel respiro
un'ora murata
galleggiava nel fradiciume della vasca.
*
Poi, di colpo, un lunedì di febbraio
tutto è tornato come prima... è uscita
dal suo feudo,
ha fatto incursioni, all'alba,
nella casella della posta, ha ripreso
la sua cerimonia incessante, ha diffuso
un canto di puro gelo
ha cercato proprio noi.
*
E ha cominciato a parlare,
quella figura plenaria,
come il capobranco della nostra fine
soffocava il lievito felice,
affondava con il piede la barca
infantile di due foglie
ci lanciava il suo avvertimento
L'essere si rivela solo nel naufragio dell'esserci. E il naufragio dell'esserci è, con le parole di Milo De Angelis, il suo «destino», che si rivela in eventi del tutto fortuiti («nella punta di questa matita»), senza spiegazione, inspiegabili, non razionalizzabili, imprevedibili «in questo immobile trasloco», dove l'accadimento non può essere registrato da «nessun diario... nessun giornale, cronaca o storia». Così, la poesia di Milo De Angelis è tutta intessuta di accadimenti che brillano solo per attimi che subito dopo si spengono, scompaiono; gli accadimenti sono percettibili solo nell'attimo del loro scomparire, non prima e non dopo, e che si situano tra il prima e il dopo.
XII
Nella punta di questa matita
c'è il tuo destino, vedi, nella punta
aguzza e fragile che scrive sul foglio
l'ombra di ogni fase e scrive
le mura cieche, l'attenuante e il soliloquio
il tuo destino è proprio qui, in questo
immobile trasloco, in questo impercettibile
sorriso che un uomo offre
al mondo prima di sparire.
XIII
Questo destino che nessun diario
raccoglie, nessun giornale, cronaca
o storia, vive nel sibilo
di un ricordo, nel suono
della giovinezza: il frutteto fantastico
e un fruscio negli abbaini,
e poi qualche grammo, il pigolio
del giudice di sorveglianza,
un'edicola notturna, una retata.
Così risponde Milo De Angelis a una domanda di Claudia Crocco pubblicata di recente su LPLC:
«L’attimo? Sì, una vera e incrollabile ossessione. Anche la mia attenzione alla fotografia (non a caso vivo con Viviana Nicodemo) è legata all’attimo, che non è mai statico, quando è davvero un attimo destinale. Raccoglie in sé le stagioni, fa convergere in se stesso il tempo che precede e quello che segue. E il grande fotografo, come il grande poeta, fissando quell’istante fecondo, crea l’alone di un’altra storia sfiorata, di qualcosa che può essere. È un istante che bisogna cogliere tra i mille possibili, è l’istante cruciale, il kairòs. Evoca una stagione mentre annuncia la prossima. Ecco, il kairòs è questo congiungersi delle epoche, questo movimento centripeto con cui il passato e il futuro confluiscono nell’attimo. Ricordo e profezia, memoria e promessa, atomo gremito di tempi. Il fatto è che una sola immagine può contenere un tale vigore, una tale attesa, un tale spaesamento da irradiarsi fuori di sé e diventare un mondo. Questo intreccio di singolare e di cosmico è tipico della lirica, dagli antichi a oggi, da Alcmane a Bonnefoy. E infatti la fotografia è sorella della lirica. Potremmo dire così: la fotografia sta alla lirica come il video sta al racconto e come il film sta al romanzo. Al pari della lirica, la fotografia narra ciò che avviene una sola volta. E proprio perché avviene una sola volta, porta con sé l’ombra delle esistenze escluse, che circondano come una moltitudine l’unicità del momento, lo caricano di dinamismo e di forza cinetica. In questo senso fotografia e lirica sono esperienze iniziatiche, ossia esperienze che, mostrandoci un tempo intero nel tempo microscopico dello scatto, tendono all’epifania. Tendono allo svelamento del significato recondito dietro a quello immediato. L’attimo non è fermo, se ci pensi. Tutte le parole che lo esprimono nella nostra lingua sono parole di moto permanente: momento (movimentum), istante (partici-pio presente), e attimo, a-tomo, qualcosa che giunge nudo ed essenziale dopo infinite divisioni, nucleo carico di imminenza da cui scaturisce la vita, come insegna Lucrezio: «Guarda i raggi del sole quando rischiarano l’oscurità della stanza e vedrai un esercito di atomi vorticare nel fascio di luce, ingaggiare una lotta infinita, vedrai scoppiare battaglie, schierarsi truppe e squadroni, succedersi senza tregua scontri e ferite. Vedrai l’eterno agitarsi dei corpi nel vuoto (De rerum natura II, 117-122)».
La «morte», dunque, si rivela nell'accadimento, sfugge a qualsiasi tentativo di chiusura del nome, di qui il frequente impiego della figura retorica dell'epanalessi, la problematicità di porre in poesia il tema di un dialogo frontale con la morte, con gli accadimenti, quella condizione che zampilla dal fondo oscuro che sempre si affaccia alla coscienza ma sempre sfugge («chiuso nel quadrilatero della tua voce»). L'essere stesso è accadimento. L'essere rappresenta ciò che l'uomo non può mai abbracciare con un unico sguardo frontale, ma solo avvicinare, come alla ricerca di un qualcosa che giustifichi e chiarisca lo spettacolo del mondo, ma che non potrà mai darsi alla conoscenza dell'uomo nella sua integrità. Proprio per questo, per questa sua inarrivabilità, l'essere è accadimento, ovvero, quell'attimo in cui i personaggi deangelisiani sono se stessi senza saperlo, senza volerlo.
Opera, sei dappertutto ma non so dove sei.
«Opera» è il supercarcere di Milano dove è racchiuso l'autore di un orribile delitto, l'uccisione a coltellate di una giovane donna, sua moglie. Un luogo che si dà e si sottrae insieme alle tracce degli accadimenti trascorsi. Il mondo poetico di De Angelis è un aprirsi di eventi, un ritornare di ciò che è stato sottratto, uno zampillare illogico e senza alcun senso apparente di «incontri e agguati» dal fondo oscuro di una «voce» che ritorna (come amore o incubo) alla coscienza, che va al di là di ogni possibilità di comprensione della coscienza. In questo senso, il mondo intero (il mondo dei «fenomeni») è un «naufragio», non un navigare certo nell'immutabile che da sempre è per la filosofia, consolazione, ma un continuo essere in balia delle onde degli accadimenti. La costruzione dell'«Opera» (poetica) al pari dell'Opera (carcere) è quindi una condizione imprevedibile e non determinabile, una condizione angosciosa, periclitante, instabile, e una condizione metafisica insieme. un luogo metafisico. La poesia di De Angelis si nutre di questa instabilità (che diventa anche metrica, sintattica, stilistica), ne fa la propria ragione di vita, raccoglie gli echi, le tracce degli accadimenti che sostano per un attimo nella memoria, nell'attimo del loro sottrarsi.
Oserei dire che Milo De Angelis è il primo poeta del nuovo modernismo italiano che utilizza il discorso diretto (facilitato in ciò dalla sua lunga esperienza di docente di italiano nel carcere di Opera), di qui l’impiego continuo di dialoghi… e il discorso indiretto, il correlativo oggettivo con il correlativo soggettivo (cioè lo s-postamento del soggetto, lo s-paesamento del soggetto, la dis-locazione del soggetto).
Il naufragio accadimentale sta all'«Opera» come il poeta sta alla poesia. Il «naufragio», com'è noto, è la figura filosofica che Jaspers utilizza per definire il senso ultimo dell'esistenza umana. L'esistenza è il «divenire», ovvero un «naufragio» nel mondo mutevole e accadimentale. Il tentativo di concepire l'immutabile è certamente destinato allo scacco se non negli «attimi» che ci rivelano quel naufragio. La «morte» è costruzione del naufragio, compimento di esso. Al naufragio non si può sfuggire. I personaggi di De Angelis vanno incontro al loro «accadimento». Il loro «destino» è questo andare incontro alla «morte», è questo «andarsene per il buio dei cortili», questo rotolare dal centro alla periferia di se stessi... essere visibili in questo «immobile trasloco».
Il «naufragio» per Jaspers è un naufragio nel tempo, annientamento di tutte le cose e di tutte le certezze, di ogni stabilità e immutabilità. La condizione di vita dei personaggi deangelisiani è «scacco», precarietà, incapacità di diventare padroni del proprio destino, essere sempre in «situazioni» limite, essere sempre «situati», «gettati» entro un orizzonte di eventi possibili. Essere in una situazione significa non poter vivere senza lotta e dolore, dover assumere l'onere della propria colpa, dover morire. Questo orizzonte di eventi è una situazione limite, un muro contro cui i personaggi deangelisiani in ogni loro azione sbattono inevitabilmente senza possibilità di alcuno scavalcamento di questa condizione. Il muro della realtà resta invalicabile.
Per De Angelis, la condizione che la «morte» pone alla verità dell'essere risiede nella condizione del naufragio infinito. Una condizione accadimentale, di attenzione ai dettagli impercettibili, dettagli dell'eccedenza, di ciò che «viene radiato», un rotolare perpetuo dal centro verso la periferia, come ha scritto Nietzsche. Una condizione propria del nichilismo.
Ero diventato ormai l'incarnazione
di ciò che perdiamo, in me si raccoglieva
tutto ciò che a poco a poco viene radiato
non prendevo più nota del giorno e dell'ora
mi assentavo
dall'antico fenomeno del mondo.
da Incontri e agguati II
Una lama di fosforo ti distingueva
e ti minacciava, in classe terza,
ti chiedeva ogni volta il voto più alto, l'esempio
perfetto del condottiero: sei stato tra la gloria
e il sacrificio umano
e hai scelto di non avere più nulla.
Ma oggi ti è riuscito
l'antico affondo, il pezzo di bravura,
chiamandomi per nome tra la Polfer e i sonnambuli
del binario ventidue "Ti ricordi di me?
Io abito qui". "Ricordo quella versione
di Tucidide difficilissima. Solo tu... solo tu."
Hai ancora il guizzo
dello studente strepitoso, l'aggettivo
che si posa sul foglio e svetta, la frase
di una lingua canonica e nuova, quel tuo
tradurre all'istante a occhi socchiusi. Dove sei,
ti chiedo silenzioso. Dove siamo? I frutti
restano dentro e bruciano segreti
in un tempo lontano dalla luce,
in una giostra di libellule o in un sasso.
da Alta sorveglianza III
XXIV
"Una donna così si uccide solo con il coltello
si uccide corpo a corpo in una vicinanza
che zittisce le melodie del suo respiro
e l'ho colpita l'ho colpita con una certezza
vicina all'oblio... poi l'estate
precipitò nella notte
e mi nascosi lì, colpevole e tremante...
... per un intero minuto
l'ho colpita"
*
Il nome, il nome, il nome.
Lo ripetiamo certi o increduli,
in un tremore di pernici, lo incidiamo
nell'urlo, lo salviamo
con l stupore inconfondibile dell'unico dono
che abbiamo meritato: giunge
dalla nostra alba più remota e ci nomina,
ci attende, ci pretende, ci chiede
la parola e la protegge nel silenzio dei pioppeti.
*
È di tutti la splendida uccisa, la sorridente,
cammina nei corridoi, dea o spettro, cantico
del grande zafferano, si aggira come un oltraggio
ala morte, ritorna puntuale al mattino
nelle battaglie tenebrose del risveglio,
si stende sulla branda, si toglie i sandali,
sorride ancora una volta. Oppure esce nel mondo
e mostra alle strade il nostro errore e la collera
di noi che abbiamo ucciso la cosa più amata
e ora la tocchiamo, tracciamo per terra
un annuncio oscuro di linee
e parole, barlumi di volti e di città: un disegno
di salvezza, forse, o un'esecuzione.