Introduzione
Viene qui presentata una ampia scelta delle poesie del poeta russo Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, tratte dal volume Stelle sull’Aragaz, edito nel 1988 ad Erevan, che comprende oltre ad una raccolta della sua personale produzione poetica, anche traduzioni in lingua russa di poeti armeni a cura dello stesso Tarkovskij. Arsenij Tarkovskij nasce nel 1907 ad Elizavetgrad (oggi Kirovograd) in Ucraina, e si dedica fin da giovane alla traduzione di numerosi poeti da svariate lingue (armeno, turkmeno, karakalpaco, georgiano, ebraico e arabo). Quanto questo assiduo esercizio di traduzione abbia influito sulla sua poesia è un problema aperto, ma certamente la frequentazione di una palestra stilistica così vasta ha avuto un peso rilevante nella elaborazione della peculiarissima aura di inattualità delle sue poesie e conforterà il poeta nei lunghissimi anni di silenzio cui sarà costretto. Il primo volume delle sue poesie vedrà la luce soltanto nel 1962, Pered snegom (Neve imminente, 1929-1940); nel 1969 esce Vestnik (Il messaggero 1966-1971); nel 1974 Sticotvorenija (Poesie); nel 1978 e nel 1979 escono rispettivamente Volsebnye gory (Le montagne incantate) e Zimnijden (Giornata d’inverno 1971-1979). Il 27 maggio 1989 muore a Mosca e viene sepolto a Peredelkino.
La presente traduzione ha rispettato fedelmente la misura del verso russo senza tentare una resa in un equivalente metro italiano, operazione che avrebbe fatalmente corso il rischio di falsare i ritmi colloquiali della lingua originale; la utilizzazione dell’a capo rigorosamente conformato a quello del testo russo ha consentito, in qualche misura, la conservazione anche nella versione italiana degli enjambements e delle cesure interne, così come dei tempi lenti di progressione delle immagini.
Se la rivoluzione è incentivo al trasognato lirismo di Chlébnikov, la «fame di spazio» occupa totalmente la mente dei grandi poeti russi del Novecento. Chlébnikov percorre due volte, andata e ritorno, la linea ferroviaria Chàr’kov-Kiev e attende la primavera appollaiato in cima a un albero di ciliegio nei pressi di Chàr’kov, o osserva il cielo stellato dall’alto di un treno in corsa. Così, Tarkovskij scrive una poesia ironica su un immaginario improbabile «catalogo delle stelle», e Mandel’štam cita la «lenta asmatica vastità» dell’orizzonte di Voronez ove «lo spazio ha perso gusto e colore», ovvero, guarda «nel bellissimo binocolo Zeiss… tutte le rughe dello gneiss», la catena dei monti dell’Ararat, l’odierna Armenia. Se Chlébnikov è un «viaggiatore incantato», e Brodskij, invece, nel suo esilio, rappresenta il «viaggiatore solitario», Tarkovskij è a metà, l’uno e l’altro, è poeta del sogno e della storia, entrambe le dimensioni trasfigurate nell’alone fiabesco della terribile storia russa, evanescente come un sogno. In Tarkovskij è presenta la imagery dominante della poesia russa del XX secolo che è stata riassunta nella formula: specchio-candela-ombra-sogno, e che dalla Achmàtova passando per Derzavin, Baratynskij e Mandel’štam, giunge oggi fino a Brodskij. Il manierismo debole di certe immagini di Tarkovskij non ha nulla di gratuito o di rococò, ma corrisponde ai movimenti lievi e improvvisi della memoria, d’una memoria inutilizzabile nel mondo che ha conosciuto la barbarie della seconda guerra mondiale; la sua è una poesia da camera, poesia d’un solitario che si rivolge ad altri solitari nella assoluta estraneità al mondo del Potere e della Storia. Lo spietato rigore della metrica e delle rime dei testi originali vuole soltanto ribadire il carattere addomesticato, domato della materia, il virtuosismo tecnico è virtuosismo formale che presuppone il dato dell’esistenza. Il materiale poetico è ciò che rimane della materia viva e palpitante della vita. La rivoluzione fa parte del trapassato remoto, e l’armamentario degli slogans del suo tempo trova il poeta non ostile, bensì completamente estraneo, come se abitasse un altro pianeta, la dacia dove volavano le farfalle. Anche l’orrore degli avvenimenti della propria biografia – come nella poesia «Ospedale da campo», ove viene rivissuto l’episodio dell’amputazione della gamba, avvenuto nel 1943 a seguito della ferita inferta da un proiettile esplosivo presso Velike Luki – viene trasfigurato in atmosfere di sogno e irreali.
La struttura simbolica significativa che presiede la poesia di Tarkovskij è rappresentata dalla opposizione tra la immobilità della storia russa e la direzionalità, la verticalità, il moto unidirezionale della modernità che irrompe con le immagini dei treni che sfrecciano e degli aeroplani che volteggiano. Detta polarità è attraversata dalla figura del poeta-profeta, «cronista del mesozoico», «il Geremia dei tempi futuri» che tiene in mano «l’orologio e il calendario»; strumenti, marchingegni escogitati dall’uomo per tentare di conciliare il tempo oggettivo e il tempo soggettivo, la storia e l’anima, l’immortalità e la caducità. Nella poesia «Vita, vita», il tono sacrale trova d’incanto l’esatta misura d’uno stile ieratico che si staglia in grandiose metafore tridimensionali, dove la potenza delle immagini rimanda alla integrità del poeta, alla sua forza interna, invincibile, che la fede nell’«immortalità» gli restituisce dopo lo scacco del destino e della storia. Sono versi di eccezionale altezza:
Nel mondo non c’è la morte./ Tutti sono immortali. Tutto è immortale./ Non bisogna temere la morte né a diciassette anni/ né a settanta. Esistono soltanto la realtà e la luce,/ in questo mondo non ci sono né buio né morte./ Noi tutti siamo già sulla riva del mare / ed io sono tra quelli che tirano le reti,/ mentre passa a branchi l’immortalità./ Vivete in casa – e la casa non crollerà./ Io evocherò uno qualunque dei secoli,/ entrerò in esso ed in esso una casa costruirò./… Io ogni giorno del passato, come una puntellatura,/ con le mie clavicole ho sostenuto,/ misurai il tempo con la catena dell’agrimensore/ ed attraverso di esso sono passato, come attraverso gli Urali.
L’«immortalità» è qui una metafora oscura che indica l’attraversamento che gli uomini devono operare, nella negatività della storia, di quella distesa grigia e arida rappresentata dal mondo infirmato dalla mortalità dell’individuo. La costellazione simbolico-metaforica è qui: l’onda, la stella, l’uomo, l’uccello, la realtà, i sogni, la morte… e, di nuovo, l’onda. L’epifania della verità avviene «tra gli specchi – riflesso nel recinto/ dei mari e delle città che brillano nel fumo». E la pace dell’«immortalità», dell’«onda» che va dietro l’«onda» è rappresentata dalla «madre (che) piangendo, prende il bimbo in grembo». Le immagini del «grembo materno», delle «erbe infantili», della «città col Cremlino sul fiume» e le altre in numeri variazioni della immagine archetipica materna acquistano plasticità e vigore se proiettate sullo sfondo delle «acque nere», della «riva», della «casa distrutta dalla guerra», etc. che rappresentano lo sfondo luteo della storia, il magma acherontico che investe la coscienza infelice. Compito del poeta è cogliere «la corrispondenza del suono e del colore». La metafora è combinazione di rappresentazioni in funzione di una più ricca, inscindibile unità semantica. Come per Mandel’štam anche in Tarkovskij il mutamento dei significati diviene evidente attraverso il contenuto delle parole nel contesto dell’opera, laddove esse producono vicendevolmente nuovo senso mediante improvvise rimozioni e profonde anamnesi. Con questo metodo si ottengono le parole portanti, si mette in luce la ricchezza delle parole-chiave. Mandel’štam studiò la produzione di queste parole-chiave nel simbolismo oggettivo e psicologico di Innokentij Annenskij. La rifrazione della vita nei simboli poetici è per Mandel’štam accettabile, inaccettabile è l’estrazione di un «simbolismo professionale»; «le immagini sono sventrate come animali da impagliare - scrive Mandel’štam criticando il simbolismo – e imbottite di un contenuto a loro estraneo… Una spaventosa controdanza di “corrispondenze” – che ammiccano l’una all’altra. Un eterno strizzar d’occhio… la rosa rimanda alla fanciulla, la fanciulla alla rosa». Mandel’štam propone «una poetica organica di carattere non normativo, bensì biologico», cioè di «considerare la parola come un’immagine, una rappresentazione verbale… un complesso insieme di fenomeni, un nesso, un sistema»* Tarkovskij ha studiato in Mandel’štam la componente architettonica della sua poesia, la dislocazione spazio-temporale del materiale linguistico, l’assoggettamento del materiale alle esigenze costruttive. Anche in Tarkovskij come in Chlébnikov l’avvenire e il passato coincidono, così come primitivismo e utopia, polarità contraddittorie, vengono risolte con l’indebolimento dell’utopia e con la massiccia immissione di tracce della quotidianità all’interno delle composizioni poetiche. Proprio come in Chlébnikov, il futuro diventa esperienza anteriore, ciò che deve accadere è già avvenuto, il futuro non è ciò che sarà ma ciò che è già stato. Probabilmente, una tale concezione rivela l’influenza delle teorie di Fedorov, il suo concetto della storia come progetto e simultaneità di tutte le generazioni. Per Tarkovskij il mondo tecnologico, la modernità, sono inconciliabilmente ostili alla silvestre innocenza dello stato di natura; del resto, tutte le sue metafore sono rigorosamente tratte dalla civiltà agricola («la svasatura dell’imbuto», «la ruota del vasaio», «gli occhi dell’erba», «il catino, la brocca», «la gonna di cotone stampato», etc. – Il tessuto quietamente discorsivo dei testi stride con le metafore lampeggianti e le vertiginose accelerazioni; v’è un’algebra delle corrispondenze, vi sono dei cunicoli sotterranei, una densità semantica, rimandi espliciti e impliciti alla grande tradizione della poesia russa, in particolare a Mandel’štam, con il quale condivide il concetto di metafora come costruzione complessa fondata su rapporti di inerenza. Non è affatto un caso che le ultime bozze di quello che avrebbe dovuto essere il suo primo volume di versi (corre l’anno 1946) ad una lettura attenta da parte di un funzionario di partito, eufemisticamente denominata «recensione per uso interno», recitava: «poeta di grande talento, Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa a cui appartengono anche Achmàtova, Gumilev, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevič, e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». La recensione sfavorevole indurrà la casa editrice Sovetsjij pisatel’ a distruggere il piombo delle matrici.
Il rifugio in una lirica della natura è lo stratagemma residuo che resta al poeta che non intenda sottomettersi all’estetica zdanoviana e che voglia sottrarsi al kitsch dell’arte del realismo socialista. I processi autoritari di accumulazione forzata del capitale e la erezione di uno stato socialista basato sulla socializzazione dei rapporti di produzione, erano le condizioni più svantaggiose per la nascita della poesia, e tali condizioni imposero l’assunzione della forma della poesia lirica.
Tarkovskij prende le distanze dalla assunzione acritica del concetto di «natura»; dichiara il poeta russo: «non v’è libertà nella natura», ché altrimenti finirebbe dritta nell’anacronismo, non soltanto perché il suo contenuto di verità è scomparso ma soprattutto perché la natura è inattuale; la celebrazione del passato remoto sarebbe il ripristino di un rito museificato, deificato. Per Tarkovskij «il nostro passato è in tutto simile a una minaccia». È questa la posizione di partenza della sua poesia: la percezione che l’arte, a fronte della stato socialista, non è altro che un diversivo all’orrore, «crittografia del dolore, anamnesi di ciò che è stato sconfitto».*
Sotto le condizioni imposte dalla amministrazione totale dello stato socialista sovietico, unica via di uscita è la certezza che «il vento che irrompe violento nella vita – dissolverà – le farfalle che giocano col fuoco». Sembra una chiarissima premonizione della fine dell’Impero, della rovinosa caduta degli idoli. Soltanto un veggente che vive nella propria veggenza poteva possedere strumenti di auscultazione così sofisticati e sensibili da intravedere con tanto anticipo gli esiti finali. A ben leggere, i testi dei grandi poeti ci indicano sempre il cammino del futuro: «La tempesta qua e là per la Russia / scagliava loro dei bengala. ( Ed era soltanto l’inizio», scrive Tarkovskij in una poesia del 1976. I poeti del Pantheon Nero avevano già messo su carta il colore nero dell’orrore. In Tarkovskij e in Chlébnikov la farfalla e il cigno bianco sono ipostasi del poeta e della bellezza: il «candido angelo», il «cigno morente», la «candida neve» sono simboli che annunciano la caducità della bellezza; la «notte», ovviamente, è il luogo della morte, ove «più leggera dell’ala di un uccello» trascorre la bellezza «come una vertigine». Ma la «bellezza» può anche condurre «dall’altra parte dello specchio»: «Nel cristallo pulsavano i fiumi, / fumavano le montagne, rilucevano i mari». Così, la morte può essere detronizzata soltanto dall’amore che tutto trasfigura, perché la via che conduce alla morte si chiama «destino»: «quando il destino ricalcava le orme dietro di noi, / come un pazzo col rasoio in mano». Questa complessa rete di simboli fondata sulla opposizione binaria luce-tenebra regge tutta la poesia di Tarkovskij, ed infonde spessore analogico alle similitudini Il poeta è, di volta in volta, «Nestore, cronista del mesozoico», «Geremia dei tempi futuri», perché il poeta sa «della morte più cose dei morti», e il suo romanzo è preda dell’«orologio» e del «calendario», del «passato» e del «futuro»; soltanto la morte, «la terribile bocca della regina Kore» può fornire il viatico per la «verità». Ed ecco i simboli della «pioggia», del «mare» e del «ruscello» che richiamano l’idea del fluire dell’universo nell’«irripetibile movimento dell’erba», nella «immortalità»; il tempo soggettivo fluisce e sfocia nel tempo oggettivo: «io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza». La terribile storia russa detta a Tarkovskij i versi tra i più commoventi e saldi della poesia russa del XX secolo: «vivete in casa – e la casa non crollerà (…) il futuro si compie ora». Una dichiarazione di fede così alta trova concrezione in questi versi monumentali, scanditi con lenta, sacrale progressione.
*
T.W. Adorno, Teoria estetica Einaudi, Torino, 1975
Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij POESIE
traduzione di Donata Bartolomeo
in russo: Арсений Александрович Тарковский[?](Elisavetgrad, 25 giugno 1907 – Mosca, 27 maggio 1989) è stato un poeta e traduttore russo, di origine ucraina dal temperamento alquanto instabile, padre del famoso regista Andrej Arsen'evič Tarkovskij.
Alla fine degli anni venti Arsenij Tarkovskij inizia la collaborazione con alcune riviste e scrivedrammi per la radio sovietica. Nel 1932, accusato di misticismo, deve abbandonare il suo lavoro e si dedica quindi all’attività di traduttore dall’arabo, dall’ebraico, dall’armeno, dal georgiano, dal turkmeno e da altre lingue ancora. Inizia, sempre in quel periodo, a frequentare Anna Achmatova e Osip Mandel'štam, attirando su di sé ulteriori attenzioni da parte del regime, che gli costeranno una censura durata sino agli anni sessanta. Arruolato come soldato nella seconda guerra mondiale, nel 1943 viene insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in battaglia e in seguito, gravemente ferito, deve subire l’amputazione di una gamba. A partire dal 1962 inizia la pubblicazione delle sue poesie, che consisteranno in una decina di raccolte in tutto. Muore a Mosca il 27 maggio 1989.
***
E il buio e la vanità non sfioriranno
la rosa di giugno sulla finestra
e la via sarà luminosa
e il mondo sarà benedetto
e benedetta la mia vita
come lo fu tanti anni fa’.
Come tanti anni fa’ – quando
gli occhi appena aperti
non capivano come fare,
l’acqua piombò sull’erba
e, con essa, il primo temporale
già imparava a parlare.
In questo giorno io vidi la luce,
l’erba rumoreggiava al di là della finestra,
oscillando nelle boccette di vetro
e si fermò sulla soglia degli anni
con le ceste nelle mani ed in casa,
ridendo, entrò la fioraia…
La pioggia perpendicolare lavò l’erba
e dal basso la rondine prese il volo
e questo giorno fu il primo
tra quelli che, come per miracolo, in realtà
brillavano, come sfere, frantumandosi
nella rugiada su un petalo qualunque.
(1933)
La culla
Ad Andrej T.*
Lei:
Passante, perché non dormi per tutta la notte,
perché ti trascini e ti trascini,
dici sempre le stesse cose
e non fai dormire il bambino?
Chi ti ascolta ancora?
Cosa hai da dividere con me?
Lui, come un bianco colombo, respira
nella culla fatta di corteccia di tiglio.
Lui:
Scende la sera, i campi diventano azzurri, la terra orfana.
Chi mi aiuta ad attingere l’acqua dal pozzo
profondo?
Non ho nulla, ho perduto tutto lungo il cammino.
Dico addio al giorno, incontro la stella. Dammi da bere.
Lei:
Dove c’è il pozzo, c’è l’acqua
ma il pozzo è lungo la strada.
Non posso darti da bere
ed abbandonare il bambino.
Ecco solleva le palpebre
ed il serale, latteo luppolo
avvolge, lambisce
e fa dondolare la culla.
Lui:
Aprimi la porta, fammi entrare, prendi da me quello che vuoi –
la luce della sera, un mestolo di acero, la piantaggine.
(1933)
* Poesia dedicata al figlio Andrej
***
Avevo appuntato il lungo indirizzo su un brandello di carta
non riuscivo in alcun modo a congedarmi e tenevo il foglietto in mano.
La luce si spense sul lastricato. Sulle ciglia, sulla pelliccia
E sui guanti grigi cominciava a cadere una neve molle.
Andava il lampionista, si voltò, vicino a noi accese un lampione,
si mise a fischiare, il lampione balbettò come il corno di un pastore
e aleggiò una goffa, inconcludente conversazione
più leggera di una piuma, più minuta di una frazione…
Dieci anni sono passati da allora.
Persino l’indirizzo ho perduto, persino il nome ho dimenticato.
E dopo un’altra ho amato, quella che più appassionatamente di tutte ho amato.
Ma tu vai – e cade una goccia dal tetto: una casa e una nicchia alla porta,
una palla bianca sulla nicchia rotonda e leggi: chi abita?
Ci sono porte speciali e case speciali,
c’è un indirizzo speciale, di preciso la giovinezza stessa.
(1935)
Dedica
I
In me vive la profonda inquietudine
delle chiome di legno, che non dormono di notte,
io, come i versi, predico la peculiarità
conferite alle persone e alle cose.
Per il fatto che respiravo, come respira la parola,
io ero l’eco tra gli alunni,
ero la risonanza della voce altrui,
smarrita nel coro delle voci.
Il mondo, come un bambino di sette anni, è agile;
la tempesta fioriva – il mondo, come un fanciullo, si placava
ma cumuli di errori ereditati
giacevano in quei giorni nelle mie mani.
Tutta la mia vita arrivò e mi stava accanto,
come se davvero fossero passati tanti anni
e con estraneo, verdastro sguardo
mi rispose lo specchio.
Io sobbalzavo ad ogni suono bugiardo,
pensavo: fammi vuotare le mani.
E, dormendo, liberavo le mani
per imparare di nuovo a parlare.
Spaventandomi, tastavo gli oggetti –
I corpi delle meduse nel mare scintillante,
la radice degli alberi, rianimata dalla musica
e il marmo, riverso verso la stella.
Ed io imparai a parlare, come nell’infanzia
col mio libro balbuziente.
Ma se i figli serberanno memoria dell’eredità
tutto quello che posseggo, a loro lascerò.
II
E ciascuno ricorda la luminosa città dell’infanzia,
l’aul sulle montagne, la stanitsa sul fiume,
dove dai padri abbiamo preso in eredità
l’amore per la terra, per sempre cara.
Dove le madri accanto alle nostre culle
Non dormivano di notte, dove abbiamo imparato,
dove per la prima ispirazione fremevano
sul libro le nostre giovani menti.
Dove per la prima volta abbiamo amato, senza temere
di ammettere che eravamo cresciuti nella lotta,
dove abbiamo giurato davanti alla nostra coscienza
eterno amore a te…
Rumoreggiano gli alberi del viale cittadino,
come fiaccole di verde fuoco.
Io te li darò, sono più necessari a te,
vieni, prendi da me gli alberi.
Vieni, prendi tutta la mia città, sarà
tua - e tu ti addormenterai nella mia erba.
Il sibilo delle mie rondini ti sveglierà,
io te le darò, sono più necessarie a te.
Tutto quello che ho vissuto per tanti anni da allora,
per tante verste dal tuo ricordo,
tu lo evocherai, senza compiere il miracolo,
senza troncare il complotto delle ombre.
Io sono il primo ospite nel giorno della tua nascita
E mi è stato concesso di vivere in due assieme a te,
di entrare nei tuoi sogni notturni
e di riflettermi nel tuo specchio.
III
Come ragnatela si tende il residuo
di tutto quello che mi sembrava caro
ed è per me strano che una fittizia impronta
lascerò ai miei eredi.
E forse, i figli che giocano,
pur ricordandosi di me in estate,
non distingueranno le sconnesse interiezioni
dalle parole che indicano la cecità.
Io non ero cieco. Vedevo tutto quello che era,
che diveniva la vita dei miei coetanei
che il tempo con la sua firma convalidò
e portò dinanzi agli occhi sonnolenti dei ciechi.
Io vedevo tutto quello che era visibile ai vedenti
come la luce dell’alba attraverso il telaio dei rami.
Prendi anche l’amaro, che ingiustamente nascondiamo
ai nostri figli e alle nostre figlie.
IV
Così io imparai di nuovo a parlare
e ricevetti il difficile dono nell’anno terribile
in cui l’amore bruciava le mie gote
e stringeva al cuore il ghiaccio mortale.
E la gelosia si stringeva al capezzale
E mi sussurrava all’orecchio:
• Guarda,
mentre tu dormi, torturato dall’amore,
hanno spento i lampioni della città.
Io, fedele, ti aprirò gli occhi:
liberata per sempre per te,
tra le lenzuola, sul far dell’alba rosata,
giace la tua ultima stella…
Ed io correvo dalla mia soglia
là, dove la luce dà una sventola sul viso,
lungo la città mi incalzava l’inquietudine –
ed io vidi il telaio dei fulmini.
Volavano come uno stormo di cigni,
non li contai, erano più di cento,
volavano lontano sulla piazza deserta
e l’altezza faceva dondolare i loro becchi.
Volavano così lentamente che sembrava –
arda pure davanti agli occhi stessi il nuovo giorno –
come se questa amarezza si fermasse per sempre,
i loro riflessi resteranno vicino a noi.
Prendi anche loro, sono più necessari a te
che li tocchi la mano infantile
e sfiora la gelosia ancora più delicatamente
perché l’amore ti sia lieve.
V
Ed il cielo si fece azzurro, rinascendo,
e l’altezza cominciò ad abbassarsi
e sotto le ruote del primo tram
si stendeva il selciato dell’alto ponte.
E nell’ora in cui la tua gigantesca città
tutta in verde si spande all’alba –
tu giaci, figlio, nel grembo materno
nella semitrasparente delicata bolla.
E, forse, tu non vedi nulla
ma il sole nuota sopra di te…
(1934-1937)
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Ritratto
Non c’è nessuno con me.
Sulla parete pende un ritratto.
Lungo gli occhi ciechi di una vecchia
vanno le mosche,
le mosche,
le mosche.
“Stai bene – dico –
sotto il vetro nel tuo paradiso?”
Lungo la guancia scivola una mosca,
mi risponde la vecchia:
“E tu, a casa tua
stai bene da solo?”
(1937)
Io ho già sentito questa canzone
Io sono nato così tanto tempo fa’
che sento a volte
come sopra di me avanza
l’acqua gelata.
Ma io giaccio sul fondo del fiume
e se cantare una canzone –
dall’erba cominceremo, attingeremo la sabbia
e non schiuderanno le labbra.
Io sono nato così tanto tempo fa’
che non posso parlare
ho sognato la città
sulla riva pietrosa.
Ma io giaccio sul fondo del fiume
e vedo dall’acqua
la luce lontana, l’alta casa,
il verde raggio della stella.
Io sono nato così tanto tempo fa’
che se tu verrai
e mi metterai la mano sugli occhi,
questa allora sarà una bugia,
ma io non posso trattenerti
e se tu andrai via
ed io non ti seguirò, come un cieco,
questa allora sarà una bugia.
(1938)
La pioggia
Come desideravo infondere nella poesia
tutto questo universo che cambia aspetto:
l’irripetibile movimento dell’erba,
la momentanea e vaga solennità
degli alberi, la dispettosa e alata
secca sabbia, che cinguetta come gli uccelli.
Tutto questo universo, meraviglioso e gibboso
come un albero lungo la riva dell’Infull.
Là io sentii i primi rombi
del temporale. Mise sotto i piedi
il caparbio fusto ed io vidi la chioma –
il verde modello del rombo temporalesco.
Ma la pioggia correva lungo il pendio d’argilla,
incalzata dalle saette, custode dei rami,
ormai in tutto simile ad Atteone.
Essa cadeva ai miei piedi a metà strada.
(1938)
Catalogo delle stelle
Finora non ci avevo pensato.
A che mi serve un catalogo delle stelle?
Nel catalogo dieci milioni
di numeri di telefoni celesti,
dieci milioni di numeri
di telefono di nebbie e mondi,
codice pieno di luminescenza e scintillio,
elenco di abbonati dell’universo.
Io so qual è il nome della stella,
troverò anche il suo telefono,
aspetterò il turno della terra,
girerò l’alfabeto d’acciaio:
• L – 13 – 40 – 25
Io non so dove cercarti.
Si metterà a cantare la membrana del telefono:
• Risponde Alfa Orione.
• Sono in viaggio, io ora sono una stella.
Io ti ho dimenticato per sempre.
Sono una stella – sorellina dell’aurora,
non vorrò nemmeno venirti in sogno.
Di te non mi importa più nulla.
Telefonami tra trecento anni.
(1940-1945)
***
Dal mattino io ti aspettavo fino a sera.
Loro prevedevano che non saresti venuta.
Ricordi che tempo faceva?
Come se fosse festa! Ed io uscivo senza cappotto.
Oggi sei arrivata e prepararono per noi
un giorno particolarmente nuvoloso
e la pioggia ed un’ora particolarmente tarda
e le gocce corrono lungo i rami freddi.
Non placare con la parola, non asciugare con il fazzoletto…
(1941)
La pioggia notturna
Allora erano le gocce di pioggia
che volavano nella tenebra.
Secondo il capriccio del caso, per la prima volta
noi ci incontrammo in un giorno piovoso.
E soltanto gli arcobaleni nella nebbia,
attorno ai pallidi fanali,
ti parlarono in anticipo
della prossimità del mio amore,
del fatto che l’estate era passata,
che la vita è irrequieta e luminosa
e di come tu non vivevi, ma poco
così poco sulla terra vivevi.
Come lacrime, le gocce di pioggia
splendevano sul tuo viso
ma io ancora non sapevo quali
pazzie avremmo vissuto.
Io sento la tua voce lontana,
noi non possiamo aiutarci
e la pioggia per tutta la notte picchia sul tetto,
così come anche allora ha picchiato per tutta la notte.
(1943)
La caccia
Finisce la caccia.
Mi hanno braccato.
Un levriero mi sta attaccato alla coscia.
Ho rovesciato la testa così che le scapole mi si sono piantate
nelle scapole.
Mando un suono.
Mi si accorciano i tendini.
Mi colpiscono nell’orecchio con la canna di un fucile.
Cade sul fianco, aggrappandosi con le corna alle verghe bagnate.
Vedo l’occhio smorto con qualche stelo d’erba attaccato,
nero, mela ossificata senza riflesso.
Legheranno le zampe ed infileranno una pertica,
se lo butteranno dietro le spalle…
(1944)
***
Tu, come una farfalla bianca e nera,
non come volevamo noi selvaggiamente e coraggiosamente,
nella mia casa entrasti volando,
non fare una magia su di me, non rendere
il mio cuore più amaro dell’amaro.
La tenebra, ispirata dalla luce,
la stessa oscura fedeltà ai voti
e il fazzoletto che scende dalle spalle.
Ma anche in questa trepidazione
lo stesso veleno e una conversazione non in russo.
(1946)
***
Di nuovo io in un’altra lingua
ascolto certi pettegolezzi
o che ci sono zattere sul fiume
o che cadono foglie sul fiume.
L’autunno, chiaramente, è davvero bello.
O che lei fa birichinate
o la maligna viva anima
attacca discorso con se stessa.
Che io stesso non sono abituato a me…
Potessi nuotare fino a sconosciute bassezze,
potessi cantare, come canta lo zatteriere
più dolorosamente, più sicuramente, più coraggiosamente.
Infilarsi l’impermeabile sulla zattera,
poter cantare, calcando il cappello sulle sopracciglia
come canta sul fiume lo zatteriere
del suo irrecuperabile amore.
(1946)
Colombi sulla piazza
Non sono peggiore, migliore degli altri
e vado sulla piazza assieme a tutti
a comprare semi di canapa
e a dar da mangiare ai colombi di città,
perché ho finito di scolpirli,
perché con le mie mani
ho impastato l’argilla, come i morti nella fossa,
perché per le ferite di baionetta
ho dormito come un ghiro, come gli altri,
nell’argilla appiccicosa più viva dei vivi
perché dall’argilla della Russia
ho finito di scolpirli con tutto il popolo.
(1947)
T. O. – T.
Ho paura che troppo tardi
mi sono messo a sognare la felicità.
Ho paura che troppo tardi
io mi volsi verso il tuo paese
senza stelle e straniero.
Sono consapevole di come
- nella notte oscura, senza fuoco,
sono consapevole di come,
irrequieta, giovane,
vivi senza di me.
Anche io, come gli altri,
nella tarda ora della mia malinconia,
anche io so come gli altri
guardano queste malaugurate,
troppo scure pupille.
E nella mia notte gelosa
i tuoi tacchetti picchiano
e nella mia notte gelosa
sopra di te aleggia la meraviglia –
il fumo dei primi disgeli.
Sono stato anche io giovane un tempo.
Tu sei arrivata da quelle notti.
Sono stato anche io giovane un tempo,
comprendo il freddo soffocante,
il ghiaccio primaverile nel tuo sangue.
(1947)
***
Basse, umide
erano le stanze nella casa.
Chiamarla Maria
è amaro per il mio cuore.
Tre finestrelle, tre scalini,
la scura selvaggia vite.
Il povero genio della povera vita
dalla finestrella guarda nel giardino.
Ed il decimo valzer di Chopin
non suonerà fino alla fine,
del fieno tagliato di fresco
scorrerà vicino un torrente.
Non dimenticherai? Non tradirai?
Non lo racconterai a nessuno?
Ma dopo fu venduto il Renis,*
soltanto la seta frusciava nella casa.
L’azzurra seta del semplice abito
e l’anima era ancora dall’ultimo abbraccio
più leggera dell’ala di un uccello.
Coperti di foglie, cadute durante la notte,
i bassi scalini davanti alla porta
e alle dita dimagrite
un anello di turchese
ed un rossore da delirio,
gli occhi grigio-azzurri
e la prima danza dei cristalli di neve.
La vite annerita.
La pelliccia sulle spalle, ride,
non infilerà le braccia.
Il vento soffierà, la neve si alzerà…
Ecco tutto ciò per cui la morte è viva.
(1947)
* Marca di pianoforte.
Poeti
Noi barattiamo le stelle per clarinetti d’uccello
e flauti, fintanto che sono vivi i poeti,
ed i flauti per azzurre spazzole di fiori,
battole di libellule e fruste di pastori.
Come è strano pensare che abbiamo barattato
per le rime, nelle quali c’è tanto dolore,
per la voce, nella quale ci sono sia il sibilo che il gesto,
il nostro radicale, sotterraneo onore.
Ma voi ci amavate, ci lodavate,
perché mai giacete tomba vicina a tomba
ed in silenzio navigate, inclinandovi nelle barche,
falciatore, lettore dei libri di Salmi, principe dei falegnami?
(1952)
***
Ho studiato l’erba, aprendo il quaderno
e l’erba ha iniziato, come un flauto, a suonare.
Io coglievo la corrispondenza del suono e del colore
e, quando la libellula il suo inno intonava
andando tra i verdi tasti come una cometa,
io già sapevo che qualunque gocciolina di rugiada è una lacrima.
Sapevo che ogni faccetta dell’enorme occhio,
in ogni arcobaleno delle ali splendenti
dimora la parola più ardente del profeta
ed il mistero ad Adamo io, come per miracolo, schiudevo.
Io amavo il mio straziante lavoro, questa costruzione
di parole, collegate da luce propria, l’enigma
dei sentimenti confusi e la semplice soluzione della mente,
nella parola ‘verità’ mi pareva di vedere la verità stessa,
la mia lingua era veritiera, come un’analisi spettrale
ma le parole si prostravano ai miei piedi.
Ed ancora io dirò: mio vero interlocutore,
ho sentito un quarto di rumore, ho visto a mezza luce,
tuttavia non umiliai né il prossimo né le erbe,
non offesi con l’indifferenza la terra paterna
e finora ho lavorato sulla terra, ricevendo
il dono dell’acqua fredda e del pane fragrante,
sopra di me stava un cielo senza fondo.
Le stelle mi cadevano sulla manica.
(1956)
***
Io mi congedo da tutto ciò che un tempo sono stato
e ciò che ho disprezzato, odiato, amato.
Comincia per me una nuova vita
ed io mi congedo dalla pelle del tempo che fu
da me stesso non desidero più notizie
e mi congedo da me fino al midollo.
Ed ormai, infine, sto al di sopra di me stesso,
supero il mio odioso animo,
lascio nel vuoto il mio io,
con indifferenza guardo me – lui.
Salve, mia corazza di ghiaccio,
salve, pane senza di me e vino senza di me.
Sogni della notte e farfalle del giorno,
salve, tutto senza di me e voi tutti senza di me!
Leggo pagine di libri non scritti,
sento la lingua rotonda della mela rotonda,
sento il bianco parlare della nuvola bianca
ma non sono capace di conservare per voi una sola parola.
Perché io ero un povero vaso
E non so perché ruppi me stesso.
Non tengo più nella mano la mobile sfera
e non vi dirò nemmeno una parola senza parola.
Ma un tempo dentro di me trovavano le parole
La gente, i pesci e le pietre, le foglie e l’erba.
(1957)
***
Tarda eredità,
spettro, suono vuoto,
falso modello dell’infanzia,
mia povera città.
Grava sulle mie spalle
il peso di tanti anni.
Alla prova dei fatti, non c’è
significato in questo incontro.
Qui adesso un altro
cielo oltre la finestra –
di un azzurro fumoso
con una colomba bianca.
All’improvviso, troppo all’improvviso,
visibile da lontano,
rosseggia una tenda
nella fenditura della finestra.
E, senza riconoscere,
mi segue con lo sguardo
la maschera di cera
degli anni remoti.
(1958)
Mia cara vita
Amo la vita ed ho paura di morire.
Se vedessero come mi contorco sotto la corrente
e mi piego, come una carpa nelle mani del pescatore
quando mi immedesimo nelle parole.
Ma non sono un pesce né un pescatore.
Ed io come angolo tra i viventi
assomiglio d’aspetto a Raskol’nikov .
Come un violino, tengo in mano la mia offesa.
Dilaniami – non cambierò in volto.
La vita è bella, soprattutto alla fine,
anche sotto la pioggia e senza una lira in tasca,
anche nel giorno del giudizio – con un ago in gola.
Ah, questo sogno! Mia cara vita, respira,
prendi i miei ultimi spiccioli,
non lasciare che mi butti a capofitto
nella sferica vastità del mondo.
(1958)
***
Sul nero di una casa incendiata
un’aquila respira nella steppa deserta.
Così, ecco cosa mi è tanto dolorosamente noto fin dall’infanzia:
la vista della Roma dei Cesari –
un’aquila gibbosa e né casa, né fumo…
Ma tu, mio cuore, sopporta anche questo.
(1958)
In mezzo al mondo
Io sono un uomo, io in mezzo al mondo,
dietro di me miriadi di infusori,
davanti a me miriadi di stelle.
Io caddi tra essi lungo disteso –
mare che unisce due rive,
ponte che unisce due universi.
Io sono Nestore, cronista del mesozoico,
sono il Geremia dei tempi futuri.
Tenendo in mano l’orologio e il calendario
mi appassionerò al futuro, come la Russia,
e maledirò il passato, come un povero zar.
Io so della morte più cose dei morti,
io tra le rive la cosa più viva.
E – dio mio! – una farfalla
come una fanciulla, ride sopra di me
come uno straccetto di seta gialla.
(1958)
Kore
Quando io l’eterno distacco
berrò d’un fiato, come mercurio ghiacciato,
non andare via ma dammi la mano
e accompagnami nell’ultimo viaggio.
Fermati sulla soglia della morte
fino all’oscurità, come un raggio diurno,
resta con me ancora un po’almeno a tre arscin sopra di me.
La terribile bocca della regina Kore
ci dà il benvenuto con un sorriso
e mettono l’anima a nudo gli sguardi
dei suoi ciechi, lugubri occhi.
(1958)
T. O. – T.
Serale, benedetta
dalle ali grigio-azzurre luce!
Come da una tomba
ti seguo con lo sguardo.
Ringrazio per ogni
sorso di viva acqua,
da te donato
nei momenti dell’estrema sete.
Per ogni movimento
delle tue mani fresche,
per il fatto che consolazione
non troverò attorno.
Perché tu, andando via,
ti porti la speranza
e la stoffa del tuo vestito
è di vento e di pioggia.
(1958)
***
Ricordavo città che non ci sono più
e la cosa strana è che esistevano prima
nelle castagne e nelle candele, nell’abituccio di una ragazza
con la partenza festiva delle linee e dei vagoni,
nella città verde, dove regnava un poeta
sulla collezione botanica, nella speranza
di accendere nell’ignorante il fuoco d’Italia
e celebrare i rosei borghesucci al tramonto della vita.
Nella scriteriata giovinezza ci sembrano capisaldi
il tempo e la società ma dopo la testa gira
così selvaggiamente, quando si leverà il sacro
semplice coraggio dinanzi all’urlo fau-due
e l’essenza non sta nell’oro delle sale di parata e nelle stanze da letto
ma nelle povere gobbe e nelle piccole buche delle macerie.
(1958)
Il vento
La mia anima si rattristò di notte.
Ma io amavo l’oscurità fatta a pezzi,
sferzata dal vento
e le stelle che brillano d’estate
sui giardini bagnati di settembre,
come farfalle dagli occhi ciechi
e sull’untuoso fiume zigano
il ponte oscillante e la donna col fazzoletto
che scendeva dalle spalle sulla lenta acqua
e queste mani, come innanzi ad una sciagura.
E sembra che lei sia viva,
viva come prima ma le sue parole
dalle umide elle adesso non esprimevano
né felicità né desideri né dolori
ed il pensiero non le collegava più
come usava al mondo tra i viventi.
Le parole ardevano come candele al vento
e si spegnevano come se sulle sue spalle si stendesse
tutto il dolore di tutti i tempi. Noi camminavamo vicini
ma questo dolore come assenzio della terra
lei già non sfiorava più con i piedi
e a me sembrava più viva.
Un tempo aveva un nome.
Il vento di settembre sulla mia casa
si precipiterà –
a volte sferraglia nelle serrature
a volte mi sfiora i capelli con la mani.
(1959)
Il manoscritto
Ad Anna Achmatova
Ho finito il libro ed ho detto basta
non posso più rileggere il manoscritto.
Il mio destino si è bruciato tra le righe
mentre l’anima cambiava rivestimento.
Così il figliol prodigo si strappa la camicia dalle spalle
così il sale dei mari e la polvere delle strade terrestri
benedice e maledice il profeta,
che da solo camminava sugli angeli.
Io sono quello che ha vissuto al suo tempo
ma non ero io. Io il più giovane della famiglia
degli uomini e degli uccelli, io ho amato insieme a tutti
e non abbandonerò il banchetto dei viventi –
diretto sigillo del loro onore familiare,
diretto vocabolario dei legami di radice.
(1960)
Cose terrene
Quand’anche il mio destino avesse voluto
che io giacessi nella culla degli dei,
la nutrice celeste mi avrebbe allevato
col sacro latte delle nuvole
e sarei divenuto il dio di un ruscello
o di un giardino –
ma io sono un uomo, non ho bisogno dell’immortalità:
è terribile un destino non terreno.
Grazie perché il sorriso non ha contratto le mie labbra
sotto il sale ed il fiele della terra.
Ebbene, addio, olimpico violino,
non deridermi, non decantarmi.
(1960)
Notte di neve – Vienna
Tu sei folle, Isora, folle e cattiva
hai donato a qualcuno il tuo anello col veleno
e al di là della porta della bettola aspettavi zitta zitta.
Mozart, canta senza rattristarti, la morte è alleata della gloria.
Ah, Isora, sono belli i tuoi occhi
e più neri del tuo animo nero e amaro.
La morte è vergognosa come il dolore. Aspetta, ormai
presto
nulla, adesso imputridirà, Isora.
Così vola, senza sfiorare le nevi col piede.
Già qualcuno deve riempire le orecchie di sordità
e gli occhi di cecità, c’è già la fame,
il fanale di un ospedale e una vecchia infermiera.
(1960)
Il piffero della steppa
Vivevano, combattevano, pativano la fame
morivano serenamente da soli.
Io non sono un pittore, non mi servono
i dettagli, prenderò meglio un sol.
Di tutto il largo consumo della terra
mi hanno portato soltanto un piffero
ho preso poco dalla terra per il cielo,
ho preso di più dal cielo per la terra.
Scuotendo il berretto, ho lasciato cadere gli astri,
dalla manica ho lasciato partire gli uccelli.
Da tempo la terra si è scordata di me
sebbene sia viva per il mio rimeggiare.
II
Ad ogni suono corrisponde un’eco sulla terra.
I pastori bollivano il culesc sulla caldaia,
le pecore si grattavano attorno a noi
e battevano i neri ciabattini.
A che mi servono i soldi? Gli onori, la gloria
nella steppa serale senza fine e confini?
Voglio mangiare con Ovidio il cacio pecorino
e gemere sulla riva del Don
senza distinguere le voci lontane,
senza aspettare le vele benedette.
III
Dove Ovidio ha tradotto
in latino la tempesta,
io ho bevuto l’azzurro della steppa
e ho cucinato una zuppa di molluschi.
E col fuoco della disgrazia da parte a parte
ho ripulito soffiando il piffero
e per questo gli accordi cantano, come Mariula
e per questo nella nostra
famiglia non manca la pecora nera
ed è bella la mia
libertà del Don.
Dove lui scaldava per il freddo
una focaccia sul palmo delle mani,
là la stella del sud
sta nella volta celeste.
IV
Terra di steppa, infruttuosa,
infiammabile ma dentro vi è per il cuore
l’osseo violino del grillo campestre
e la gloria umiliata dell’imperatore.
E dov’è il mio violino? Lo sa Dio.
Ricordando l’esilio di un altro,
con Ovidio anch’io a dieci a dieci
ho sfogliato il quaderno sulla riva del Don.
Per il giallo e per il fiele ho amato questa regione
e dicevo: “Canta, mio grillo!”
E dicevo: “Sette anni di cammino fino a Roma!”
E adesso sono lontano dalla steppa .
Vivi almeno tu, sorso di secco respiro,
capanna, pelliccia, latte di pecora.
(1960-1964)
Primi appuntamenti
Dei nostri incontri ogni istante
noi festeggiavamo, come un’epifania,
soli nel mondo intero. Tu eri
coraggiosa e più leggera dell’ala di un uccello,
lungo la scala, come una vertigine,
scendevi saltando i gradini e conducevi
attraverso l’umido lillà nei tuoi possedimenti
dall’altra parte dello specchio.
Quando la notte calava, la grazia
mi veniva concessa, le porte degli altari
si aprivano e nell’oscurità splendeva
e lentamente si tendeva la nudità.
E, svegliandomi, “sii benedetta”
dicevo e sapevo che la mia benedizione
era ingiuriosa: tu dormivi
e per te il lillà si allungava dal tavolo
a sfiorare le palpebre con l’azzurro del mondo
e le palpebre, sfiorate dall’azzurro,
erano tranquille e la mano tiepida.
Ma nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumavano le montagne, rilucevano i mari
e tu tenevi nel palmo la sfera
di cristallo e dormivi nel trono
e – quant’è vero iddio – eri mia.
Tu ti svegliasti e trasformasti
il vocabolario quotidiano dell’uomo
e le parole si riempiono nella gola
del vigore di un suono nuovo e la parola “tu”
svela il suo nuovo significato: “re”.
Nel mondo tutto si trasfigurò, persino
le cose semplici – il catino, la brocca – quando
stava, come di guardia, tra di noi
l’acqua stratiforme e dura.
Ci condusse non si sa dove.
Davanti a noi cedevano il passo, come miraggi,
città costruite come per miracolo,
la stessa menta si stendeva ai nostri piedi
e gli uccelli andavano con noi lungo la strada
ed i pesci salivano lungo il fiume
ed il cielo si spiegava davanti agli occhi…
Quando il destino ricalcava le orme dietro di noi,
come un pazzo col rasoio in mano.
(1962)
Il poeta*
Viveva al mondo un cavaliere povero…
A. S. Puskin
Questo libro tempo fa **
nel corridoio del Gosizdat
me lo regalò un poeta,
il libro si è spiegazzato, lacerato
ed il poeta tra i vivi non c’è.
Dicevano che nell’aspetto
il poeta aveva un che di uccello
e di egiziano,
era la grandezza indigente
e l’onore snervato.
Come temeva la distesa dei corridoi! La perseveranza
dei creditori! Egli come un regalo
nel selvaggio assalto delle smancerie
accettava il suo onorario.
Così striscia sullo schermo
con inchini, come un ubriaco,
il vecchio clown con la tuba
e, come uno sobrio, nasconde la ferita
sotto il gilet di piquet.
Irrobustita dalla rima binaria,
è finita la periodica impresa –
Buon viaggio a te, addio!
Salute, festa di onorario
nero bianco pane tondo.
Così deve vivere il poeta.
Anche io vago per il mondo,
temo la solitudine,
per la centesima volta questo libro
nella solitudine prendo in mano.
Là nei versi ci sono pochi paesaggi,
soltanto un buono a nulla della stazione
e la confusione del teatro,
soltanto gente come capitava,
mercato, coda, prigione.
La vita, probabilmente, disse un sacco di sciocchezze,
lo stesso destino parlò a vanvera.
(1963)
* Poesia dedicata a O. Mandel’štam
** Si tratta della raccolta di versi “La pietra” dello stesso Mandel’štam
Ospedale da campo
Girarono il tavolo verso la luce. Io giacevo
con la testa all’ingiù, come carne al peso,
la mia anima palpitava nella rete
ed io mi vedevo dal di fuori:
senza aggiunte ero equilibrato
come un grasso peso del mercato.
Questo avveniva
nel centro di uno scudo di neve
scheggiato nella parte occidentale,
nel circolo di paludi che non gelano,
di alberi con le gambe massacrate
e di piccole stazioni ferroviarie
con crani spaccati, nere
per i passi nella neve, ora doppi, ora
tripli. Quel giorno il tempo si fermò,
le ore non passavano e le anime dei treni
lungo le scarpate non sfrecciavano più
senza lampade, nei grigi lasti del vapore
e non c’erano né nozze di cornacchie, né tempeste
né disgeli in quel limbo
dove io giacevo, nella vergogna, nudo,
nel mio sangue, fuori del campo di gravitazione
futura.
Ma io mi spostai e cominciai a camminare sugli assi
intorno allo scudo di neve abbagliante
ed in basso, al di sopra della mia testa,
sette aeroplani si spiegarono
e la garza, come corteccia d’albero
si induriva sul corpo e correva
il sangue di un altro dal matraccio nelle mie vene
ed io respiravo, come un pesce nella sabbia,
ingoiando la dura, micacea, terrestre
fredda e benedetta aria.
Avevo le labbra arse ed ancora
mi davano da bere col cucchiaino ed ancora
non potevo ricordare come mi chiamavo
ma rinacque nella mia lingua
il vocabolario del re David.
Ma dopo
anche la neve andò via ed una precoce primavera
si sollevò in punta di piedi e coprì
gli alberi col suo giallo scialle.
(1964)
Vita, vita
I
Non credo nei presentimenti e dei segni
non ho paura. Né la calunnia né il sarcasmo
io fuggo. Nel mondo non c’è la morte.
Tutti sono immortali. Tutto è immortale.
Non bisogna temere la morte né a diciassette anni
Né a settanta. Esistono solo la realtà e la luce,
in questo mondo non ci sono né buio né morte.
Noi tutti siamo già sulla riva del mare
ed io sono tra quelli che tirano le reti
mentre passa a branchi l’immortalità.
II
Vivete in casa – e casa non crollerà.
Io evocherò uno qualunque dei secoli,
entrerò in esso ed in esso una casa costruirò.
Ecco perché sono con me ad un unico tavolo
i vostri figli e le vostre mogli.
Ma c’è un unico tavolo per il bisnonno e per il nipote.
Il futuro si compie ora
e se io sollevo la mano
tutti e cinque i raggi rimarranno presso di voi.
Io ogni giorno del passato, come una puntellatura,
con le mie clavicole ho sostenuto,
misurai il tempo con la catena dell’agrimensore
ed attraverso esso sono passato, come attraverso gli Urali.
III
Io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza.
Andavamo al sud, alzavamo la polvere sopra la steppa;
l’erbaccia fumava; il grillo campestre faceva il birichino,
toccava con i baffi i ferri dei cavalli e profetava
e, come un monaco, minacciava per me la rovina.
Io il mio destino alla sella allacciavo;
io, anche adesso, in epoche future,
come un bambino mi solleverò sulle staffe.
Sono soddisfatto della mia immortalità,
che il mio sangue scorra di secolo in secolo.
Per un angolo sicuro di costante calore
io avrei arbitrariamente pagato con la vita,
qualora il suo mobile ago
non mi avesse, come filo, condotto per il mondo.
(1965)
***
Oh poter soltanto alzarzi, riaversi, svegliarsi
e nell’ora più difficile benedire il lavoro,
i campi coltivati, i giardini curati,
inghiottire l’ultima volta dal piattino ricurvo
di foglia lanosa
il cristallino cervello dell’acqua.
Dammene una goccia, mia erba terrestre,
giurami – invece di prendere in eredità
la parola,
di accrescere la laringe e non custodire il sangue,
di non ricordarti di me e, demolendo il mio vocabolario,
bruciare la tua bocca inaridita col mio fuoco.
(1965)
***
Quando vengono in rotta la natura e il vocabolario
e la parola si sforza di astrarsi dal significato
come una maschera dal viso, come un colore dal chiaroscuro –
io sono un accattone o un re? La falce o il falciatore?
Ma al mio mondo non ho dato nome:
Adamo falciava giunchi ed io intreccerò un cesto.
Falce, falciatore e re, io accattone a metà,
da me stesso ancora non separato.
(1966)
Ricordi di Anna A. Achmatova
I
Facevo un letto di neve,
decapitai prati e boschetti,
ai tuoi piedi feci stringere
il dolcissimo alloro, l’amarissimo luppolo.
Ma aprile non era succeduto a marzo
a guardia delle regole e delle norme.
Io ti innalzai un monumento
sulla più lacrimevole delle terre.
Sotto il cielo del nord io sto
davanti alla bianca, povera, recalcitrante
tua altezza di montagna
ed io stesso non mi riconosci
solo, solo nella camicia nera,
nel tuo futuro come in paradiso.
II
Quando vicino a Nicola Morskoj*
giaceva tra i fiori la miseria,
la umile, estranea parola
brillava tenebrosamente e severamente
sulla cera della bocca sovrana.
Ma il suo significato non era comprensibile
e se si capiva – non si custodiva
ed era, come una favola, indistinto
e forse soltanto – nel tremolio delle macchie
intorno alle candele che sgocciolavano.
E l’ombra dell’arroganza senza tetto
lungo il nero ghiaccio della Neva,
lungo il deserto nevoso del Baltico,
lungo l’azzurro Adriatico
volava visibile a tutti.
* Chiesa di S. Pietroburgo dove si svolsero i funerali dell’Achmatova
III
A casa, a casa, a casa
Sotto i pini di Komarovo…
Oh mio angelo della morte
con le ghirlande al capezzale,
col fazzoletto di merletto,
con le ali pronte!
Come per gli alberi la neve,
così per la terra non è un peso
la tua cassa scoperta
che ondeggia davanti a tutti,
nel tuo ventunesimo secolo
dai tempi nei tempi.
Un ultimo raggio ha posato
l’inverno sul capo
come il primo battito d’ala
da sotto gli aghi di Camelia
e la notte ha acceso le stelle
sull’azzurro della neve.
E noi a te per tutta la notte
abbiamo promesso l’immortalità
ed abbiamo chiesto di aiutarci
ad abbandonare la casa del dolore
per tutta la notte, tutta la notte, tutta la notte.
E di nuovo la notte è all’inizio.
IV
Lungo il ghiaccio, lungo la neve, lungo il gelsomino
nel palmo, più bianco della neve,
ella portò via nella sua dimora
metà dell’anima, metà
della migliore canzone che cantava di lei.
Non avendo creduto alle lodi terrene,
avendo compiuto un mezzo giro della terra,
conosciuta a metà, come un’eresia,
attraverso la cortina del gelo, attraverso
il turbine della luce –
guarda verso il sud.
Che cosa vedono gli sguardi invisibili
degli increduli occhi chiari?
Le porte che si aprono
delle verste e degli inverni o il rogo
che ci chiude in un abbraccio?
V
I bianchi pini
cantano: - Amen! –
La mia colomba – la tua mano.
E’ amaro il mio pane,
assenzio la mia voce,
amara la mia strada.
Nella mia gola c’è
l’azzurro celestiale -
le tue glaciali A:
il tuo nome
Angelo e Canaa;
tu divisa,
tu divenuta estranea -
deserto dei deserti,
banchetto, ricordato in quaresima,
in sette secoli
giunto fino a noi
fosforo delle ultime stelle.
VI
E questa ombra io accompagnai all’ultimo
viaggio – all’ultima soglia
e due ali ha l’ombra dietro la schiena,
come due raggi, divenute un po’ oscure.
Ed un anno è passato, nonostante tutto.
L’inverno strombazza dal viottolo nel bosco.
Con un suono confuso
risponde al corno
la micacea ossessione dei pini di Camelia.
Che cosa, se la memoria fuori dalle regole terrene
non ha la forza di ridestare il giorno nella notte?
Che cosa, se l’ombra, abbandonata la terra, dalla parola
non assorbe l’immortalità?
Cuore, taci,
non mentire, ingoia ancora un po’ di sangue,
benedici i raggi dell’alba.
(1966-1968)
***
Nell’ultimo mese dell’autunno
al crepuscolo della mia amarissima vita,
colmo di dolore,
io sono entrato in un bosco senza foglie e senza nome.
Da un lato era lambito
dal bianco-latteo specchio
della nebbia.
Lungo i rami biancastri
colano lacrime limpide
quali
soltanto gli alberi piangono alla vigilia
di un inverno completamente privo di colore.
E allora avvenne il miracolo:
al tramonto
baluginò l’azzurro da dietro una nuvola
e un raggio luminoso si fece largo come in giugno
dai giorni futuri del mio passato.
E piangevano gli alberi alla vigilia
delle grandi fatiche e delle grazie festive
delle semplici tempeste che turbinano nell’azzurro
e le cinciallegre danzavano in circolo
come mani che lungo la tastiera
vanno dalla terra alle note più alte.
(metà anni ’70)
***
Le farfalle ridono come pazze,
intrecciano girotondi di care stravaganze
lungo l’azzurro groviglio
delle figure stereometriche:
insegna loro tutta questa matematica
un roseo Cupido…
Come una scuola di danza,
come un vino giovane di carnevale,
il disordine di giugno restituirà
le farfalle che giocano col fuoco,
che scambiano margherite con la loro alata guida.
E si porta via la loro scolaresca ciurma,
fragile, sventata, senza volontà
il vento che irrompe nella vita.
(fine anni ’70)
***
E questo ho sognato e questo sogno
e questo sognerò ancora un giorno,
e tutto si ripeterà e tutto diventerà realtà
e voi sognerete tutto ciò che ho visto in sogno.
Là in disparte da noi, in disparte dal mondo,
l’onda va dietro l’onda ad infrangersi sulla riva
e nell’onda la stella e l’uomo e l’uccello
e la realtà ed i sogni e la morte – onda dietro onda.
Io non ho bisogno di una data: io ero e sono e sarò.
La vita – miracolo tra i miracoli ed io stesso
solo, come un orfano, mi inginocchierò al miracolo,
solo tra gli specchi – riflesso nel recinto
dei mari e delle città che brillano nel fumo.
E la madre, piangendo, prende il bimbo in grembo.
(1974)
***
Dall’anulare l’anello
per la terza volta volente o nolente è scivolato via,
da sotto la maschera di pietra brillava
il volto sconvolto dal dolore.
A nessuno, mai né davanti ad alcuno
nemmeno una lacrima, in mezzo alla gente, come in un deserto
indemoniata dalla boria vedovile,
dal peccato mortale della solitudine.
Ma sta sopra il tumulo,
più in alto di una nuvola, come una colonna di neve,
la regale voce di lei, rischiarata
dal peccato mortale della solitudine.
Perdona anche a me questo peccato.
Perdona, come lo hanno perdonato a te.
La neve giace sulla tua tomba.
La neve cade in volo sulla terra, dinanzi a tutti.
(1974)
***
Nelle macchie della luce, nel disordine delle linee
ho ritrovato me stesso, come un fratello il fratello:
un bombo banchetta proprio nel cuore
delle quattro coordinate della stella.
Non so chi sono né da dove vengo,
dov’è il tramonto: all’inferno o in paradiso.
So soltanto che per questo miracolo
Darò la mia immortalità.
Non ricordo nulla della patria,
lei che rimesta i petali del mondo,
la quinta coordinata della vita –
l’anima che conosce sé stessa.
(1975)
C’era una volta
Tutta la Russia pativa la fame,
viveva a stento al freddo,
grammofoni, coperte,
sedie, cappelli, quello che capitava
in miglio e in sale barattava
nell’anno diciannove.
Avevano ucciso il fratello maggiore,
il padre era già cieco,
tutti vendevano la proprietà,
vivevano in una tomba vuota,
c’era una volta, bevevano l’acqua
e cuocevano al forno pane d’ortica.
La madre si curvò, invecchiò,
incanutì a quarant’anni
e sul corpo magro
portava cenci da mendicante;
si stenderà a dormire ed io continuamente:
respira la mamma o no?
Gli ospiti divennero chissà perché rari
nell’anno diciannove.
I vicini caritatevoli
anche, come uccelli in gabbia
sul proprio ramo secco,
vivevano nell’inferno.
Ma delle patate putrefatte
ci portò una vicina
e disse:
”Come vivevano
riccamente un tempo i mendicanti!
Dio considerò la Russia colpevole
per l’affare di Griscia”:
Era sera. Disse:
“Mangiate!
La madre servì delle focacce:
la Musa in abito rosato,
che non si era presentata prima,
mi apparve all’improvviso nella speranza
di non concedere il sonno alle notti.
La prima poesia
io la composi come in delirio:
”dalle patate, di domenica,
la mamma cucinò dei dolci!”
Così io provai l’ispirazione
nell’anno diciannove.
(1975)
***
Di notte il tempo passa lentamente.
Giunge a termine l’anno bisestile.
Sentono nelle fibre i vecchi pini
il ghiaccio intirizzito delle resine primaverili.
Mi bastano i fastidi quotidiani
e non ho bisogno di un’altra felicità.
Sì, lo so: anche laggiù, oltre lo steccato
giunge al termine l’anno di qualcuno.
Lo so: un nuovo boschetto crescerà
là dove finiscono i nostri pini.
La pesante boscaglia bianco-nera
sente nelle proprie fibre il turno e la fine.
(1976)
1914
Da bambino avevo paura delle piante:
le loro foglie mi strepitavano nelle orecchie,
entravano attraverso le finestre, come ombre,
le loro anime ostili.
A volte persino in maggio
celebravano il loro shabat. A luglio –
chi spezzando i fusti, chi i rami –
se ne andavano, come avessero bevuto spiriti a lunghi sorsi:
• Acacia -luppolo – polmonaria –
• orecchio d’orso – ricino
• farfaro – frassino – acetosella –tremolo – frangola – viburno…
Gli uni – come spalle zigane,
con fischio cosacco – gli altri.
Così fu solo l’inizio.
Ingarbugliato in una lite funesta,
il destino cinse quell’estate
con la corona del dolore di tutto un popolo.
(1976)
***
Nelle orecchie ancora tuono e suono:
oh, come scampanellava il conduttore!
Laggiù andava il tram e là c’era
il lento fiume poco profondo,
tutto giunchi e palude.
Valja ed io
sediamo in alto sui cannoni vicino alle porte
nel giardino Kazennyj dove ci sono una quercia bisecolare,
i gelatai, il chiosco delle limonata
e, in un azzurro padiglione, i musicisti.
Giugno risplende sul giardino Kazennyj.
La tromba borbotta, battono sul tamburo e il flauto
fischia ma si sente come da sotto un cuscino:
il tamburo, la tromba, il flauto tutto a mezza voce,
ad un quarto di sogno, ad un ottavo di vita.
Noi due
(con i cappelli estivi di gomma,
coi sandali alla marinara con le ancorette)
ancora non sappiamo chi di noi tra i vivi
resterà, chi di noi uccideranno,
dei nostri destini ancora non si parla,
a casa ci aspetta il latte fresco
e le farfalle si poseranno sulle nostre spalle
e le rondini voleranno in alto.
(1976)
***
L’animo, accesosi in volo,
non videro della stanza bianca
dove nelle mani di caritatevoli fattucchiere
si scaldava dolcemente il corpo di bambino.
La pioggia cadde alla vigilia lungo il giardino
e la terra non fece in tempo ad asciugarsi;
c’erano tanti lillà in giugno
che rendevano azzurra la luminosità dell’universo.
Ed in luglio ed in agosto ci fu
tanta luce alle tre finestre e tanto calore
nel cielo come fontane
fino alla fine della primordiale estate
che il mio destino anche al di là della tomba
nel giorno della creazione si scalda come suolo.
(1976)