Giorgio Linguaglossa

Anna Ventura NOSTRA DEA Firenze, Esuvia 2001 pp. 64 E 10.33

Anna Ventura CINQUANTA POESIE CINQUANTE POEMES Chieti, Tabula fati 2003 pp. 130 E 7.00.

 

 

Anna Ventura con queste sillogi ci presenta un profilo abbastanza compiuto e preciso della sua poesia, una poesia di stampo illuministico e razionalistico che adotta la clarté dello sguardo che si posa sugli oggetti, la visione nitida e delimitata, i contorni degli oggetti precisamente individuati; ma a mio avviso non bisogna cedere alla tentazione di etichettare una poesia di così notevole spessore culturale nella formula riduttiva di “realismo lirico” come sembra invece indulgere la prefatrice del volume Nostra dea, Liliana Biondi, peraltro autrice di una esaustiva introduzione al libro. La poesia di Anna Ventura è moderna nel senso che prende atto della fine del Moderno, della fine delle ideologie del liberalismo democratico che si traducevano, in poesia, nelle poetiche del modernismo conservatore, e tutto ciò proprio nel momento del loro apparente massimo trionfo; la poesia della Ventura non indulge in ripiegamenti in heideggerismi di maniera, nei pentitismi della cultura che proviene dalle file dell’antimodernismo, tantomeno indulge in hillmanismi tanto preziosi quanto esornativi, con tutto ciò che esso comporta: dall’abbandono della patria, dalla dipartita degli dei, alla nostra condizione di radura. 

 

Poesia anche diametralmente distante dallo psicologismo spicciolo di autrici come Vivian Lamarque, tutta all’interno di una antiquato impianto psicanalitico-minimalista,. Sarebbe più conveniente quindi parlare, a mio avviso, di metarealismo post-lirico per la poesia di Anna Ventura, come del resto per la migliore poesia contemporanea che ha passato al vaglio critico lo stesso concetto di realismo o neorealismo, che dir si voglia, più adatto ad inquadrare la poesia proto novecentesca che non gli esiti delle ultime generazioni poetiche. Anche quando la composizione si presenta come il distillato più puro dell’oggettività, non è la precisione della macchina fotografica l’intento dell’autore ma, al contrario, è la visione, nitida e delimitata dalla cornice, della macchina fotografica che suggerisce e fornisce gli strumenti stilistici per l’obiettivazione estetica; lo stesso impiego dello zoom di origine cinematografica costituisce un vero e proprio binario sintattico-semantico che è venuto a sostituire la vecchia e antiquata e polverosa impalcatura di matrice pascoliana che ha fornito, lo ammetto, nel bene e nel male, durante tutto il corso del Novecento, il traliccio entro il quale calare lo stampo sonoro-semantico. La poesia di apertura di Nostra dea, “La terra del Minotauro” è l’esemplificazione più pertinente di questo nuovo tipo di composizione. E’ come se una telecamera  si introducesse dentro il palazzo di Cnosso e si posizionasse davanti al “terrazzo”; tutto quello che accade è una conseguenza di quel punto di vista. Non v’è nessuna impostazione ironica,come non v’è traccia di alcuna impostazione trascendentale-nobile, se così fosse, ciò segnerebbe l’introduzione di un “diminutivo” o di un “accrescitivo” tipicamente novecenteschi in un impianto di poetica invece tipicamente post-moderna. Dunque, nei testi di Anna Ventura non v’è mai alcun luogo di “aggressione” ironica, l’autore impone una distanza tra sé e il testo, è la distanza iconica qui ad essere significativa, non la distanza ironica come avveniva nei testi proto novecenteschi. Ma ora lasciamo spazio al testo:

 

Questo terrazzo bianco,

chiuso da un muro bianco,

ha una bifora aperta

sul verde del giardino,

sul rosso dei fiori d’ibiscus.

Il mare segna l’orizzonte,

oltre le cime degli ulivi.

E’ il mare fermo degli dei,

mentre la terra – del colore del sangue –

appartiene al Minotauro.

Sul terrazzo c’è un tavolo rotondo

con due poltrone.

Sul tavolo un cesto di frutta

uva e prugne, una mela –

ornato di foglie d’ulivo,

una brocca di coccio

col vino rosso e il bicchiere.

L’aria è tiepida e tersa,

la stessa del tempo del mito,

un tempo eterno,

che qui è nato e qui resta.

L’avevamo intuito

nel racconto dei libri,

nella fatica delle traduzioni.

 

Il lettore si introduce, attraverso “una bifora aperta”, “nel verde del giardino”, “il mare fermo degli dei” accoglie i visitatori. “Sul terrazzo c’è un tavolo rotondo/ con due poltrone”. L’atmosfera è sobria, quasi turistica, il viaggio nell’al di là è un mito di vecchie e polverose filosofie. Il viaggio, con tutti i suoi corollari di peripezie turistico-spirituali, è ormai una moneta fuori corso finita nei cassetti dei numismatici. Chi parla, oggi, di viandanze turisticamente attrezzate, è o un imbonitore o un minimalista inconsapevole. Il massimo che si può chiedere a questa poesia è: 

 

Non chi sta sulla nave,/ ma chi resta, di sera,/ sulla banchina dell’isola piccola,/ è colui che veramente parte./ Dopo aver salutato con la mano/ la nave che veloce si allontana,/ tornerà alla casa spoglia,/ all’acqua razionata,/ alle cento scalette/ che salgono sull’erta./ L’amara stirpe di Penelope/ conosce questi inganni: restare/ per partire nella lontananza del cuore,/ nel silenzio dell’isola remota; Ulisse vada ramingo: il mare è tanto grande.”. 

 

Resti, dunque, saldamente ancorati alla clarté cartesiana, è il più grande complimento che posso fare a questa poesia, così femminilmente delicata e attenta ai dettagli e così virilmente consapevole dei limiti della conoscenza umana. E’ una poesia che accetta e prende partito per la perdita del centro della posizione estetica, senza drammi e senza finte ambasce o periclitanti esibizionismi del cuore; la severa misura del suo passo breve è il migliore viatico, il migliore indizio della sua autenticità, il migliore indizio della sua gioventù.

La poesia “Non ditelo a Cartesio” costituisce un magnifico esempio di registro metaironico applicato che vorrei citare per intero:

 

Sono la terza moglie di Barbablù, quella

che osò prendere la chiave,

spalancare la stanza dell’orrore: un gesto

che la premiò, perché

a ogni coraggio c’è una ricompensa.

Ma niente ricompensa

l’innocenza violata, lo sbigottimento

di chi alza il sasso e sotto

ci trova lo scorpione. “E tu smettila,

dicono – di aprire porte,

di rovlotare sassi.”

Non ditelo a Cartesio: lui giace

nella sua tomba piatta, nell’ombra

di una chiesa ombrosa, ma la luce ancora abbaglia

i suoi seguaci, odiati illuministi in un mondo

che della ragione fa a meno volentieri. Io perciò,

sua fedele, cammino a testa bassa, col saio

del pellegrino rompiscatole,

i sandali consunti. Lascio la mia bisaccia…