UNA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI (incomunicazione)" (1967) "

Commento di Giorgio Linguaglossa

 

 

La poesia inizia con il termine «(incomunicazione)» messo tra parentesi e finisce con la parola «incompiutezza», senza parentesi. C'è un dialogo, ma del tutto slogato, dissestato, de-territorializato, che non obbedisce più alla legislazione della sintassi. Qual è l'oggetto?, non si sa, ci sono «frammenti», «singhiozzi», compare un «mi ascolti», ma non sappiamo chi sia l'interlocutore che dovrebbe porsi in posizione di ascolto. Si progredisce nei tre quattro versi seguenti a tentoni, fino ad incontrare: «parlo al compatto vuoto del soffitto». Si cerca un «perché», si va alla ricerca di un «perché» come un commissario va alla ricerca delle tracce del delitto; nella composizione sono inseriti spezzoni di dialoghi, dialoghi espliciti e dialoghi impliciti, proposizioni implicite di un monologo pensato. C'è una «segretaria al telefono», ma non si capisce bene se sia lei ad inserirsi nel dialogo o se stia tentando di «cauterizzarlo», come si cauterizza una escrescenza. Il dialogo (o meglio il monologo) non va alla ricerca del senso, piuttosto lo fugge con tutte le sue forze, vuole divincolarsi dal legame col «senso», vuole liberarsi dalla soggezione del «senso», così come parimenti vuole liberarsi dalla «soggezione della sintassi», dal potere estraneo e impositivo della logica, suprema inerenza della sintassi.

 

È vero che la poesia e la pittura contemporanee si prestano più di ogni altra arte ad esemplificare la perdita del senso o smarrimento del senso. La poesia classica, fino a L'infinito (1821) di Leopardi, si prestava ad una sola interpretazione, il senso era innervato nell'atto della lettura. Con l'avvento del Moderno accade qualcosa di apparentemente insolito e disturbante, di inspiegabile: il testo poetico perde la sua centralità, non è più la sede del senso, il senso non è più rinvenibile mediante una e una sola interpretazione ma sarà visibile attraverso il conflitto delle letture e delle interpretazioni, esso si dà a vedere soltanto mediante la problematica del conflitto. Il senso sbircia tra i segni del testo (poetico, musicale, figurativo), tenta di affiorare alla superficie, ma si ritrae, si allontana, tende al nascondimento. La struttura del senso esisterà soltanto nella tensione tra l'affioramento e il nascondimento, essa non si dà più come scoperta della «verità», perché non c'è più alcun «contenuto di verità» stabile e definitivo, ma ci si trova davanti ad un contenuto di verità instabile, aleatorio, effettuale, eventuale, residuale. La struttura del senso si dà soltanto tramite il proprio carattere residuale, di scarto; questo è la sua marca, il suo segno di autenticità o, quantomeno, segno della sua provenienza autentica, cioè che proviene dall'autore.

 

Si è così affermata la convinzione secondo cui il testo (poetico, figurativo, musicale etc.) si presta a molteplici letture e interpretazioni, il testo diventa una struttura significativa attraversata dalle molteplicità delle letture. Quanto andiamo dicendo diventerà evidente per la poesia italiana già negli anni Sessanta. Sono gli anni chiave. Sono anni di svolta repentina. Sono anni di boom economico, la società di massa è alle porte, la piccola borghesia ambisce ad uno status di benessere, sarà l'invasione degli elettrodomestici a fare la prima e unica rivoluzione della società italiana dello stato unitario,  la faranno il televisore, la lavatrice e il frigorifero. Se leggiamo la poesia riportata, che fa parte della raccolta Sessioni con l'analista (1964-1966) di Alfredo De Palchi, abbiamo la esemplificazione di come il linguaggio poetico sia diventato il terreno di scontro di fortissime tensioni testuali, di fibrillazioni emotive, di disconnessioni metriche, sintattiche e semantiche. Ne La buia danza di scorpione, scritto dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951, è preponderante l'atto dissacrante della gestualità ingovernabile, il testo è l'espressione del gesto dissacrante; con l'opera successiva, con Sessioni con l'analista, che sarà pubblicata in Italia nel 1970, lo smarrimento del senso e dell'interrogazione che lo segue diventa fatto testuale, oggettivo. In una parola l'atto della scrittura si è de-soggettivato.

 

 

(incomunicazione)

 

frammenti secchi singhiozzi, turbinio

interno - mi ascolti

congelando alla parete una stampa

di olmi fiume e strada

          - che ho perso -

mentre con sola immaginazione parlo

al compatto vuoto del soffitto

 

che dici, seccamente il tuo "perché"

frantuma il silenzio dell'ufficio

           - la segretaria al telefono... -

oltre l'uscio lunedì all'una

risponde e a me sabato all'una

il dottore.. incredibile,

che ne so -

il "perché" è domanda stupida

               - difficile -

impossibile estrarlo, rimane una cava

paleolitica,

impossibile cauterizzarlo e ancora il tuo "perché"

 

non ho colpe,

altri, i complessi

del paleolitico superiore -

"che fa la segretaria"

si tratta d'isolamento

 

incompiutezza -

 

*

 

Alfredo de Palchi AUTOANTOLOGIA - DODICI POESIE (1947-2013)

 

L'originalità e l'indipendenza in campo poetico di Alfredo de Palchi (nato nel 1926) sono da tempo accertate. Come poeta italiano che vive negli Stati Uniti da più di cinquanta anni, che continua a scrivere esclusivamente in italiano, e le cui opere sono state in buona parte tradotte in inglese, de Palchi emerge per i suoi tersi e tesi versi svolti con sintattica audacia, per i salti semantici (ciò che richiama il concetto di Josif Brodskij di poesia che "accelera il pensiero"), e per l’auto-analisi mai sentimentale, con tonalità che vanno dal sarcasmo alla glorificazione dell’Eros. Gli argomenti poetici l’autore li trae dalla propria esperienza, e ciò vale in particolare per la produzione giovanile, che evoca il ragazzo povero e orfano del padre, le sofferenze patite durante la seconda guerra mondiale e l'ingiusta carcerazione subita nel dopoguerra. Negli anni successivi, de Palchi lascia alle spalle le sofferenze del tempo di guerra, e volge invece lo sguardo al rapporto uomo-donna, esaltando il piacere sessuale. Si interessa anche alla scienza, in particolare alla biologia e alla geologia. Il modo preciso e nel contempo idiosincratico con cui il poeta introduce la scienza nella sua visione tragica del comportamento dell’uomo e in genere della condizione umana, già da solo lo distingue da altri poeti europei e americani suoi contemporanei. La produzione recente mette in scena la lotta del poeta con una figura che sembra rappresentare la morte. Una ricca scelta dell’opera poetica di Alfredo de Palchi con testo a fronte si trova in: Paradigm: New and Selected Poems 1947-2009 (Chelsea Editions, 2013), tradotto in italiano con il titolo Paradigma: tutte le poesie 1947-2005 (Mimesis / Hebenon, 2006) e Foemina Tellus (Joker, 2010). Si veda anche la raccolta di saggi Una vita scommessa in poesia: Omaggio ad Alfredo di Palchi (edita da Luigi Fontanella, Gradiva Publications, 2011).

 

—John Taylor

 

 

 

da LA BUIA DANZA DI SCORPIONE (1947-1951)

 

da Il principio

 

Il principio

innesta l’aorta nebulosa

e precipita la coscienza

con l’abbietta goccia che spacca

l’ovum

originando un ventre congruo

d’afflizioni

 

 

 

da Un’ossessione di mosche

 

Al calpestio di crocifissi e crocifissi

sputo secoli di vecchie pietre

strade canicolari

il pungente sterco di cavalli immusoniti

in siepi di siccità

(al gomito dell’Adige allora crescevo

di indovinazioni, rumori d’altre città)

e sputo sui compagni che mi tradirono

e in me chi forse mi ricorda

 

 

 

da SESSIONI CON L’ANALISTA (1948-1966)

 

da Bag of flies

New York 1961

 

3

a 12 anni

meschino nella tuta lurida di grassi

per motori a nafta

consegno 5 lire

(la settimana—domenica compresa)

nella busta troppo larga al nonno anarchico

mangiato dal cancro. Non sai che

dopo una sovente cena di aringa

mani tagliuzzate, nere di ruggine acidi unti

imparo il disegno industriale

il violino e l’altrui invidia per la borsa di studio;

non sai delle mie colluttazioni con i compagni

per l’esistenza animale—del gobbo Toni,

dal ponte, che mi getta nell’Adige

il cane a zampe legate

uno straccio nella bocca—

 

 

 

da COSTELLAZIONE ANONIMA (1953-1973)

 

da Costellazione anonima

 

Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno

su me un cadere continuo di polvere dal soffitto

sul letto tappeti bottiglie dalle pareti

che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere

già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa

polvere che rassodata nello spazio gira su sé stessa

e intorno il sistema termonucleare come me cadavere

che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto

dal mio centro intorno me stesso:

costellazione anonima.

 

 

 

da LE VIZIOSE AVVERSIONI (1951-1996)

 

da Mutazioni

 

10

 

tracciamo il cerchio intorno all’esilità

che siamo,

convinti di segregare noi da loro

loro gonfi di malnutrizione e sin dalle origini

sigillati nella melma subdola

di spore, intrecci, filtri;

alziamo la pietra lapidata di scritture,

formicolii, spermatozoi bianchissimi, molecole:

è questo il continuo inizio, il barlume

che ci imprigiona tra un lineare di orizzonti e lo sbalzo—

 

 

 

da PARADIGMA (1950-2000)

 

da Paradigma

 

L’occhio della serpe è un qualsiasi dio—

uragano che scopre fondamenta

travi chiodi

e con la spirale centripeta spazza

il quotidiano lasciando al raso

il reale più fecondo

Questa la serpe bella fredda

testa piatta a triangolo a stemma

di religione—l’amo perché strisciando

sibila con sveltezza la lingua

sulla centrifugazione degli oggetti

e nell’occhio centra stolidamente

le emozioni di chi non sa reagire

Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo

qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica

il piede: la mano stupenda—il paradigma.

1964

 

 

 

da Essenza carnale

 

Quanto usufruire dello spasimo che ci scuote,

e le mani si cercano nelle nebbie

sotterranee di fili di voci travolgenti,

che mi spinge a te vedova nera di un evento

che tormenta nelle braccia il tormento

quando si è soli nelle proprie braccia.

Guardami, dimmi, è così per te, trafissa nell’astruso

esplodere di parole vocali insensate,

udite con tenerezza mentre ciascuno percepisce

penetrando l’immagine che l’una ha dell’altro,

e generate nel tuo terreno seminabile a onde assiderato

con fioriture sotto una coltre di polvere;

io sono chi tu cerchi, sono

il giogo felice che trovi per le colline infertili,

le miniere di sale, le pianure e le vie disertate

che stringono il domicilio semispento;

parlami con il tuo sesso alla gola,

urlami dentro che sei chi mi offre il proprio terreno

vivacemente di acque colline pianure e foreste chiare;

tu sai, la distanza uccide.

 

5 febbraio 2000

 

 

 

da ULTIME (2000-2005)

 

a Giovanni Raboni

 

In rue de l’Arbre Sec ti osservo

a seccare il becco di merlo felice

slavato dall’acquata recente

a rantolare “frères humains” dallo splendore

della gola che ti prosciuga e che soltanto io ascolto

strozzarsi di paura testarda

ti cercavo nei secoli di vicoli viscidi

della tua città che derubi a coltellate

e t’incontro finalmente sulla forca d’antan

in questa via, al Caveau François Villon,

che ospita il tuo gradito compagno di sventure

alfredo de palchi.

 

Parigi, 29 giugno 2003

 

 

 

da FOEMINA TELLUS (2005-2009)

 

da Contro la mia morte I

 

Un’antica nostalgia da suicidio

opprime quello che resta

del cuore già in lutto

colpito da te—arrivi dove

il nulla è nulla

il bianco è la macchia vaga dell’orbo

finito nelle tenebre dell’orbita

ormai per sempre ferma per sempre

ferma per sempre

non guardiamo indietro

indovinare cosa si è dovuto abbandonare

non lo sapremo mai.

9 dicembre 2006

 

 

 

da Foemina tellus

 

Oramai il tuo corpo splende

di zampilli e cenere di volcano

quanto dal profondo

il magma arde la superfice di sabbie estese

e massi di mammelle

lo spazio profondo ti scintilla

di anni a luce quanto

il cortove di galassie

all’infinito

si amplia cosmico di gragori

dal profondo l’estensione acquea si acidifica

il caleidoscopio submarino

scarica la violenza

per ravvivare il fluire della tua vulva

spenta

terra già sciolta nel profondo quanto i ghiacciai

ustioni

bruci

stecchisci

esplodi.

 

31 dicembre 2007

 

 

 

da Contro la mia morte II

 

Alla scorsa incursione

mi pianti nel rettangolo

di verde, l’aiuola

non per la salma

adesso che travallo

e boccheggio a pesce nel vuoto

mi proponi la pace

nel nulla

credi d’infinocchiarmi

con il tuo aspetto di monaca

libera di sbarre e di libidine

il viso roseo nel fondo di biacca

ma ti riconosco dalla puzza

che emani da sotto la veste

di vergine che non sei

penombra che sbarri la strada

sapessi quanto male ti voglio

quanta ingiuria di stupri

non appena di avvicini

proteggendoti con dieci ossi

il seccatoio.

 

22 giugno 2008

 

 

 

da Le Deluge

 

Non c’è misura del tempo

dove rimugino luoghi costanti dove

senza fuoco il sole

è una idea senza fuoco

nella melma

sotto il suolo come una radica liquefatta

che la pioggia penetrando filtra

in acquifera

così l’eterno che odo

adagio molto e cantabile

dolcezza impossibile di acque

sotterranee in re minore’

per esplodere in ‘inno alla gioia’

capendo che il diluvio è

libertà della natura di nascere

e morire.

 

20 giugno 2009

 

 

 

—Alfredo de Palchi

 

(Paradigm: New and Selected Poems 1947-2009, edited by John Taylor, New York: Chelsea Editions, 2013.)

 

POESIE di Alfredo De Palchi da Sessione con l'analista (1948-1966) e da Paradigm, (Chelsea Editions, 2013) con uno scritto di Luigi Fontanella un Dialogo tra Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa e un Commento finale di Giorgio Linguaglossa

 

Da uno scritto di Luigi Fontanella: «Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vittima di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfredo, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. […] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima produzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni […]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affrontare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si concluse esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul quale, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collaborazionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena”». (n.d.r.)

 

*

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.

Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).

Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.

 

Nessuna certezza
dalla spiritualità arcaica del mare––
gesticolo le braccia al cielo che affonda
sbilanciato nei verdi avvallamenti

mutazione cosciente
vescica rovesciata metamorfosi
per un abisso d’alghe e pesci,
non mi differenzio––sono
l’escrescenza che si lavora in questa
epoca
e dovunque bocche di pesci
aguzze su altri pesci

il mare un vasto cratere
e fissi al remoto I pesci graffiti
non guizzano dove sradicato
il gabbiano è l’unica dimensione
conscia
dell’inarrivabile bagliore.

 

(primi anni del 1960)

 

 

da Sessioni con l'analista (1948 - 1966)

da Bag of flies

6


dicono
                  — i comandamenti — ma quali,
se gutturale la fiamma che ammonisce
aggrava i litigiosi che li smentiscono, se maligna
s'incarna in un'altra voce
che istruisce dalla montagna.
Conosco io, non te meritevole, quei comandamenti —
solo veri.
Dimentico la pena lacerante, non l'odio
di cui la ragione mi svergogna per voi tutti.
                           Io neppure so più amare,
solo so bruciarvi con i miei anni
di punizione e questa
domenica del patire parolaio / ancora i vostri rami
d'ulivo sono l'infetta infiammazione, torce di numerosi
Getzemani dove popolazioni sono triturate
dagli Eichmann e da milioni che si lavano le mani.


Non una parola
                       (la si sente tardi)
solo mani rapaci che usurpano quelle
mani inchiodate all'avvento mistificatore,
mistificato, torpore,
fiaba della resurrezione.
È domenica delle palme —

 

da Sessioni con l'analista

4

strumenti: ben
disegnati precisi numerati
non occorre contarli: hanno già l'osseo colore;
nella cava il paleontologo
scoprirà la scatola blindata di lettere
che dissertano l'uomo, alcuni ossi
su cui sono visibili tracce
delle malefatte — e nel libro
spiegherà che gli strumenti automatici
erano (sono) necessari ai robots primitivi


           "spiega"
lo so, il mio dire
non mi esamina o spiega, eppure . ..
             (la segretaria incrocia le gambe sotto il tavolo
             e vedendomi in occhiali neri
             "interessante"
             commenta "ma ti nascondi")
è chiaro
             — sono ancora nascosto —
non più per paura benché questa sia . . . per
autopreservazione
"perché" paura, accetta i risultati,
affronta . . . difficile
l'autopreservazione,


capisci? se tu mi avessi visto allora
nel fosso, dopo che il camion...

(il camion traversa il paese
infila una strada di campagna seminata
di buche / ai lati fossi filari di olmi /
addosso alla cabina metallicamente
riparato pure dai compagni che al niente
puntano fucili e mitra)
— capisci che si tratta di strumenti —
(ho il '91 tra le gambe)


di colpo spari e io
          — già nel fosso —
alla mia prima azione guerriera non riuscii. . .
me la feci nei pantaloni kaki
l'acqua mi toccava i ginocchi. Sparai quando
"leva la sicurezza bastardo" urlò il sergente Luigi
— fu l'ultimo sparo in ritardo —
dal fosso al cielo di pece
strizzando gli occhi
la faccia altrove — risero:


"sono scappati
hai bucato il culo bucato dei ribelli"


          — capisci? se la ridevano —
mentre io non pensavo
no, alla preservazione.
La intuivo nel fosso —

10


freddo — la neve blocca il poco traffico
a Vercelli
e si esce la notte (1951)


               — non vuole farsi vedere con me —
temendo il giudizio del paese
               "la reputazione, sai. . . "


                — a me non importa —
la mia reputazione fa il giro
e la curiosità . . . le spiego l'entomologia
l'amore degli insetti
                  "gli insetti maschi
                  acchiappano le femmine riluttanti
                  mettendo in moto speciali furbizie"
                  — la curiosità —
s'informa mentre si cammina nella neve
dei viali della stazione:
                 "grilli e cavallette sono inclini alla musica
                  le farfalle s'appoggiano
                  ai profumi e le mosche di maggio
                  aromatizzano la seduzione con la danza"


succede . . .
andiamo al cavalcavia, oltre i giardini:
ora, d'accordo,
amo la ragazza ma
                 "la sanno meglio i maschi delle malacchidi
                 (minuscoli scarafaggi dei tropici)


                 — non ch'io sia scarafaggio, però . . . —

                 che adescano le femmine con un nettare
                 piccante / per allentare poi le loro inibizioni
                 le iniettano di frode un afrodisiaco"


                — succede qualcosa di simile —


in piedi, sotto il cavalcavia:
                "perché l'hai fatto"
piange pulendosi con la neve.
La pulisco
                 — d'accordo, non ho complessi di colpa —
ma non più m'interessano le vergini
"perché"
quel sangue pulito infiamma la neve — e lei piange
                  "perché l'hai fatto, la mamma . . . "


(pensi che la segretaria
cosce lunghe incrociate sotto il tavolo,
da .. . finché)... la mamma —

16


(dopo) — che mi porta —
l'inquietudine neurotica
incastonata nell'incertezza
è uno stormo implacabile, un cancro: ora
             (fuggire)


             alla frontiera
"documenti" chiede il finanziere
"non sei in regola,"
                        sono "guarda bene,
ne hai un pacco" timbrati dalla questura


libertà che persegue
             (sul treno, terza classe, di notte
             una coppia mi persegue


             con occhi glutinosi)
                        glutine umana


sfoglia, legge "ah"
e timbra documenti passaporto
"comportati bene" chiude il pacco
"fai presto carogna" penso
             — il gatto mi piange sulle spalle —
ma è bello fuggire
con una valigia di poeti scorpioni
le loro menzogne in buona cera
sotto il sedile
              — me li porto dovunque —
per rassicurarmi delle menzogne abbaglianti:

astrazione
eccetto i miei anni: il contatto
la glutine umana —

 

 

 

Appunto di Giorgio Linguaglossa (da lombradelleparole.wordpress.com)

 

13 dicembre 2014 alle 9:59 Modifica

 

caro Alfredo De Palchi,

il fatto che [...] è la riprova che la sua poesia segue il filo del significante, è una poesia dipendente dal “gioco” dei significanti. Un concetto di poiesis che abbiamo conosciuto nel corso del tardo Novecento, e che forse (mi permetto) ha nuociuto alquanto alla poesia italiana perché ha introdotto l’equivoco pensiero che non si potesse fabbricare in Italia poesia adulta che non fosse stata sperimentale. Cosa voglio dire? Dico semplicemente che la poesia di [...] è confezionata in consonanza con le concezioni tardo novecentesche post-sperimentali basate sull’autonomia della catena del significante il cui capostipite più evoluto, abile e influente è stato indubbiamente Andrea Zanzotto con La Beltà del 1968. Questa la genealogia. E andava detto. Anzi, va ogni giorno ripetuto.

Una cosa appare chiara a chi abbia orecchie per intendere: che la poesia del presente e del futuro non passa più (se mai c’è passata) attraverso l’autonomizzazione della catena del significante e che bisogna andarsela a cercare altrove. E qualcosa c’è stato nella poesia italiana degli ultimi tre quattro decenni che si è mosso in questa direzione, ci sono state delle opposizioni, non è vero che il pensiero maggioritario (nelle Accademie e nelle Università) non sia stato contrastato, sono tanti i poeti di valore che hanno posto un alt e un altolà a questa deriva concettuale (e in tal senso anche la poesia di Magrelli ha avuto un lato positivo, non lo nego, anche se poi ha introdotto un elemento di deterioramento ancora forse più grave: una scrittura poetica fatta di secondarietà; ma questo è già un altro discorso). Quello che volevo sottolineare è che è finita da lunghi lustri in Italia la poesia del significante (per fortuna) e che attardarsi su quella impostazione di fondo comporta restare periferici, marginali, e comporta continuare a fare una poesia di stanca derivazione epigonica.

E veniamo al testo che hai postato datato anni ’60. È un testo, come può vedere chiunque sappia leggere una poesia, che non si basa sulla catena del significante ma che va per altra strada: va per intensificazione e slittamento di immagini e di parole immagini. Voglio dire questo: che la tua poesia già allora (Anni Sessanta) era già fuori moda, non si accodava alla concezione maggioritaria basata sui giochi del significante e sulla autonomizzazione del significante ma deviava, in modo consapevole, verso una poesia fitta di intensificazioni e di accelerazioni tra le parole e le immagini. Non mi meraviglia quindi che la tua poesia sia stata non compresa in Italia. Il fatto è che non poteva essere compresa per via di quella griglia concettuale (e anche di altro, ma qui soprassediamo) che tendeva a rivalutare altre impostazioni, da quella tardo sperimentale a quella che prediligeva una poesia degli oggetti, alla poesia presuntivamente vista come impegno o civile…

 

 

Risposta di Alfredo De Palchi (da lombradelleparole.wordpress.com)

 

Alfredo de Palchi

15 dicembre 2014 alle 4:35 Modifica

 

Caro Giorgio Linguaglossa, benché esca dalla camera da letto alle sei del mattino ed rientri verso la mezzanotte, il mio tempo di fare tante cose è rallentato, eppure trascorre molto in fretta. Così arrivo ormai sempre in ritardo anche a commentare.

Apprezzo il tuo intervento esplicativo. Le varietà poetiche, pseudo avanguardiste, del secondo Novecento, neanche le classificai nel mio mondo personale. Le avanguardiette le precedetti nel 1948 con Il poemetto Un ricordo del 1945, e pubblicato da Vittorio Sereni nel 1961 nel primo numero della nuova rivista “Questo e altro”; precedette di almeno dieci–quindici anni “I Novissimi” e le avanguardiette seguenti. Quel mondo finse di non averlo letto, e confermò il mio l’amico Leonardo Sinisgalli a New York durante le nostre camminate quotidiane per oltre un mese. Il poemetto menzionato, in uno stile psicologico nuovo per me, finì nel silenzio per non dare voce allo sconosciuto scrittore. Vivevo fuori d’Italia. Non avevo possibilità di farmi sentire, in più mi rifiutavo di chiedere qualcosa a qualcuno. Però ora dico che le menate dei “Novissimi”, avanguardiette, e cosiddette teorie o ricerche poetiche che descrivi, entrarono in un orecchio per uscire dall’altro. E perché, durante gli anni 1950 e 1960, la mania della scelta ideologica fece suicidare un poeta che conobbi, apprezzai , e pubblicai; si uccise perché il partito comunista gli rifiutò la tessera. Tutti gli scribacchini di quel periodo capirono che per fare carriera bisognava avere la tessera “fascista” della sinistra. Immagina se io, tipo disintegrato dovunque, mi sforzo a firmare una tessera politico-sociale quando non ho mai pensato di appartenere a gruppi letterari, clubs, nemmeno al Pen Club (chiarisco: non quello italiano) di New York che più volte mi invitò.

La mia poesia non ha un unico stile, in essa si trovano scritture diverse tra le quali c’è l’unica d’avvero avanguardia Sessioni con l’analista, 1964–1966 (1967), e altri lavori. Le mie intuizioni e scoperte le praticavo scrivendole, non da chiacchierone alla P.P. Pasolini e compagni che di psicologia ne davano notizia di loro stessi senza creare nulla. Chiacchiere. Sessioni con l’analista non si impose perché gli addetti ai lavori non intendevano riconoscere sopra la loro la mia importanza; e in maggioranza i recensori, che non capirono il linguaggio, su vari giornali beffeggiarono quella importanza. Silvio Ramat, onesto ma confuso sullo stile e sulla materia, pubblicò su La Nazione e su La Fiera Letteraria recensioni non positive. Con Ramat che non conoscevo di persona ed io diventammo amici, e si convertì alla mia poesia circa quarant’anni dopo; con Marco Forti, positivo, c’era stima reciproca; voglio dire che nonostante i sberleffi idioti di recensori chiusi nello scatolame accademico più declassato, io non perdetti sonno e voce, non disperai, mi comportai con indifferenza.
Voglio ricordare che alcuni mesi fa su "L’ombra della parola” un tuo magnifico articolo che illustrava uno o due testi delle Sessioni con l’analista. Nessuno ci fece caso, i principali motivi sono: 1) non piace stile forma e soggetto a chi apprezza testi, e poetizza allo stesso modo, che io definisco invecchiati alla nascita; 2) non piace a chi non comprende nulla di stile forma e soggetto.

Non ho problemi con le poetiche, apprezzo ogni stile forma e soggetto se l’insieme è poesia, non scialba preziosa costruzione. I problemi attuali sono ancora quelli di coloro che invasero buona parte desertica della seconda metà del Novecento e oltre, proseguendo ad ammalare la scrittura delle recenti generazioni di imitatori. Ovviamente ci sarà nel sottobosco affollato un migliore, un nuovo, un poeta-artista. Un pittore, si dice anche dell’imbianchino, ma un creatore si dice dell’artista-pittore. Artiste-peintre. Vive la différance!

 

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

 

Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore». Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

 

*

 

Potessi rivivere l’esperienza
dell’inferno terrestre entro
la fisicità della “materia oscura” che frana
in un buco di vuoto
per ritrovarsi “energia oscura” in un altro
universo di un altro vuoto
dove
la sequenza della vita ripeterebbe
le piccolezze umane
gli errori subordinati agli orrori
le bellezze alle brutture
da uno spazio dopo spazio
incolume e trasparente da osservarla io solo

rivivere senza sonni le audacie
e le storpiature
persino le finestre divelte
i mobili il violino il baule
dei miei segreti
tutti gli oggetti asportati da figuri plebei
miseri femori.

 

(21 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

 

*

 

Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre

nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto.

 

(22 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

 

*

 

Pretendi di essere il falco

che sale in volo

sussurrando storielle infertili

e vertiginosamente precipiti sulla preda

che corre alla tana del campo

mentre ti senti potente con il rasoio

alla mia gola

Guerrino Manzani

non è così che accade

sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci

a brandelli dalla tua preda

io

che ti gioca le infinite porte del cielo

ti eutanasia nella vanità

di barbiere da sottosuolo dove

a bocca colma della tua schiuma

ti strozzi finalmente sgraziato

non puoi vedere lo spirito malvagio che sai di possedere

gli specchi del vuoto fanno finzione

volando a pipistrello sei dannato

a rasoiarti la gola

a cercare il tuo nulla dentro il nulla

 

(27 giugno 2009)

 

*

 

Che tu sia sotto

in mucillagine di vermi

o sopra

a vorticare nel vuoto

rimani il bifolco delle due versioni

nell'oscurità totale

finalità troppo benigna per te

Nerone Cella seviziatore

rapinatore violentatore

le visioni di troppa madre di cristo

nella tua cella

non ti salvano con i tuoi compagni di tortura

subito spersi nell'Adige

il mio augurio di qualsiasi morte a voi

che vi dànno tra la terra e il primo spazio

mentre mi cinghiate mi bruciate le ascelle

mi spellate

la tua vergogna è alla luce dove

ti conto l'eternità di tempeste drammi nuvole

dove qui sta l'inferno

e tu flagellato alla gogna

designato a seviziare rapinare

e violentare carnalmente i tuoi compagni

di tortura e di malaffare.

 

(28 giugno 2009)

 

*

 

Di poca intelligenza per la commedia dell'arte

Fabrizio Rinaldi

sei la maschera che sa di sapere

solo per sentito dire da chi

ha sentito dire

e scrivi sul giornale dei piccoli L'Arena

le lettere di presunti crimini

avvenuti prima della tua nascita geniale

tra bovari con mani di sputi

nella Legnago

riserva d'ignoranza e bassure

da pagliaccio di paese

ti arroghi di soffiare menzogne

ed io rispondo che ho sentito dire

da chi ha sentito dire che sei

culatina finocchio frocio orecchione pederasta pedofilo

e non ti diffondo sul giornale

ma in questo lascito

per te i beni augurabili da San Vito

sono i cancelli aperti alla notte

per cercare sulle strade deserte

e tra gli alberi della "pista"

l'invano.

 

(29 giugno 2009)

 

*

 

E voi bifolchi

eroici del ritorno

sul barcone dell'Adige

mostratevi sleali

e vili quali siete

con il numero ai polsi di soldati

prigionieri

non di civili dai campi di sterminio

siete sleali per tradimento

vili per la fuga verso

battaglie di mulini a vento

spacciandovi liberatori al culo dei vittoriosi

che vi scorreggiano in faccia

ora non scapate

da San Vito dov'è obbligo

narrarvi le stesse menzogne

tra compagni

rifare gli eccidi dei Pertini e dei Longo

criminali comuni all'infinito

e finalmente

spiegare la verità dei ponti antichi

lasciati saltare nell'Adige di Verona

forse anche i defunti avrebbero orecchie.

 

(30 giugno 2009)