POESIE SCELTE di Czesław Miłosz (1911 – 2004) tradotte da Paolo Statuti "Campo de Fiori" e altre del primo periodo SUL TEMA POESIE SUI LUOGHI con un commento di Giorgio Linguaglossa
Czesław Miłosz (Szetejne 1911 – Cracovia 2004)figlio di Aleksander Miłosz, ingegnere civile e di Weronica (nata Kuna), figlio di un fratello del bisnonno del grande poeta lituano di lingua francese Oscar Vladislas de Lubicz Milosz. A Šeteniai, oggi in Lituania, ma allora facente parte dell'Impero russo, Czesław Miłosz frequenta le scuole superiori e l'università a Vilnius, oggi in Lituania ma allora in Polonia. Cofondatore del gruppo letterario "Zagary", fa il suo debutto nel 1930 con due volumi di poesia. Lavora per la radio polacca e continua il proprio percorso creativo seguendo con attenzione i fatti che affliggeranno la Polonia, stretta tra le rivendicazioni di Germania e Russia. Passa la maggior parte della guerra a Varsavia lavorando per la stampa underground.
Dopo la guerra, diventa addetto culturale all'ambasciata polacca a Washington e successivamente a Parigi, nel 1951 Fortemente critico rispetto alla condotta governativa e al clima culturale imposto da un'élite politica e intellettuale formatasi a Mosca, non esita a manifestare il proprio scetticismo sulle prospettive del socialismo reale. In seguito alla rottura con il partito comunista, chiede asilo politico in Francia , per trasferirsi successivamente negli Stati Uniti. A contatto con il clima culturale fervente di Berkeley, inCalifornia, dove insegna letteratura polacca, continua la propria opera poetica dedicandosi parallelamente all'attività di traduzione, cruciale per la diffusione della poesia polacca in ambito anglo-americano e successivamente europeo.
Nel 1980 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura con la motivazione:
(EN) « Who with uncompromising clear-sightedness voices man's exposed condition in a world of severe conflicts. » |
(IT) « A chi, con voce lungimirante e senza compromessi, ha esposto la condizione dell'uomo in un mondo di duri conflitti. » |
(Motivazione del premio Nobel per la letteratura) |
Nello stesso anno, gli operai di Solidarnosc trascrivono brani di una sua poesia ai piedi del monumento dedicato ai lavoratori uccisi dalla polizia di partito durante gli scioperi di contestazione.
In ambito saggistico, Czesław Miłosz contribuisce al dibattito sulla possibilità di intraprendere il lavoro culturale in quanto azione politica e sociale, allineandosi alle tematiche dell'ambiente intellettuale francese dei primi anni cinquanta e fornendone, tuttavia, una chiave di lettura distinta e originale. Ne La mente prigioniera (1953), testo che unisce la riflessione saggistica a tecniche romanzesche, Czesław Miłosz affronta il complesso rapporto tra letteratura e società nell'ambito delle democrazie popolari satelliti del mondo sovietico. Demistificando esplicitamente ogni idealizzazione del socialismo reale, evoca e analizza tanto l'adesione quanto la dissociazione degli intellettuali al sistema (il Murti-Bing) consolidatosi in Polonia nel dopoguerra. In aperto contrasto con la lettura ideologizzata dell'intellettuale dissidente diffusasi nell'ambiente europeo filo-comunista, Czesław Miłosz ritrae la condizione divisa dell'individuo all'interno di un regime totalitario, attribuendone la libertà di pensiero e parola ad una pratica eretica (il ketman) basata sulla dissimulazione, sulla perfetta comprensione e conversione dei meccanismi censorii in cui vive. Fonte di aspre polemiche fin dall'uscita, il saggio-romanzo offre una prospettiva critica inedita sulla libertà umana, e una chiave di lettura preziosa al registro antifrastico che domina la produzione del poeta, come mostra il mondo evocato nel noto componimento Fanciullo d'Europa.
In un dialogo sulla letteratura conJosif Brodskij, realizzato nel 1989 e pubblicato nel 2001 sulla rivista Zeszyty Literackie, parlando degli scrittori che l'hanno influenzato, Czesław Miłosz scrive:
« E poi l'influenza, una forte influenza del mio cugino francese Oscar Milosz. Aveva scritto in maniera stupefacente il suo primo trattato metafisico nel 1916, conoscendo lo sviluppo delle teorie di Einstein (...) se non sbaglio pubblicate nella sua prima versione proprio in quello stesso anno. Lui credeva che la teoria della relatività aprisse le porte di una nuova era di armonia tra la scienza, la religione e l'arte. Per il semplice motivo che il mondo newtoniano è per principio contrario all'immaginazione, all'arte, alla religione. Io perciò seguii quella traccia e constatai con stupore che erano idee prossime a William Blake, che, anche se ovviamente non poteva sapere nulla della relatività, aveva fatto nascere le proprie teorie nella fisica. E anche Goethe, in una sorta di ribellione istintiva contro la via intrapresa dalla scienza ottocentesca (...) Una questione fondamentale è che per Newton lo spazio era stabile e obbiettivo, invece per la fisica contemporanea e anche per Oscar Milosz, una cosa simile non può esistere perché tutto è un unicum di moto, materia, tempo e spazio.» |
Commento di Giorgio Linguaglossa
Quando ancora l’Europa era divisa da una pesante cortina di ferro e due civiltà si fronteggiavano con immensi eserciti ed armi nucleari, in un’epoca, che oggi ci sembra lontana, in cui l’intelligentsia europea, tranne pochissime eccezioni, non intravedeva tutto l’orrore e la irrazionalità della dittatura staliniana, Czeslaw Milosz seppe riconoscere per tempo la scaturigine profonda del Male ed abbandonò la sua patria per l’esilio prima in Europa e poi negli Stati Uniti. Si dirà che l’esilio è in fondo il destino ultimo dell’uomo del Novecento e che il problema politico dell’Occidente è piuttosto la mancanza di autenticità che non l’esilio politico. Ma non è così, per Milosz l’abbandono della sua Polonia non significò l’abbandono della patria, né tantomeno l’abbandono della sua madre lingua, anzi, fu durante gli anni dell’esilio che Milosz scrisse le poesie forse più belle del Novecento. Nato in una terra di confine, la Lituania, il poeta polacco si trovò costretto a combattere una battaglia che lo sovrastava per grandezza e per entità delle masse umane chiamate allo scontro. Bordskij ha scritto che ci sono dei momenti in cui una civiltà ha bisogno dei suoi uomini della periferia per ritrovare se stessa, ha bisogno degli uomini del limen, e Milosz fu uno di questi, fu un uomo impegnato lungo una lontana frontiera, convinto che la Storia e il destino richiedevano da lui un atto inequivocabile e pienamente riconoscibile che fornisse un esempio ed un monito. Già questa doppia appartenenza a due popoli della frontiera dovette fortificare in lui la fiducia che ciò che confligge con l’umanesimo della civiltà europea non può che perire e dissolversi. Come il suo grande maestro, il russo Osip Mandel’stam (nato in Polonia e vissuto in Russia), del quale Milosz si dichiarò più volte allievo, il poeta polacco fu il vero tutore della civiltà europea proprio nel momento in cui, dopo la follia nazista, un altro pericolo incombeva all’orizzonte: il dispotismo comunista. Attraverso Mandel’stam, Milosz ritorna a Dante, costruisce il suo verso e la sua metrica sul calco dell’endecasillabo, convinto che il linguaggio della poesia europea sia il vero depositario di quella civiltà, il suo sperimentare le forme della Tradizione è un tutt’uno con l’esigenza di una espressione universale, che parli a tutte le genti dell’Europa, in una lingua traducibile presso tutte le lingue europee. Convinto che la poesia europea debba divenire la casa comune di tutte le intelligenze libere dell’Europa, Milosz scrive in forme armoniose e cristalline dove la barbarie non potrà mai penetrare, né l’intolleranza o la sopraffazione. E’ avvenuto così che le poesie di Milosz siano – per noi europei della frontiera a Sud di Eurolandia – state scritte anche per noi e ci riguardano da vicino per il contributo agli errori della storia europea che anche l’Italia ha dato.
Forse soltanto la nazione polacca ha richiesto tanto alla poesia: essere all’altezza del suo Tempo, reggere l’urto della Storia, essere una bandiera di libertà e di indipendenza. Per un dispetto della storia, tutto un popolo riconobbe i propri poeti, insieme a Milosz, la Szymborska, Herbert ed altre grandi personalità che hanno saputo rappresentare il proprio tempo.
Milosz è stato un europeo integrale, convinto che anche la Russia fosse parte integrante dello spirito europeo e parte essenziale della storia della civiltà europea, egli è stato anche il rappresentante di quello spirito cristiano che nelle sue tre principali confessioni (cattolica, protestante, ortodossa) ha costituito lo zoccolo ideologico del vecchio continente. Ma Milosz è un poeta cristiano, non cattolico, e la sua poesia sembra indirizzarsi, oggi più che mai, anche ai popoli del Tigri e dell’Eufrate, l’antico popolo dei Parti, per richiamarli al comune destino di speranza, di comunione e di pace universale.
Campo de fiori
A Roma in Campo de Fiori
Ceste di olive e limoni,
Selciato con spruzzi di vino
E con schegge di fiori.
Frutti rosati di mare
Ammassati sui banchi,
Bracciate d’uva nera
Sulle pesche vellutate.
Proprio su questa piazza
Fu arso Giordano Bruno,
Il boia accese il rogo
Fra il popolino curioso.
E appena il fuoco si spense,
La folla tornò a bere,
Ceste di olive e limoni
Sulle teste dei venditori.
Rammentai Campo de Fiori
A Varsavia presso la giostra,
Una chiara sera d’aprile,
Al suono d’una gaia orchestra.
La musica soffocava
Gli spari dal ghetto,
Volavano le coppie
Alte nel cielo terso.
A tratti il vento alle fiamme
Strappava neri aquiloni,
E la gente ridendo
La fuliggine afferrava.
Gonfiava le gonne alle ragazze
Quel vento dalle case in fiamme,
Scherzavano liete le folle
Nella domenica festosa.
Si dirà che la morale
E’ che a Varsavia o a Roma
La gente si diverte, ama
Incurante dei martiri sul rogo.
Oppure si vedrà la morale
Nella fugacità delle cose
Umane, nell’oblio che nasce
Prima ancora che il fuoco cessi.
Io invece pensavo allora
A quelli che muoiono soli,
Pensavo che quando Giordano
Salì su quel patibolo,
Non trovò nella lingua umana
Nemmeno una parola
Per dire addio all’umanità,
L’umanità che restava.
Già correvano a ubriacarsi,
A smerciare bianche asterie,
Ceste di olive e limoni
Recavan nel gaio brusìo.
E lui era già distante,
quasi fossero secoli,
La sua scomparsa nel fuoco
Essi attesero appena.
Di questi morenti, soli,
Già obliati dal mondo,
Anche la lingua ci è estranea,
Come lingua d’antico pianeta.
Finché tutto sarà leggenda
E allora dopo tanti anni
Nel nuovo Campo de Fiori
Un poeta accenderà la rivolta.
(1943, Varsavia)
Il senso
– Quando morirò, vedrò la fodera del mondo.
L’altra parte, dietro l’uccello, il monte e il tramonto del sole.
Letture che richiamano il vero significato.
Ciò che non corrispondeva, corrisponderà.
Ciò che era incomprensibile, sarà compreso.
Ma se non c’è la fodera del mondo?
Se il tordo sul ramo non è affatto un indizio
Soltanto un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
Si susseguono non curandosi del senso
E non c’è niente sulla terra, tranne questa terra?
Se così fosse, resterebbe tuttavia
La parola una volta destata da effimere labbra,
Che corre e corre, messo instancabile,
Verso campi interstellari, nel mulinello delle galassie
E protesta, chiama, grida.
Salda notte…
Salda notte. Non sfiorerà il tuo volto
né fuoco di labbra, né ombra furtiva.
Nelle tenebre del sogno t’ascolto
e splendi così, come giorno che arriva.
Tu sei la notte. E amandoti la mia mente
ha previsto il destino e i futuri lutti.
Fuggi il volgo, e la gloria verrà rasente
e annegherà la musica nei flutti.
Forti son gli ostili, e il mondo è troppo stretto
e tu, o amata, fedele gli resti.
Di sambuco sull’acqua un rametto,
spinto dal vento da ignote foreste.
C’è tanto senno, e non femminea clemenza
nelle tue fragili mani, o Peritura.
Sulla fronte lo splendore della scienza:
luna nascosta, non ancora matura.
(1934)
Elegia
Non con l’eterno oblio, non con la memoria o il chiasso
di città, non con la nebbia dei monti il mondo ti darà pace.
Finché dopo anni di lotte una croce oppure un masso,
ove un uccello come sui resti di Troia canterà fugace.
Amor, cibo, bevande ci seguono lungo la strada,
ma non verso di loro l’acuto sguardo è rivolto.
Le pesanti palpebre brucia la luce spietata
e sommesso il tempo avverte, prima di passar sul corpo.
Gentili animali fedeli, l’effimera gente
invano strappano le mani nell’estasi rapprese.
E da terra una voce si leva: ombra, nostro erede,
ti avremmo forse chiamato sì a lungo per niente?
(1935, Parigi)
Frammento
Sorella, dammi dell’acqua e perdona se ho peccato,
La tua cornetta abbaglia come le Alpi all’alba,
E sulle sue falde si stendono ombrose vallate,
A destra la terra di Tur, a sinistra Ghilead.
Tu hai occhi ebrei, io sono Slavo, la rabbia
Del mondo caparbio ci ha colpito e sconfitto. Tendi
E con la mia fronte incontra le tue mani lievi,
Ancora dinanzi a me la musica si levi
Dei cani di campagna, dei tintinnanti armenti.
Chiudi la finestra, là fuori Giunoni germane
Saltano nel mio fiume turbando del fondo la quiete,
Ove prima era solo il pescatore e la sua rete
Nel volteggiare intorno di rondoni e capineri.
Neri, bellici carri le pasture hanno solcato,
Volano i vessilli fiammanti e balena arrossato
Il muro del letto, e vibran sul tavolo i bicchieri.
Non andartene, resta con me. Poiché m’è parso
Un giorno, che il cuore diventasse di sasso
E che tra le lenzuola ormai un altro giacesse,
Pur ferito gravemente, grande e bambinesco,
E una suora di carità con lo sguardo socchiuso
Filasse lunghi fili dalle nubi come da un fuso.
(1935, Parigi)
Il popolo
Il più puro dei popoli quando li giudica il bagliore dei lampi,
E’ spensierato e scaltro nell’ardua quotidianità,
Senza pietà per le vedove e gli orfani, senza pietà per i vecchi,
Ruba di mano a un bimbo una crosta di pane.
Sacrifica la vita per attirar sui nemici l’ira dei cieli
E col pianto degli orfani e delle donne li sconfigge.
Il potere affida a gente con occhi da mercante di gioielli,
Offre onori a gente con l’anima d’un gestore di bordelli.
I suoi migliori figli resteranno sconosciuti,
Appariranno una volta sola per morir sulle barricate.
Le amare lacrime di questo popolo tagliano il canto a metà,
E quando a un tratto il canto tace, si gridano facezie.
Negli angoli delle stanze l’ombra si ferma additando il cuore,
Dietro la finestra ulula un cane a un invisibile pianeta.
Popolo grande e invincibile, popolo beffardo,
Che riconosce la verità senza parlarne.
Bivacca nei mercati, tratta con le burle,
Smercia vecchie maniglie rubate nelle rovine.
Popolo coi berretti gualciti, con tutti i beni in un fagotto,
Che cerca dimore ad occidente e nel meridione.
Non ha città né monumenti, né scultura, né pittura,
Trasmette di bocca in bocca solo la voce e i presagi dei poeti.
L’uomo di questo popolo, chino sulla cuna del figlio,
Ripete parole di speranza, sempre tuttora vane.
(1945, Cracovia)
A Jonathan Swift
A te mi rivolgo, o decano,
E i tuoi buoni consigli imploro.
Per un incontro così strano
Non mi ornerò di alcun decoro.
Vedo l’oceano verdeggiante
Sferzare gli scogli ben saldi,
Sopra dita di spuma bianche
Le isole come smeraldi.
Oltreirlanda il masso amaranto
E cangiante della torbiera,
Nelle case – del gufo il canto
Per l’umile pasto della sera.
Guizza la parrucca d’argento
E dalla penna una mappa scorre
Per l’arte e per l’insegnamento.
Mai stando all’idea che ricorre.
Nella mappa, in ciò ch’è tracciato,
La mia nave non s’è sperduta.
Brobdingnag ho visitato
Senza trascurare Laputa.
Degli Jahu ho visto la gente
Cui la propria merda è diletta,
Nel timor servile vivente
Progenie di spie maledetta.
In fasi affatto ineguali
La mia vita s’è frantumata ,
Nel cuore il sale dei fortunali
Ma ancor non è tutta svotata.
Dell’accecamento misterioso
Sugli occhi non ho messo le bende.
E un franco sdegno furioso
Irraggia il dover che mi attende.
Tu puoi indicarmi, o decano,
Come si crea quel fluido raro,
Come oltre all’inchiostro rimane
Un di più in fondo al calamaro.
Del tuo tempo svelami il volto,
Perché io non faccia una figura oscena
Come fa chi dell’uomo parla molto
E solo in sogno guaisce appena.
Il Principe dei suoi versetti
Si degna di volere adulatori
E piegano i loro culetti
I cortigiani Whigs e Tories.
Il Principe, o decano, sbaglia spesso
Pur se ragione e forza arreca.
Con un soffio dalla gloria verrà messo
Nell’inferno d’una cartoteca.
Il gufo, il tuo tetto scarno,
La notte che sparge la pioggia,
Duran più dei prìncipi di marmo
E d’ogni lusinghevole foggia.
Ancor oggi la tua voce detta:
La cosa umana non è ultimata.
Chi dice che la storia è perfetta
Muoia di morte disarmata.
Coraggio, o figlio. Tu guiderai
La buffa flotta sui mari agitati
E i falli degli stati-formicai
Saran dalle nubi lapidati.
Finché il cielo sarà e l’uomo
Per nuove città prepara uno scalo.
Oltre a questo non c’è perdono.
Cercherò di farlo, o mio decano.
(1947, Washington, D.C.)
A Tadeusz Różewicz, Poeta
Concordi nella gioia sono tutti gli attrezzi
Quando il poeta varca il giardino della terra.
Quattrocento fiumi azzurri hanno lavorato
Alla sua nascita e il baco da seta
Ha ordito per lui i suoi lucenti nidi.
L’ala d’una mosca, il muso d’una farfalla
Si son foggiati pensando a lui
E l’alto edificio del lupino
Gli ha schiarato la notte ai margini del campo.
Or dunque gioiscono tutti gli attrezzi
Racchiusi negli scrigni e nelle giare del verde
Aspettando il suo tocco per risonare.
Lode alla parte del mondo che genera un poeta!
La sua fama corre lungo le acque costiere
Ove nelle brume sonnecchiano i gabbiani
E oltre ancora, là dove ondeggiano le navi.
La sua fama corre sotto la luna montana
E addita il poeta dietro il tavolo
Nella gelida stanza, in una città ignota,
Mentre l’orologio della torre suona le ore.
La sua casa è in un ago di pino, nel grido d’un capriolo,
Nello scoppio delle stelle e dentro il palmo umano.
L’orologio non misura i suoi canti. L’eco
Come in una conchiglia l’antica età del mare
Non ammutisce mai. Egli perdura. E possente
E’ il suo sussurro che sorregge gli uomini.
Fortunato il popolo che ha un poeta
E nelle sue fatiche non procede in silenzio.
Soltanto i retori non amano il poeta.
Seduti su scanni di vetro svolgono
Lunghi rotoli, chilometri di generosità.
E intorno rintrona il riso del poeta
E la sua vita che non ha confine.
Sono adirati. Sanno che il loro seggio andrà in frantumi
E là dove sedevano non crescerà
Nemmeno un fuscello. Un cerchio di zolfo bruciato,
Rossa, arida polvere schivata anche dalle formiche.
(1948, Washington D.C.)
Quando dicevo il vero…
Quando dicevo il vero, sprezzanti risi di ratti giornalistici
Strizzandomi l’occhio cercavano di dirmi: abbiamo capito.
E per anni potei soltanto serbare il disprezzo,
Consapevole che sarà loro l’ultimo trionfo,
Perché hanno avuto a turno ciò che volevano:
A ciascuno la sua razione di nullità.
(1962)
UNA POESIA di Czeslaw Milosz "Orfeo e Euridice" traduzione di Paolo Statuti, con un Commento di Giuseppe Montesano SUL TEMA DELL'ISOLA DELL'UTOPIA
L'isola dell'utopia è quell'isola che non esiste se non nell'immaginazione dei poeti e degli utopisti. L'Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginariodi Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale."Utopia", infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ- che significa bene e τóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest'ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero "l'ottimo luogo (non è) in alcun luogo", che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l'opera narra di un'isola ideale (l'ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
In un dialogo sulla letteratura conJosif Brodskij, realizzato nel 1989 e pubblicato nel 2001 sulla rivista Zeszyty Literackie, parlando degli scrittori che l'hanno influenzato, Czesław Miłosz scrive:
« E poi l'influenza, una forte influenza del mio cugino francese Oscar Milosz. Aveva scritto in maniera stupefacente il suo primo trattato metafisico nel 1916, conoscendo lo sviluppo delle teorie di Einstein (...) se non sbaglio pubblicate nella sua prima versione proprio in quello stesso anno. Lui credeva che la teoria della relatività aprisse le porte di una nuova era di armonia tra la scienza, la religione e l'arte. Per il semplice motivo che il mondo newtoniano è per principio contrario all'immaginazione, all'arte, alla religione. Io perciò seguii quella traccia e constatai con stupore che erano idee prossime a William Blake, che, anche se ovviamente non poteva sapere nulla della relatività, aveva fatto nascere le proprie teorie nella fisica. E anche Goethe, in una sorta di ribellione istintiva contro la via intrapresa dalla scienza ottocentesca (...) Una questione fondamentale è che per Newton lo spazio era stabile e obbiettivo, invece per la fisica contemporanea e anche per Oscar Milosz, una cosa simile non può esistere perché tutto è un unicum di moto, materia, tempo e spazio.» |
CZESLAW MILOSZ, POETA DELL’INATTUALITÀ
(da L’Unità del 15 agosto 2004)
Sperando nel Caso rivelatore e illuminante in cui credevano gli Antichi, apro di colpo le pagine della mia copia ormai semiconsunta delle Poesie di Czeslaw Milosz, e il libro si schiude su Caduta, una poesia del 1975, che nella versione di Pietro Marcehsani recita: “La morte di un uomo è come la caduta d’uno stato potente, / che possedeva eserciti prodi, capi e profeti, / e ricchi porti, e bastimenti su tutti i mari, / e ora a nessuno correrà in aiuto, con nessuno stringerà alleanza, / perché le sue città sono vuote, la popolazione dispersa, / il cardo ha ricoperto la sua terra un tempo doviziosa di messi, / la sua missione dimenticata, perduta la lingua, / dialetto di un paesello lontano su inaccessibili monti”. Ed è subito la sua voce, il tono inconfondibile del Milosz poeta, qual salmodiare asciutto sul filo del canto ma come incidendo con uno stilo acuminato su una tavoletta o su una pietra. Il “dialetto di un paesello lontano” fu il polacco, la lingua in cui al contrario di Nabokov o di Brodskij che in esilio abbandonarono il russo, continuò a scrivere i suoi libri pur vivendo esiliato a Parigi per dieci anni e poi negli Stati Uniti dal 1961 e fino alla morte.
Cos’era esattamente Czeslaw Milosz, un saggista, un acuto politologo, un poeta? Nel 1953 uscì La mente prigioniera, un saggio capitale sulla capacità del totalitarismo sovietico di occupare la mente devastandola con l’uso di una perpetua falsificazione dei concetti, nel 1959 Milosz pubblicò La mia Europa, un racconto-saggio bellissimo dove biografia e saggistica politica, memoria du temps perdu e arte del ritratto si univano in una sorta di libro totale in cui il ricordare diventava una sorta di filo di Arianna intellettuale per scoprire la storia nascosta sotto la Storia; nel 1980, l’anno del premio Nobel, usciva La terra di Ulro, una enigmatica discesa nelle correnti sotterranee della cultura europea da Swedenborg a Blake a Dostoevskij alla Weil e fino al misterioso Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz, poeta lituano-polacco ma in lingua francese tradotto anche da Montale, esoterico esageta dell’Apocalisse e per di più zio di Czeslaw. Dove si trovava il vero Milosz, in quale forma di scrittura e di avventura intellettuale? Con una sorprendente capacità di restare fedele a se stesso nel cambiamento, Milosz era perfettamente consapevole di questo suo spirito salamandrino difficilmente catalogabile, e trent’anni dopo aver pubblicato La mente prigioniera scrisse una prefazione: “Il mio libro spiacque praticamente a tutti. Gli ammiratori del comunismo sovietico lo giudicavano insultante, mentre gli anticomunisti sostenevano che mancava di una posizione politica chiaramente definita e sospettavano l’autore di essere ancora, in fondo al cuore, un marxista”.
In realtà Milosz aveva tracciato con La mente prigioniera un disegno del totalitarismo straordinariamente anti-ideologico, provando a scavare dentro la “mente prigioniera” con una sensibilità sottilissima per i dettagli concreti, e era riuscito a creare uno strumento conoscitivo che non smette di essere attuale: non è forse ancora oggi il “desiderio di sicurezza” a spingere verso un nuovo totalitarismo mediatizzato la mente occidentale? Milosz era riuscito a scavare dentro la rete intricata della menzogna che si compiace di sé senza mai cedere alla tentazione dell’astrazione o a quella della risposta risolutiva: si era mosso nella foresta totalitaria disincantata e arsa dell’inquinamento ideologico con le armi di un poeta, e il suo sismografo corporale non si era ingannato sulle trappole mentali della propria epoca.
Negli anni seguenti Milosz continuò a aggirarsi in quella waste land che con una espressione presa a William Blake aveva chiamato La terra di Ulro, il luogo dove “l’uomo mutilato” della modernità si limita a sopravvivere, e arrivò a una sorta di pessimismo sul presente quasi senza vie di uscita. Contro l’idea scientifica di un mondo disumanizzato perché misurabile e razionalizzabile fin dentro i campi di concentramento, nella Terra di Ulro Milosz cercò di costruire una mappa per evadere dalla modernità, una apologia dell’inattualità, una genealogia per dissidenti assoluti: muovendosi tra Dostoevskij demonologo della società di massa e Blake profeta dell’Immaginazione contro la schiavitù dell’industria.
Milosz provò disperatamente a contrapporre alle lacerazioni e all’anomia provocate dalla cieca tracotanza della tecnica, una dimensione totalmente altra dell’esistenza: la capacità immaginativa, l’arte di vedere il mondo secondo una prospettiva creaturale, uno sguardo capace di ridare significato a una vita spezzata dall’alienazione. Ma questa operazione quasi alchemica di ritrovamento dell’essenza vitale diventata filosofia era destinata al fallimento: solo attraverso la poesia, solo in quel territorio sospeso dove vigono le leggi dell’immaginazione, era possibile il suo sogno di risalire la corrente, di arrivare in un luogo dove le cose potessero essere nominate con il loro nome proprio. Ma per quali vie? Nei versi di Ars poetica Milosz parlò dell’ispirazione con una sorta di splendido ossimoro che affermava negando: “Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente: / sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse, / sbattiamo quindi gli occhi come se fosse balzata fuori una tigre, ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi. Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon, /benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo...”, e mescolando ironia e metafisica concludeva quasi con rassegnazione: “è lecito scrivere versi di rado e controvoglia, /B spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza / che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento”. Ma proprio attraverso questo tono “basso” e “colloquiale”, appare improvvisa in Milosz la visitazione demoniaca, la rivelazione di un’altra possibilità: “Quando c’è la luna e le donne in abiti a fiori passeggiano / provo stupore per i loro occhi, le loro ciglia e tutta l’organizzazione del mondo. / Mi sembra che da una propensione reciproca così grande / potrebbe finalmente risultare la verità ultima”. Ma la verità ultima è sfuggente, e soprattutto è mascherata dalla metamorfosi della realtà, ed è per questo che nessuna poesia che cerchi di afferrarne anche solo un brandello può essere definitiva: “Ricomincio continuamente da capo, perché ciò che dispongo in racconto / si rivela una finzione, comprensibile per gli altri, non per me, / e il desiderio di verità mi rende disonesto”.
Il pericolo che si nasconde nella poesia è la finzione, l’abbellimento estetizzante delle cose, la perdita del contorno reale del mondo in cambio della sua ombra menzognera: “Cos’è la poesia che non salva i popoli né le persone? / Una complicità di menzogne ufficiali, una cantilena di ubriachi a cui fra un attimo verrà tagliata la gola, / una lettura per signorinette”. La poesia forza con Milosz la cittadella della ragione pura e la mette a soqquadro con la sorpresa, ma nello stesso tempo non rinuncia nemmeno a una briciola del suo potere conoscitivo: ma come potrebbe farlo rinunciando all’elemento visionario? È questo il gesto da classico della modernità che Milosz ha attuato, e contro la modernità. Attraverso tutte le forme e gli stili della poesia contemporanea, Milosz ha contrabbandato qualcosa che doveva essere irriducibilmente diverso da esse, ma che in realtà si è espresso proprio nelle ferite e nelle lacerazioni del contemporaneo.
In una poesia del 1945 sulle macerie di Varsavia, aveva scritto di non voler cantare per i morti, di non voler sottostare al ricatto nichilistico della distruzione: “Sono forse venuto al mondo / per diventare una prefica? / Io voglio cantare i festini, / i boschetti gioiosi dove mi conduceva Shakespeare. Lasciate / ai poeti un istante di gioia / o perirà il vostro mondo”.
Nel cuore stesso della mitologia di morte del secolo breve la grandezza di Milosz è stata nel suo non cedere al ricatto del lamento, nel suo scavare senza illusioni sorgenti nel mezzo stesso delle macerie, in quella ostinazione a conservare e a dire il bene anche quando tutto sembra sommerso dall’orrore e dal brutto, semplicemente “perché nell’infelicità accorre una qualche armonia e bellezza”.
Ma la sua non fu la bellezza degli estetismi a un tanto al chilo, e fino all’ultimo lo accompagnò il dubbio che scrivere fosse ancora un esercitare potere, una forma dell’avidità e della sopraffazione. Fu per questo che la poesia, come aveva chiesto, lo visitò a volte sotto le sembianze di un demone benigno, come quel Dono che dà il titolo a una sua poesia: “Un giorno così felice. / La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino. / Non c’erano cose sulla terra che desiderasse avere. / Non conoscevo nessuno che valesse la pena d’invidiare. / Il male accadutomi, l’avevo dimenticato / Non mi vergognavo al pensiero di essere stato chi sono. / Nessun dolore nel mio corpo. / Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e vele”. Non c’era più di questi attimi di salvezza che la poesia potesse concedere a lui che la scriveva e a noi che la leggiamo: appena un filo di voce, sull'orlo del precipizio, per chiamare finalmente le cose con il loro vero nome.
(Giuseppe Montesano)
Czeslaw Milosz
Orfeo e Euridice
Sulle lastre del marciapiede all’ingresso dell’Ade
Orfeo era piegato dal vento impetuoso,
che gli tirava il soprabito, faceva roteare matasse di nebbia,
si agitava nelle foglie degli alberi. I fari delle auto
ad ogni afflusso di nebbia si smorzavano.
Si fermò davanti alla porta a vetri incerto
se le forze lo avrebbero sorretto in quell’ultima prova.
Ricordava le parole di lei: “Sei un uomo buono”.
Non lo credeva molto. I poeti lirici
hanno di solito, pensava, un cuore freddo.
E’ quasi un limite. La perfezione dell’arte
si ottiene in cambio di tale imperfezione.
Soltanto il suo amore lo riscaldava,
lo rendeva umano.
Quando era con lei, diversamente pensava di sé.
Non poteva deluderla, adesso che era morta.
Spinse la porta. Percorreva un labirinto di corridoi,
di ascensori.
La luce livida non era luce, ma oscurità terrestre.
I cani elettronici gli passavano accanto senza frusciare.
Scendeva un piano dopo l’altro, cento, trecento,
sempre più giù.
Sentiva freddo. Era consapevole di trovarsi
nel Nessunluogo.
Sotto migliaia di secoli rappresi,
nel cenerume di putrefatte generazioni,
quel regno sembrava senza fondo e
senza fine.
Lo circondavano i volti di una calca di ombre.
Alcuni li riconosceva. Sentiva il ritmo del proprio sangue.
Sentiva con forza la sua vita insieme con la sua colpa
e temeva d’incontrare quelli cui aveva fatto del male.
Ma essi avevano perso la capacità di ricordare.
Guardavano altrove, indifferenti a lui.
Come sua difesa aveva la lira a nove corde.
Portava in essa la musica della terra contro l’abisso,
che addormenta tutti i suoni col silenzio.
La musica lo dominava. Allora era remissivo.
Si arrendeva al canto imposto,
in estasi.
Come la sua lira, era soltanto uno strumento.
Finché giunse al palazzo dei governanti di quel regno.
Persefone, nel suo giardino di peri e meli seccati,
nero di nudi rami e di grumosi rametti,
e il suo trono, funereo ametista – ascoltava.
Egli cantava il chiarore dei mattini, i fiumi nel verde.
L’acqua fumante di un riflesso rosato.
I colori: cinabro, carminio,
siena bruciata, azzurro,
i piaceri di nuotare presso
gli scogli di marmo.
Il convito sulla terrazza nel chiasso
del porto dei pescatori.
Il sapore del vino, del sale, delle olive, della senape,
delle mandorle.
Il volo della rondine e del falco, il solenne
volo di uno stormo
di pellicani sul golfo.
Il profumo di fasci di lillà nella pioggia d’estate.
Cantava che componeva le sue parole contro la morte
e che nessuna sua rima lodava il nulla.
Non so, disse la dea, se tu l’ami,
ma sei giunto fin qui per riprenderla.
Ti sarà restituita. A una sola condizione.
Non ti è permesso parlarle. E sulla via del ritorno
di voltarti, per vedere se ti segue.
Ermes portò Euridice.
Il suo volto era diverso, affatto grigio,
le palpebre abbassate, sotto di esse l’ombra delle ciglia.
Avanzava come irrigidita, condotta dalla mano
della sua guida. Ah, come voleva pronunciare
il suo nome, svegliarla da quel sonno.
Ma si trattenne, sapendo che aveva accettato
la condizione.
Si avviarono. Prima lui, e dietro, ma non subito,
il battito sonoro dei sandali e quello tenue
dei piedi di lei impediti dalla veste come sudario.
Il sentiero in salita era fosforescente
nell’oscurità, simile alle pareti di un tunnel.
Si fermava e restava in ascolto. Ma allora
anche essi si fermavano, una fievole eco.
Quando riprendeva a camminare, risonava il duplice battito,
una volta gli sembrava più vicino, poi di nuovo lontano.
Sotto la sua fede cresceva il dubbio
e lo avvolgeva come freddo convolvolo.
Non sapendo piangere, piangeva per la perdita
delle speranze umane nella rinascita dei morti,
perché adesso era come ogni mortale,
la sua lira taceva e sognava senza difesa.
Sapeva di dover credere e non sapeva credere.
E a lungo doveva durare l’incerta veglia
dei propri passi contati nel torpore.
Albeggiava. Apparvero i gomiti delle rocce
sotto l’occhio luminoso dell’uscita dal sottosuolo.
E accadde ciò che aveva presentito. Quando girò la testa,
dietro a lui sul sentiero non c’era nessuno.
Il sole. E il cielo e le nuvole su di esso.
Soltanto ora sentì gridarsi dentro: Euridice!
Come vivrò senza di te, o consolatrice!
Ma profumavano le erbe, durava basso il ronzio delle api.
E si addormentò, con la guancia sulla calda terra.
(traduzione di Paolo Statuti)
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Dopo (Q)
Mi sono cadute concezioni, convinzioni, credenze,
opinioni, certezze, principi,
regole e abitudini.
Mi sono svegliato ai margini della civiltà
che mi è apparsa comica ed incomprensibile.
Le aule a volta, un tempo dell’accademia dei gesuiti,
dove apprendevo le scienze,
non sarebbero soddisfatte di me.
Anche se ancora ricordo
alcune sentenze latine.
Il fiume scorre sempre tra le foreste di querce e pini.
Stavo immerso fino ai fianchi, ispirando il profumo selvatico
di fiori gialli.
E i nembi. Come sempre da queste parti
tanti nembi.
(Sul fiume Wilia, 1991)
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L’aldilà (AD)
O che spaziose stanze celestiali!
Ascendere a loro su gradini aerei.
Giardini paradisiaci pensili sulle nuvole.
L’anima si stacca dal corpo e plan,
Ricorda che ci sono l’alto
E il basso.
È vero che abbiamo perso la fede nell’aldilà?
Sono spariti, scomparsi il Cielo e l’Inferno?
Senza prati aldilà della terra come incontrare la Salvezza?
Dove avrà sede l’associazione dei condannati?
Piangiamo, lamentiamoci per la grande perdita.
Copriamoci il volto con il carbone, sciogliamo capelli.
Supplichiamo che ci ritorni
L’aldilà.
(traduzione di Maciej Bielawski)