POESIE di Maria Rosaria Madonna (1942-2002) da "Stige" (1992) e Inediti con un Saggio di Giorgio Linguaglossa e Prefazione di Amelia Rosselli
A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (1942-2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse con la sigla editoriale «Scettro del Re» l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige. A quel tempo avevo pensato di tentare l’impresa editoriale, e infatti decisi di pubblicare senza indugio il libro di Madonna con la quale intrattenni poi dei rapporti epistolari anche per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con dodici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trova adesso la luce uno dei poeti di maggior talento del tardo Novecento. Sempre scontenta di sé, Madonna rottama un bel mannello di poesie di Stige (quelle a pagina 52, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60 e 61) e sottopone a riscrittura molte altre composizioni.
Per la presente edizione ho adottato il criterio di inserire nelle «Poesie inedite» (1992-1995) le composizioni sottoposte a riscrittura in quanto devono essere considerate a tutti gli effetti poesie «nuove»; il gruppo «Poesie inedite» (1995-2002), raccoglie invece le rare composizioni degli ultimi anni della sua vita dove si nota l'abbandono della caratteristica effrazione semantica delle poesie in «neolingua» di Stige, l'utilizzo di un linguaggio più snodato, una sintassi più elastica, un avvicinamento al piano del «quotidiano», l’inserimento del «parlato» e del «dialogo», una poesia più colloquiata, un maggiore innesto di metafore, tutti elementi che contrassegnano l'avvenuta mutazione dello stile che si muove adesso in direzione della assimilazione di un linguaggio quasi prosastico e il frequente ricorso ad immagini, un avvicinamento agli «oggetti» posti nello spazio, anzi, strutturati dentro lo spazio, un coglimento degli «oggetti» che rispetta loro irriducibile alterità rispetto all'espressione linguistica. Nella sezione di apertura del volume: «Biografia immaginaria», ho inserito poesie inedite in volume che erano già apparse sul n. 28/29 di Poiesis, più altre composizioni che per ragioni strettamente stilistiche si apparentano al modo di scrivere proprio degli ultimi anni di vita dell’autrice: la tematizzazione del tema viene centrata, per così dire, «blindata»: il colloquio con i «barbari» (la prima e la seconda poesia) e con i personaggi femminili (e non) del lontanissimo mondo pagano (la filosofa Ipazia, l’imperatrice Teodora, Penelope, il console Gabirio); la preposizione in apertura di volume di queste poesie segue la volontà di Madonna che le considerava un introibo. Le poesie raccolte sotto il titolo Biografia immaginaria sono invece, anche stilisticamente, un nucleo a sé, segnano un momento di passaggio e di transizione tra le poesie in «neolingua» del 1992 e le posteriori.
La crisi di Stige (1992)
Alcune brevi considerazioni su Stige (1992), l’opera che rivelò il talento di questa straordinaria poetessa. Il libro appare estraneo al clima culturale dei primi anni Novanta, si presenta come un susseguirsi di fotogrammi in una lingua inventata («inventata et invetriata»). C'è un personaggio femminile che parla un idioma inventato che oscilla tra il sacro e l'osceno recluso «nel monasterio» di un lontanissimo medioevo che parla un latino ingobbito; sembra quasi di intravvedere il futuro nuovo volgare, sembra un presente che si volge al futuro ed invece è il futuro che si volge al passato. La reclusa parla come in trance parole anfibologiche e sordide: un esilissimo filo comunicativo che si può spezzare da un momento all’altro, e che invece resiste contro ogni aspettativa. C'è un codice segreto in questi scorbutici frasari in tardo latino di Madonna: la disperata vitalità linguistica di una condizione umana in un reclusorio: sembra di trovarsi davanti a un messaggio di geroglifici egizi indirizzato a dei marziani che rammenta squarci di altre vite vissute in epoche precedenti, che parla in una «neolingua», un misto di tardo latino e di italiano antichizzato, lacerti temporali e immaginifici di un altro tempo, di una anti vita e di un anti mondo, sequenze disconnesse in geroglifici linguistici dal poderoso passo del latino medievale riadattato, come una incudine semantica, alla modernissima iconologia della comunicazione per immagini. Stige va collocato sì in un concetto di poesia finzionale ma nel filone di irrealismo onirico a cui appartiene la stessa Amelia Rosselli e un poeta contemporaneo di Madonna: Giuseppe Pedota (con Equazione dell’infinito, 1996). La tessitura della poesia di Madonna rivela la disseminazione e disconnessione del discorso in «frammenti» in una misteriosa «neolingua» che si auto compongono come tessere magnetiche di un mosaico musivamente illusorio: simboli e icone, scenografie atopiche, personificazioni («l’amante del Faraone», il tema ricorrente della meretrice reclusa in una misteriosa segreta), traslati arditissimi portati da anacoluti imperiosi e originalissimi. A sottolineare questa condizione irrelata, esplicitamente superfinzionale, fanno da sfondo le situazioni intertemporali e multitemporali dell’«io» poetico del tutto separato dall’«io» empirico: nella poesia di Madonna non è possibile rinvenire alcun «ponte» o «parallelo» tra vita biografica e trasposizione letteraria. Il dettato è immerso nel liquido di contrasto tipicamente post-moderno del «neolatino», prodotto di mescidazione del latino medievale e di un modernissimo psicologismo linguistico con l’apporto di effetti di straniamento e spaesamento: due piani paralleli che si intersecano e si giustappongono tra fabulazione in «neolingua» e finzione poetica, metafore e iperboli. Se la fotografia arresta il tempo, come nella poesia di una contemporanea di Madonna, Giorgia Stecher in Altre foto per album (1996), la finzione poetica di Stige è un genere che si muove nel tempo verso un epilogo «chiuso» dal suo stesso linguaggio poetico elitariamente ed olisticamente intonso e graffiato.
Il discorso poetico di Madonna è un itinerario nel mare dell'oggettità, nel mare dell'oggetto, dentro l'imbuto dello spazio-tempo della metafora e del simbolico. Se andiamo a indagare la struttura fraseologica e iconologica della poesia di Stige ci accorgiamo di una diversa fisiologia: che il tempo non è mai lineare ma curvo, è la curvatura dello spazio-tempo, gli immaginifici salti temporali da una età all'altra, quello che forgia le metafore e le immagini; avviene così che il centro di gravità delle composizioni non sia fisso ma si sposti di continuo da una unità frastica all’altra anche nell’ambito di una stessa composizione. La fraseologia poetica è icastica, sintetica, procede per ellissi, salti e per orbite ellittiche («dei corvi che in alto nel cielo disegnano vortici di strida») come all’interno di un imbuto che deformi la materia linguistica, come se la curvatura dello spazio-tempo determinasse la curvatura del linguaggio. È uno spazio-tempo ellittico, eccentrico, tangenziale che avvolge le immagini e le mette in pressione; e all'improvviso, la diversione rapidissima: «non ci resta che imitare la conversatione degli Angeli»:
A giudicare dal lento movimento
dei corvi che in alto nel cielo disegnano vortici
di strida
non ci resta che imitare la conversatione degli Angeli
invetrare e invetriare una lingua tutta nostra
che sia monda dagli stilemi del peccato
e dall’usura delle stelle.
E se il candido Abele è stato ucciso
il giusto Salomone e la corrotta corte
di Babilonia caddero
e il lusso di Creso disparve
quid juris?.
Aeternitas est merum hodie.
Non erubesco meae miseria
plango non esse quod fuerim.
La «svolta linguistica» di Stige punta ad un’ontologia post-metafisica dello spaesante in aperta rottura con le declinazioni della tematica dello «psicologismo» nelle versioni del post-minimalismo che praticava interpolazioni di testi, ibridazioni di idioletti, contaminazioni tra dialetti e l'italiano, culto del «corpo», liturgia del «privato», culto del «quotidiano»; Madonna abbandona queste pratiche, vira ad una de-angolazione prospettica, ad una dimensione esperienziale tridimensionale e multitemporale, una dimensione «eccentrica» della temporalità vista non più in antitesi alla dimensione spaziale. La dimensione metaforica e iconica è tutta dentro la cubatura spaziale: è una dimensione non più statica ma cinetica quella che sta al centro della composizione poetica. Se nella poesia che va dal 1985 al 1992 la metafora prevalente è quella che scaturisce dalla dimensione temporale e dall’iperbole, negli anni successivi, e in particolare in quelli che precedono la morte della poetessa, si può notare la prevalenza di immagini e metafore legate alla spazialità, all’hic et nunc e all’altrove: si accavallano lo spaesamento delle dimensioni temporali e spaziali e le immagini cinetiche in movimento reciproco. Il «reale», quel reale cui anelava lo «sperimentalismo privato» del tardo Novecento, nella poesia di Madonna assume la formalizzazione in immagini che si estendono, in lungo e in largo, nello spazio-tempo, bucano il tempo, le età e le differenti civiltà. Il «concreto» è l’immagine che occupa uno spazio seriale, virtuale, illusorio; vengono infranti i confini imposti da una percezione standardizzata:
Finché l’argento non sarà più di argento
e l’oro non sarà più di oro e la notte
non sarà più notturna e la luce più bianca,
come potrà il mio volto di medusa…
…………………………………….
Qui c’è una scissura e una lacerazione:
ha luogo tra la mia fronte
tra gli occhi e il naso prominente…
Abito una lacuna di un tabernacolo
nel quattordicesimo anno del regno di Teodosio
come una mummia avvolta in sacchi lussuosi.
*
Principessa regina o baiadera
non conosco la lingua con cui parlo.
Sono nata ad Alessandria d’Egitto
il giardino dell’Impero,
sulla lettiga ho attraversato il giallo deserto
fino a Ctesifonte dagli alti alberi di datteri…
ma ero più vera nella mia città natale
nella cripta del Faraone, quando
leggevo la Bibbia e la Cabbala.
Sposa peccaminosa e velata.
La storia della lingua poetica di Madonna è inscritta nell’evoluzione delle sue sculture viaggianti, delle sue metafore in movimento. In Stige non è in causa un «soggetto» trascendentale ma una «frattura» che espone il «soggetto» a una disseminazione di tracce linguistiche, iconiche e metaforiche. La «neolingua» di Stige pone il «soggetto» in questione, lo sposta, lo mette tra parentesi, lo mette in scena, lo drammatizza, lo problematizza attraverso il suo particolarissimo logos effrattivo. Di qui la necessità di abbandonare, dopo Stige (1992), quella «neolingua» che rischierebbe, alla distanza, di isterilire il discorso poetico in una, seppur brillantissima, forma di retorizzazione; di qui la de-stilizzazione del linguaggio poetico che d’ora in poi si appoggerà alle strutture regolative del logos; il linguaggio poetico parlerà (attraverso l’impiego calibratissimo della sintassi e delle immagini) tramite la «reificazione» (una sorta di lingua in stato di rigor mortis) delle proprie esperienze spirituali in quanto miglior modo per parlare del «soggetto» traslato. L’idea guida costante anche nelle poesie che seguiranno alla crisi di Stige, è la certezza dell’impossibilità di un linguaggio referenziale che ponga gli «oggetti» là dove la percezione standardizzata li vede: la contezza che il locutore ha cessato di essere il fondatore e il fonatore, che il processo della significazione non è separabile da quello della reificazione dei linguaggi e si costruisce sopra le fondamenta della metafora e della retorizzazione del «soggetto», il quale si scopre (si rivela) quale luogo retorico del linguaggio, chiusura del linguaggio, impossibilità di porre il domandare se non attraverso l’interrogazione delle metafore, dei traslati, in una parola, del linguaggio. Ma anche nelle poesie del dopo Stige vige una interrogazione le cui leggi finiranno con l’autonomizzarsi in immagini e in catene di immagini che si sostengono le une sulle altre in un ordine architetturale claustrale, in una «lingua morta», è stato detto. Ma è appunto la strategia con cui Madonna risponde alla crisi della poesia del tardo Novecento. Volta le spalle al Novecento, prende congedo dalla poesia del disincanto e dello scetticismo del dopo Satura (1971) di Montale che ha contaminato la poesia italiana, sceglie di andare per la strada maestra tracciata dalla poesia modernista europea, abbandona il Modello proposizionale della Ragione poetica del tardo Novecento, opta per una poesia dell’Interrogazione, una Ragione poetica fondata sul traslato, sulla retorizzazione del «parlato» e del «quotidiano» nel «quadrato» del discorso metaforico. È il suo personale contributo per mettere il discorso poetico in condizioni di assorbire dalla prosa ciò che conviene alla forma-poesia e non altro.
Ho infine trascritto alcune notazioni critiche sulle poesie inedite di Madonna apparse nel 2013 sul blog moltinpoesia.wordpress.com, poiché nel dialogo con gli interlocutori del blog ritengo di aver esplicitato, in modo colloquiale, le caratteristiche stilistiche della poesia di Madonna post Stige; ho infine inserito, per completezza di documentazione, in calce, la mia prefazione e la nota introduttiva di Amelia Rosselli a Stige (1992) .
Sullo sfondo della crisi del tardo Novecento
Pessoa all’inizio del Novecento scriveva che la sua opera era un insieme di frammenti e che la tradizione «è una nota a margine di un testo completamente cancellato». Passato quasi un secolo da quelle parole noi oggi sappiamo di poter scrivere soltanto frammenti. Madonna parte da lì. Dopo la composizione di Stige cambia completamente registro, passa dal «frammento» alla ricomposizione dei «frammenti dispersi», dalla «neolingua» alla «Lingua media» della «commedia». Le poesie si solidificano in corpi più estesi e concretati. Va in contro tendenza: nell’epoca del declino delle «Grandi narrazioni» in cui è avvenuta la moltiplicazione delle «piccole narrazioni» in una miriade di racconti miniaturizzati, Madonna si occupa delle poesie della ricostruzione storica delle personalità femminili del lontanissimo passato: ecco le sue sculture viaggianti, scopre la terza dimensione entro la quale far rivivere le sue sculture: le poesie su Ipazia, Teodora, Penelope, sull’arrivo dei barbari. Il passato è diventato il futuro. Era già accaduto negli anni Ottanta del Novecento: la «Grande narrazione» si era risolta in una «Piccola narrazione», nella fabulazione di piccoli mondi: dell’affettività privata, della rammemorazione del vissuto e della rivivibilità del «privato» nel presente «attualizzato».
La modalità, il modus che nella poesia del pre-moderno aveva a che fare con il «soggetto trascendentale» è stata sostituita dalla pluralità dei soggetti empirici e dall’egoità dell’io posto nell’attualità. Se ancora in Hölderlin e in Leopardi soggetto trascendentale e soggetto empirico coincidevano, noi oggi possiamo prendere atto con evidenza assoluta che il «soggetto puro», in altri termini, il «soggetto trascendentale» che aveva ancora «coscienza di sé», ha compiuto oggimai la sua traiettoria concettuale ed ha esaurito le sue potenzialità «narrative», lasciando il pensiero estetico alle prese con i problemi derivanti dall’eclisse del «soggetto».
Ormai non vi sono più che soggetti empirici: sul piano dell’etica questo significa il conflitto delle volontà (Nietzsche) e l’ideologizzazione della morale; sul piano dell’estetico ciò comporta che non vi è nient’altro che uomini empirici, l’uomo come soggetto scompare per diventare soggetto di scienza, soggetto del politico, soggetto della sfera artistica, soggetto del religioso, soggetto della divisione dei poteri e del lavoro all’interno dello Stato democratico. In una parola: soggetto della democrazia: di qui una democratizzazione imbonitoria del discorso poetico, un pendio declinante sempre più ripido. Presto però si è venuto a scoprire che il soggetto democratico che scriveva poesie o che colorava le tele o che scriveva i romanzi del nostro tempo altri non era che un complemento ideologizzato del «globale», un soggetto monocratico e monologico, che il «locale» altri non era che il riflesso (feticizzato) del «globale». Così, nell’agone democratico, al conflitto degli impulsi mimetici della sfera artistica corrisponderebbe l’ideologizzazione dell’estetico: di qui la necessità in Madonna di operare su una «lingua morta».
Il trionfo del soggetto empirico ha il suo portato e il suo sostrato nel fenomeno della de-fondamentalizzazione del soggetto (la sua morte trascendentale) e nella disartizzazione dell’arte; cioè, l’esistenza non ha più il suo luogo «trascendentale» ma in compenso ha i suoi soggetti empirici con i loro luoghi empirici e perimetrabili moltiplicabili all’infinito. Di qui una certa patina di esistenzialismo e di quotidianismo che si avverte nella narrativa e nella poesia contemporanee. La poesia obbedisce supinamente a tale quadro di sproblematizzazione del «reale». Tutto l’odierno post-minimalismo magrelliano ha qui la sua origine e il suo marchio di fabbrica.
C’è da chiedersi (Madonna rivela acuta consapevolezza di questa problematica) come la poesia contemporanea possa replicare a tale contesto di sproblematizzazione del «reale»; c’è da chiedersi con che specie di «reale» la poesia contemporanea pensa di avere a che fare. Mettere in campo un «riduttore» del poetico è il riflesso di quelle enormi forze motrici che fanno da moltiplicatore dell’estetico tramite la diffusione dell’estetico dall’architettura e dal design alle pareti dell’anima (se così possiamo dire), nel privato e nella privacy demoltiplicata e manifesta alla piena luce dei neon alogeni.
Direi che con la de-moltiplicazione del «soggetto» siamo giunti a ridosso del «nuovo» soggetto empirico, della ottimizzazione delle risorse umane nelle moderne economie a capitalizzazione del lavoro salariato e del post-minimalismo dei soggetti empirici e perimetrabili.
Nella stragrande maggioranza dei romanzi e delle poesie contemporanee (anche di autori ritenuti di rilievo) appare evidente che i risultati di una tale de-moltiplicazione non potevano essere diversi: il trionfo del post-minimalismo e della micrologia. Ma se il minimalismo (venato di un candido aproblematico e aproteico autologismo) è il portato di un potente vento di sproblematizzazione, ciò non toglie che vi sia anche chi, come Maria Rosaria Madonna, operi all’incontrario, per la via di una problematizzazione di ciò che la cultura della giustificazione aveva derubricato come irrilevante. Intensifica e problematizza laddove altri sproblematizza e alleggerisce. Anche la sintassi assume una encomiabile elasticità, segue la declinazione dei toni e delle intenzioni significanti volte a fronteggiare, anche stilisticamente, una maggiore complessificazione delle tematiche e delle tematizzazioni.
Avviene così che nel mondo della democrazia del globale mediatizzato corrisponda la democrazia del minimalismo e dei soggetti empirici. L’autologia è l’involucro del soggetto empirico, il genere oggi prevalente nella narrativa e nella poesia, dove l’io si autocelebra sull’altare del «privato» modellizzato in una galleria di situazioni e di maschere, in una liturgia con un linguaggio liturgico. Ma ecco le sculture in movimento delle poesie di apertura del libro:
Sono arrivati i barbari
«Sono arrivati i barbari, Console! - dice un messaggero
che è giunto da luoghi lontani - sono già
alle porte della città!».
«Sono arrivati i barbari!», gridano i cittadini nell’agorà.
«Sono arrivati, hanno lunghe barbe e spade acuminate
e sono moltitudini», dicono preoccupati i cittadini nel Foro.
«Nessuno li potrà fermare, né il timore degli dèi
né l’orgoglio del dio dei cristiani, che del resto
essi sconoscono…».
E che farà adesso il Console che i barbari
sono alle porte? Che farà il gran sacerdote di Osiride?
Che faranno i senatori che discutono nel senato
con il mantello bianco e le dande di porpora?
Che cosa chiedono i cittadini di Costantinopoli
al Console? Chiedono salvezza?
Lo imploreranno di stipulare patti con i barbari?
«Quanto oro c’è nelle casse?»
chiede il Console al funzionario dell’erario
«e qual è la richiesta dei barbari?».
«Quanto grano c’è nelle giare?»
chiede il Console al funzionario annonario
«e qual è la richiesta dei barbari?».
«Ma i barbari non avanzano richieste, non formulano pretese»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«E che cosa vogliono da noi questi barbari?»,
chiedono i senatori al Console.
«Chiedono che si aprano le porte della città
senza opporre resistenza»
risponde il Console avvolto nella sua toga scarlatta.
«Davvero, tutto qui? – si chiedono stupiti i senatori –
e non ci sarà spargimento di sangue? Rispetteranno le nostre leggi?
Che vengano allora questi barbari, che vengano…
Forse è questa la soluzione che attendevamo.
Forse è questa».
Parlano la nostra stessa lingua?
Si sono riuniti in camera di Consiglio il Console
con i Tribuni della plebe
e i Legati del Senato… c’è un via vai di toghe
scarlatte, di faccendieri
e di bianche tuniche di lino dalle dande dorate
per le vie dell’Acropoli…
dicono certuni che hanno riaperto il tempio di Giano,
che il tempio di Vesta sia stato distrutto da un incendio
alimentato dalle candide vestali,
che gli aruspici abbiano vaticinato infausti presagi
che il volo degli uccelli è volubile e un’aquila
è caduta sul Pantheon
che i corvi gracchiano sul frontone dell’anfiteatro Flavio…
corrono voci discordi su bighe veloci trainate da bizzosi cavalli
che Petronio sia stato esiliato e Marziale condannato
a risarcire il danno cagionato ad illustri cittadini
dai suoi versi osceni.
Caro Kavafis… ma tu li hai visti in faccia i barbari?
Che aspetto hanno? Hanno lunghe barbe?
Parlano una lingua incomprensibile?
E adesso che siamo qui chiediamoci:
che cosa farà il Console?
Quale editto emanerà il Senato dall’alto lignaggio?
Ci chiederanno di onorare i nuovi barbari?
O reclameranno l’uso della forza? Dovremo
adottare una nuova lingua per le nostre sentenze e gli editti
imperiali? E che dice l’Imperatore?
Ci ordina la resa o chiama a raccolta gli ultimi
armati a presidio delle nostre mura?
Ma hanno ancora senso le nostre domande?
Ha ancora senso discettare sul da farsi?
C’è, qui e adesso, qualcosa di simile a un futuro?
C’è ancora la speranza di un futuro per i nostri figli?
E le sorti magnifiche e progressive?
Che ne è delle sorti magnifiche e progressive?
Sono ancora riuniti in Camera di Consiglio
gli Ottimati e discutono, discutono…
ma su che cosa discutono? Su quale ordine del giorno?
Ah, che sono arrivati i barbari?
Che bussano alla grande porta di ferro della nostra città?
Ah, tu dici che non sono dissimili da noi?
Non hanno barba alcuna?
Che parlano la nostra stessa lingua?
Le poesie «Sono arrivati i barbari» e «Parlano la nostra stessa lingua?», sono una macro metafora e una allegoria. A tema. Il tema è che i barbari sono già qui, sono fuori delle porte della città e bussano. Essi non pongono condizioni, chiedono soltanto che si aprano loro le porte della città. Mentre i senatori discutono i barbari non pongono condizioni. Perché? Perché essi hanno già vinto. I senatori e gli abitanti di Roma-Costantinopoli non lo sanno ma essi sono gli sconfitti, non possono fare altro che spalancare pacificamente le porte della città all'invasore. I barbari hanno già vinto, e vogliono soltanto risparmiare un altro inutile spargimento di sangue. Ma i senatori e i cittadini che discutono nell'aula del senato e nell'agorà non lo hanno ancora capito. È la metafora del nostro tempo. I barbari hanno già vinto, ed è inutile resistere. Ma chi sono per Madonna i barbari? È la nuova civiltà mediatica che ha già imposto le proprie condizioni: la resa definitiva e senza condizioni dei cittadini di Roma-Costantinopoli.
Forse è questa la soluzione, si chiede il console: sono essi i barbari la soluzione. Forse è questa la soluzione. Così si chiude la poesia, con una sobria e spoglia ammissione da parte del console che «Forse è questa la soluzione». In un linguaggio protocollare tombale relittuale Madonna vuole comunicarci la notizia che è stata trovata la soluzione e che occorre accettarla senza ambasce né resistenze. Occorre prendere atto dei nuovi rapporti di forza. Di qui (ma la poesia non lo dice) nascerà una nuova forma di civiltà. Chi parla è un sopravvissuto? Ma la poesia non ci dice nulla neanche su questo punto.
La poesia «Gli angeli sono come...», strutturata sempre in un'unica strofa, propone un'antitesi tra le due entità «sovrannaturali», paragonate rispettivamente: gli angeli ad uccellini che, spaventati da un batter di mani (presenza umana?), volano via, mentre i demoni, immobili, esprimono il loro dolore singhiozzando. Gli angeli che volano via simboleggiano il movimento verticale, la fuga dalla realtà, i demoni invece sono costretti a star fermi «per sempre»; questo avverbio finale sottolinea proprio la drammatica consapevolezza della condanna eterna a rimanere legati ad una realtà che soffoca ed opprime la libertà individuale. La poesia può essere letta in tal modo: una fuga dalla clausura della realtà (il volare degli angeli) come espressione di libertà (anelito all'infinito) contro la disperata consapevolezza della debolezza ed incertezza umana; l'accorata disperazione singhiozzata dei demoni indica qui un capovolgimento dei ruoli: sono i demoni i messaggeri della felicità, non gli angeli.
Gli angeli e i demoni: la luce contro le tenebre, lo splendore contro il buio, la vita contro la morte, il bene contro il male. Da notare ancora il leitmotiv dei demoni-angeli, eterna dicotomia della civilizzazione occidentale. Già nella civiltà greca Platone sosteneva: «che c'è dentro di noi uno spirito divino e uno demoniaco». Il «favellare», il «balbo balbutire» indicano la stigmatizzazione della «lingua dei famuli»: i discorsi di servizio, i linguaggi posticci della letteratura imbonitoria:
Tutto questo favellare, tutto questo balbo
balbutire, mi è ostico - lo capisci?
La lingua dei famuli - lo capisci?
La detesto.
*
C’è chi dice che il mondo
sarà salvato dai ragazzini
c’è chi dice che sarà salvato dai santi
c’è chi dice che il mondo sarà
salvato da una poesia…
Io invece penso che il mondo non sarà
salvato affatto.
Non ci sarà nessuno a salvare il mondo.
E questa sarà la sua salvezza.
Nella prima delle due poesie qui citate c'è tutta la poetica di Madonna: il rifiuto di tutto «il balbo balbutire» della poesia dei giorni nostri. Da notare la raffinatissima proposizione utilizzata dall'autrice per bollare d'infamia il volgare del volgo letterario. C'è qui una presa di posizione che va dritta contro i linguaggi del ceto poetico, il loro parlarsi addosso e intorno non verso la «cosa» ma verso il proprio ombelico. E qui c'è una precisa petizione di poetica: il linguaggio poetico si eventualizza soltanto a chi rifiuta i linguaggi maggioritari, i linguaggi utilizzati per una posizione di visibilità. Il linguaggio poetico di Madonna eccelle per la sua assoluta alterità, non vuole sedurre, non vuole suonare il piffero delle proprie credenziali, non si pone nelle condizioni di sedurre il lettore con la propria veste rabescata; è un linguaggio impermeabile alla ricezione del ceto letterario, è un linguaggio «morto». Ma è proprio questo, paradossalmente, l'obiettivo di Madonna!, porre il proprio linguaggio poetico come un vetro di Murano dentro una teca di fragilissimo cristallo, e durare per dimenticanza. È un linguaggio poetico privo di interlocutore, che non vuole interloquire con «il balbo balbutire» dei «servi», degli «iloti». La salvezza del mondo, e quindi della poesia, per Madonna, risiede nel fatto che «non ci sarà nessuno a salvare il mondo. E questa sarà la sua salvezza». Parole chiare e inequivoche. La poesia di Madonna è in rapporto di estraneità con il «mondo», senza mezzi termini né condizioni; è refrattaria al Progresso e/o il Regresso. E questo è il suo miglior biglietto da visita.
Cito l'obiezione di un interlocutore del blog: «Mi è parso di cogliere subito da questi primi versi una vischiosità, una falsa eternità nel linguaggio poetico appartato che Maria Rosaria Madonna ha adottato, e che lo fa somigliare - vedi un po’ questo dove ti arriva! - a un linguaggio bloccato, quasi come quello dell’aritmetica: lì 2+2 fa per forza quattro; e così, qui, un nome si tira dietro un certo aggettivo o viceversa, perché si muove in un sistema (linguistico) consolidato, tradizionale, ben noto. Come se Madonna maneggiasse una “lingua morta”, appunto, che dispone di un lessico accertato e ormai, per forza di cosa, chiuso e “specialistico”. In questi versi abbonda una terminologia da libro d’arte di un’epoca circoscritta e comunque senza più scosse, immutabile. Si vedano le parole: ‘acquaforte’, ‘incastonate’, ‘nitore’, ‘arabeschi’, ‘intarsi’, feldspato’, ‘agorà’, ‘dande’, ‘disuso’, ‘periplo’, ‘corbellerie’, ‘balbo’, ‘balbutire’, ‘ostico’, ‘famuli’. Esse vengono usate con la determinazione e la consapevolezza di chi vuole proprio avere a che fare soltanto o prevalentemente con “parole morte”».
Il punto è presto detto: ritengo che la genialità della poesia di Madonna risieda proprio qui, nel fatto che l'italiano utilizzato è impiegato come una «lingua morta». È questo l'aspetto, a mio parere, più felice della poesia di Madonna, e, indirettamente, lo ha indicato l'interlocutore quando parla di «sistema linguistico consolidato», e quindi solidificatosi nell'uso di una comunità nazionale da tempo tramontata. Il sistema linguistico con cui ha a che fare un poeta è sempre «consolidato», la tradizione funziona come un congegno linguistico e stilistico consolidato, come un magazzino di soluzioni linguistiche e retoriche che la poesia deve ravvivare per renderle nuovamente comunicabili. E qui Madonna opera con il minimo dispendio di energia per ottenere il massimo risultato stilistico e metaforico: utilizza proprio quei frasari «consolidati» facendoli apparire come morti.
Madonna lavora su una «lingua morta», con altre mie parole «relittuale funeraria»; ed è questo un punto centrale della sua poesia e della sua poetica. Ancora una obiezione dell'interlocutore del blog: «linguaggio poetico pur così distante da quello pratico quotidiano»; al che replico che quel linguaggio poetico che va da Sereni a Giudici, nella poesia di Madonna viene rimosso; quei linguaggi si erano illusi di utilizzare la lingua viva del quotidiano e della cronaca allo scopo di fare una poesia viva e significativa. Alla lunga, dopo tutti questi decenni, gli spiriti più acuti si sono accorti che quella poesia che faceva uso di una «lingua viva» è adesso percepita come «lingua morta» ma non quella morta dei classici ma quella morta dei minori. La lingua di Madonna è invece viva perché fondata sul concetto di metessi (dal greco metaxy, essere-tra la lingua e la trascendenza) che si istituisce tra il linguaggio poetico e il «reale», vive nello strato sottilissimo di una epidermide, l'epidermide di un cadavere che ha ancora la pelle tiepida quasi che, al di sotto, ancora vi scorra il sangue un tempo caldo. Insomma, voglio dire e ripetere che quella estrema fragilità del linguaggio poetico e metaforico di Madonna è il suo più grande merito, quel richiamarsi alla «città lituana» simile a «un merletto di vetro di Murano», richiama l'immagine dell'estrema fragilità della poesia (come dell'esistenza), un sintagma di straordinaria levigatezza e leggerezza metaforica. È una immagine talmente leggera!, che sembra che tutto debba crollare da un momento all'altro... e, invece, resta l'impalcatura fragilissima delle immagini che resistono al tempo delle alluvioni e della stagnazione spirituale del tardo Novecento.
Riporto un'altra obiezione dei un interlocutore: «quando la poetessa, invece di dirmi che il mare è agitato (cosa che subito mi rievoca qualcosa di vivo nella mia memoria "meridionale"), mi dice che "il mare è un aquilone che un bambino / tiene per una cordicella", intendo sostenere che Madonna utilizza parassitariamente la tradizione»; a me invece l'immagine sembra di una leggerezza e di una fragilità seducente proprio in virtù della sua estraneità al demanio del surrealismo entro il quale invece l'interlocutore del blog sembrerebbe incasellarla. Il problema affrontato e risolto da Madonna è dunque usare una «lingua morta» come se fosse una cosa viva e ignorare «la lingua dei vivi» proprio perché essa è morta, e morta per sempre, uccisa dalla telecomunicazione mediatica che maciulla e trebbia la lingua di color che furono vivi e che ora non lo sono più. Insomma, non mi meraviglia affatto che la lingua poetica di Madonna sollevi tante e tali questioni e incomprensioni e difficoltà di ricezione, ma qui il fatto è che entrare nei delicatissimi congegni metaforici e simbolici della poesia di Madonna significa mettere tra parentesi tutta la iconologia del quotidiano dei quotidianisti e degli sperimentalisti che hanno affollato la poesia italiana degli ultimi decenni.
E poi c'è una considerazione importante da fare, che ha conseguenze politiche, cioè che attengono alla polis: che l'adozione di una «lingua morta» da parte della poetessa palermitana significa che lei considera quella «lingua morta» più viva della lingua dei morti viventi che abitano la società del villaggio letterario che crede di parlare una lingua di vivi quando invece utilizza una lingua di morti, non più significante. E questo, davvero, lo considero un aspetto rivoluzionario del linguaggio poetico di Madonna. Poetare in una «lingua morta» è ovviamente una procedura straordinariamente complicata, sottile, sfuggente. La lingua che Madonna impiega non è «morta» alla maniera del Pascoli, «lingua morta» è qui, come dire, una forma-interna, una lingua messa in frigorifero dalla stagnazione delle forme simboliche operata dal minimalismo e dal post-sperimentalismo. È ovvio che Madonna ripescando una «lingua morta» compie una operazione di portata copernicana, mette fuori gioco la balbuzie, il «balbutire» dei suoi contemporanei, il «favellare» dei «famuli» che suonano il piffero dei linguaggi liturgici. Anche la glaciale compostezza del verso e delle strofe della poesia di Madonna è un segnale del rigor mortis che inerisce a quella lingua «morta». La poesia di chiusura della raccolta è un altissimo encomio della funzione della poesia che può salvare la vita degli uomini:
Tu mi chiedi ancora una volta
di tornare al nostro problema principe:
«quale sia l’origine del male».
«Ebbene, ed io ti rispondo che se
al male aggiungiamo altro male e al bene
aggiungiamo altro bene, non per questo
avremo più o meno male o più o meno bene, ma ciò
non deve farci recedere di un millimetro
dal nostro proposito».
Sì, mio caro lettore, dobbiamo
amare le stelle e andare a passeggio
con Dante e i personaggi del suo Inferno
piuttosto che tra i beati del Paradiso.
Sì, mio stimato lettore, il male esiste e resiste
a tutte le intemperie…
Ed ora un aneddoto. Sai come si salvò
un tenente italiano fatto prigioniero dai tedeschi?
All’ufficiale della Wermacht che lo interrogava
rispose recitando il primo canto della Commedia…
parlava senza fermarsi della selva oscura
che nel pensiero rinnova la paura
e delle tre fiere che gli sbarravano il passo…
E così si salvò dalla deportazione in un lager.
Dunque, è vero, stimato amico lettore
che la poesia salva la vita e riscatta il mondo
e sono nel falso e nella menzogna
coloro che dicono altro. Tienilo a mente,
o lettore, tu che sei saggio e sai
distinguere la verità dalla menzogna.
E così sia.
Non si tratta di una ingenua rivendicazione per la Poesia di un ruolo catartico o salvifico, qui si dice semplicemente che la poesia può, anche in circostanze avverse, riscattare dalla morte la vita degli uomini. E mi sembra che si tratti di una rivendicazione di altissimo profilo.
I lettori del blog mi hanno chiesto di spiegare meglio in che senso parlo di una «lingua morta» per la poesia di Maria Rosaria Madonna e perché mai la poetessa palermitana abbia scelto di impiegare una «lingua morta» quando invece era disponibile, e gratis, una «lingua dei vivi»? E perché mai una «lingua morta» debba essere superiore a una «lingua viva»? E se c'è una gerarchia tra le due cose. È un discorso complesso, forse il più complesso, che richiederebbe un commento verso per verso e immagine per immagine delle poesie di Madonna. Cercherò comunque di rispondere ai quesiti senza ricorrere a lunghe e oziose perifrasi critiche; chiedo solo ai lettori di rileggere le poesie che seguono lentamente, con la lentezza che quelle poesie richiedono. Ciò che dico nel prosieguo può forse aiutare il lettore ad entrare nella giusta sintonia di lettura. Da Inediti (1995–2002):
Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.
Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.
*
È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.
*
Con rumore di carrucola venne giù il temporale.
Città lituana, nitida e trasparente come un merletto di Murano.
«Ricordi?»; «sì, la ricordo come un altoparlante
che abbia inghiottito la voce… non più
di un secolo di luce fa. Forse più, forse meno…».
Per Madonna poetare equivale a gettare un ponte tra gli uomini, sull’abisso tra il passato e il presente. Una sottile e intricata trama di simboli è il passato che parla attraverso una rete di immagini. È il modo di parlare del passato al presente, è il solo modo che può unire, mediante un ponte lastricato di immagini, lo «spettrale» spartito del passato al «vuoto» presente. Il luogo di questo eventualizzarsi è il colloquio dove colui che parla rimane pur sempre attaccato all’inferriata del presente. Il fatto è che nella poesia di Madonna la questione passato-presente non è affatto una questione pacificamente risolta che si possa mettere tra parentesi ma un problema aperto che attende una soluzione poetica. E qual è la soluzione che la poesia può mettere in campo? In primo luogo, l'ordine proposizionale dei versi risponde, come detto, alla cubatura spazio-temporale; Madonna sa che soltanto chi ascolta è la inafferrata fonte del senso. Il silenzio di chi ascolta conduce (tende) al limite estremo del linguaggio. Il linguaggio poetico viene teso come un arco fino all’estremo, al diapason delle sue possibilità «interne» affinché possa scoccare la freccia del senso. Ed il senso è sempre uno: il ricongiungimento tra il «morto» passato e il «vuoto» presente: c’è un ponte (interrotto) che unisce il «morto» del passato al «vuoto» del presente.
Ed ora passiamo alla questione del «tacere» delle immagini delle poesie di Madonna: il tacere è il limite interno del colloquio, così come il silenzio ne è il limite esterno. A rigore, nella poesia di Madonna, non si dà colloquio senza il duplice risvolto interno del «tacere» e quello esterno del «silenzio». L’«immagine» è la soluzione metaforica al problema del senso «interno» del linguaggio poetico.
Se si rileggono le prime tre composizioni sopra riportate si percepirà la cadenza delle parole che si librano sul «vuoto»; è il vuoto che abita il «silenzio» delle parole. Il «tacere» delle parole di queste poesie non è un tacere che si dà per decreto ma è un «tacere» che nasce dalla intercapedine delle immagini. In un certo senso, le immagini di queste poesie «denudano» il «silenzio», lo rendono trasparente. Ma qui ovviamente è necessario far ricorso a tutto l’addestramento del lettore alla lettura di poesie di tal genere, un addestramento che richiede tempi lunghi e letture lente.
In queste poesie il «morto» è il campo di macerie del passato che il presente continuamente ricrea mediante la sua produzione di merci della comunicazione; è la feticizzazione della merce che ha invaso, come un tessuto tumorale, il linguistico della lingua della comunicazione. Questa problematica, questa sensibilità è talmente presente nella poesia di Madonna come forse in nessun altro poeta del tardo Novecento. Ma non è affatto semplice scoprire ciò all’atto della lettura veloce. Io ripeto sempre che la poesia non si dà per decreto o per imposizione ma richiede una educazione estetica che spesso il lettore non ha.
Quando Madonna scrive: «il mare è un aquilone che un bambino/ tiene per una cordicella» ha poca importanza se la matrice di questa immagine sia la cultura del surrealismo, l’aspetto rilevante è, a mio avviso, la leggerezza dell’immagine nella quale il gesto del bambino che tiene il filo dell’aquilone introduce un moto verticale (verso l’aquilone), e l’aquilone diventa «il mare». C’è una trama di sottilissime lamelle di immagini che si legano le une alle altre, così sottili e leggere che formano una parete di fragilissimo cristallo. Questa è la poesia. La poesia è tutta qui. La poesia parla attraverso la fragilità delle sue immagini cristallizzate. L’orma mnestica della fragilità del cristallo si ripercuote e si riverbera nell’atto sensorio della fragilità del silenzio, e quindi dell’ascolto da parte del lettore. La estrema fragilità di una rete di immagini che vuole sottrarsi alla utenza feticizzata della Lingua di relazione. È questo il modo con cui la poesia di Madonna si oppone al feticismo della merce. Si oppone richiamando il «tacere» all’interno del suo sistema di immagini. È una modalità di difesa dal feticismo della merce che colpisce anche le immagini, le eidola.
Il linguaggio poetico è un sistema di relazioni linguistiche che è in rapporto dialettico e conflittuale rispetto ad altri sistemi di relazioni. Che cosa voglio dire? Voglio dire che il linguaggio poetico di Maria Rosaria Madonna è un sistema relazionale in rapporto di estraneità con i sistemi relazionali adottati da altra poesia. Madonna mette in opera un linguaggio cristallizzato (morto) per mettere in risalto ciò che non è morto di quel linguaggio morto, opera una resurrezione di un linguaggio morto. Ma qui il distinguo è più sottile: in questo modo mette fuori gioco i linguaggi maggioritari del post-sperimentalismo e della poesia del quotidiano mostrando, indirettamente, come quel linguaggio stereotipato sia, quello sì, un linguaggio morto! Madonna rivitalizza gli «oggetti» che entrano nel suo linguaggio poetico. La poesia di Madonna la si può apprezzare soltanto se si coglie questo distinguo sottilissimo: è un linguaggio relazionale perché non si riferisce ad altro che non sia il mondo degli «oggetti» contenuti nel proprio linguaggio poetico.
Del resto, non si può valutare un linguaggio poetico da ciò che è esterno ad esso, la valutazione deve iniziare e finire entro il contesto storico, stilistico e filosofico di quel linguaggio poetico. La straordinaria espressività di questo linguaggio poetico lo si può cogliere proprio nei suoi nessi relazionali che ci dicono il «noto» per svelarci ciò che «non è noto»; la «restaurazione» di Madonna, che alcuni interlocutori rimproverano alla sua poesia è, invece, a mio avviso, una vera restaurazione propulsiva! A parte il fatto che il «merlo» posato sul frontone di un tempio pagano potrebbe anche non «gracchiare», potrebbe singhiozzare, sibilare, ugolare, strillare, mormorare etc., non vedo affatto nulla di così scontato nell'uso che Madonna fa del verbo «gracchiare», e poi il fatto che sia un merlo e non un corvo che «gracchia», come hai ben notato un interlocutore, ci dice molto di più, ci dice che quel «merlo» «gracchia» perché il suo canto è Brutto, prodotto di Menzogna, e il fatto che si posi «sul frontone di un tempio pagano» ci dice che il suo canto è funesto e infausto, è il canto di vittoria di chi irride il tempio pagano, il tempio degli sconfitti. Il «merlo» che gracchia diventa così il simbolo (il correlativo oggettivo) della tradizione poetica italiana, la quale «gracchia» non sa fare altro che «gracchiare», e il suo suono sinistro e lugubre è il contrario della dizione apollinea dei versi di Maria Rosaria Madonna, la cui poesia avviene sotto il segno di Apollo, è apollinea e dionisiaca (e non cristiana!). L'accenno al mare che entra «sciabordando nel peristilio» è una immagine relazionale che ci collega a un'altra civiltà del passato che è scomparsa. Quello che più conta poi è la siderale distanza che Madonna pone tra la propria poesia e quella che si è scritta nella seconda metà del Novecento. È proprio questa distanza ed estraneità della sua poesia da quella del suo tempo che è significativa.
Se uno dei criteri per la valutazione di un'opera di poesia è il suo valore relazionale, quello della poesia di Madonna sta proprio in quell'atto di disinteresse della direzione intrapresa dalla poesia italiana del secondo Novecento. La sua massima aspirazione è l'assenza di relazioni con quella tradizione. È questo il punto nevralgico della sua poesia. Il punto altamente politico, se mi si passa il termine. E la critica ha un senso e un valore soltanto se è capace di sviscerare i punti critici di un certo tipo di linguaggio relazionale.
Prefazione di Giorgio Linguaglossa a Stige (1992)
La poetessa che qui presentiamo: Maria Rosaria Madonna, nata a Palermo il 24.11.1942, è giunta alla pubblicazione, ormai in età matura, per via di un atto d’imperio mediante il quale le abbiamo strappato un malcelato assenso. Madonna rifiuta febbrilmente la vita letteraria, in essa non vede altro che fatuità; il suo aristocraticismo è costruito, pezzo per pezzo, come un castello di carte che, se soltanto fosse esposto, il vento del mondo lo trascinerebbe alla rovina.
L’aristocraticismo è la barriera dietro la quale la poetessa ha potuto condurre in porto il processo di raffinamento ed interiorizzazione artistica del suo linguaggio fino a renderlo duttile e plastico, idoneo alla raffigurazione di una poesia eminentemente lirica che si inserisce nella tradizione alta della nostra letteratura. Il culto del mezzo espressivo altro non è che la spia di una onestà assoluta verso il mondo e di una disumana lealtà verso se stessi; colpa grave che il vero artista paga di persona con la disistima e l’aperta estraneità della generalità. Come si vedrà, la metamorfosi della vita in «autostilizzazione» è tormentosamente attraversata da ambivalenti risultati stilistici, ciò è dovuto in primo luogo ai diversi processi di «sublimazione» cui la materia viva è stata sottoposta: un inestricabile nodo di confessione, inganno, autoinganno, finzione. Se pensiamo che le poesie qui raccolte sono i rottami, i resti delle poesie che la poetessa ha coscienziosamente distrutto durante gli ultimi quindici anni, una distruzione capillare e minuziosa, non possiamo non dichiararci soddisfatti. È una poesia di ciò che resta dopo il diluvio, ed ha la leggerezza friabile del reperto archeologico. Il suo albero genealogico conta poeti come Montale, Milosz e Herbert vissuti e rivisitati attraverso la assimilazione della poesia femminile del nostro secolo: Else Lasker-Schüler, l’Achmàtova, la Cvetaeva, Amelia Rosselli.
La imagery di Madonna appare straordinariamente ricca, ma ad una analisi più attenta le immagini si presentano come scorporate, liberate dalla realtà, svincolate dal mondo, svuotate, per essere compiutamente innalzate sul piano metafisico, assolutizzate. L’immagine è sintetica e plastica, si ripete in variazioni continue come nel gioco infantile delle tessere del mosaico, ed hanno una giustificazione nell’ambito del proprio contesto semantico. Potremmo ripetere per Madonna ciò che Gottfried Benn disse per la Schüler: «Soltanto il ripetibile conduce all’arte». Anche per Madonna è la variatio la chiave di volta delle sue metafore. Rischiare la sortita verso l’abisso del truismo, correre il rischio di sfiorare la lingua della comunicazione pur di raggiungere l’approdo delle emozioni linguistiche trasferibili. La tecnica di Madonna la si può compendiare nella seguente formula: impressionismo degli elementi astratti; le poesie vengono sottoposte ad una rigorosa opera di sfrondamento di tutto ciò che è realtà empirica, ad una sottrazione di qualsivoglia realtà individuale-esistenziale; nessun particolare biografico è individuabile pur se a volte la poetessa si abbandona a delle confessioni, esse sono sempre artificiali, la luce dei suoi versi proietta un’aureola non verso l’esistenza, bensì verso l’apparenza, e l’essenza del mondo non è più tattile, al contrario, è odorosa, è il profumo dell’astrazione; leggendo queste poesie noi non ci chiediamo il perché della sofferenza, non ci importa, godiamo soltanto dei paesaggi astratti, degli accadimenti stilizzati. La materia della vita è stata interamente plasmata dal processo di stilizzazione, di distillazione. Probabilmente, l’arte, dinanzi ad un mondo privo di «senso», non conduce ad alcun luogo, non indica alcuna meta. Il pubblico al quale questa sottile lirica si riferisce è un pubblico astratto, verosimilmente inesistente, un pubblico dal quale è scomparso il bisogno di interrogarsi sugli avvenimenti della lirica, forse per un eccesso di sangue, per eccesso di realtà, per eccesso di potenza dei nostri organi ricettivi, così che non siamo più in grado di recepire le onde hertziane come i raggi ultravioletti. L’essenza di questa come della «nuova lirica» sembra essere la prevalenza del fuggevole sul durevole, dell’effimero sullo stabile. A volte si ha la sensazione che questa poesia trapassi nel silenzio, o che comunque la soglia del silenzio sia molto vicina. In breve, è una poesia che accoglie il silenzio come unica condizione di esistenza, una poesia che non tende all’autenticità, ormai dissolta nel mondo ed inutilizzabile al pari di un reperto di ingegneria del neolitico.
«Stige, ossia Acheronte» - Prefazione di Amelia Rosselli a Stige (1992)
Il latino Stix - Stygis equivale al nominativo italiano «Stige», ed è di formazione letteraria; significa il fiume dell’oltretomba nella mitologia degli antichi Greci e Romani. Oggi viene aggettivato nelle allocuzioni, per esempio:«le acque stigie», «la palude stigia» = «formato dalle acque dello Stige».
Tanto letteraria è l’espressione che infatti è rara. È più che probabile che l’autrice l’abbia ricavata invece dalla lettura di Dante (la quale ovviamente l’ha molto influenzata), nelle sue due accezioni di nominativo geografico in realtà derivanti dalla prima: e cioè: 1) nome d’una palude infernale già nella mitologia pagana; 2) nome d’una palude posta nel quinto cerchio dell’inferno (canto VII). In questa palude si trovano: a) a galla, gli iracondi «aperti» (e forse anche gli orgogliosi), b) nel fondo, gli accidiosi, quegli iracondi che covarono l’ira dentro l’anima. Dante, invece, viene traghettato al canto III da Caronte, attraversando il fiume Acheronte, che è fiume infernale nella mitologia Greca anch’esso, oltre che sotterraneo e ultraterreno. Il nome Acheronte proviene etimologicamente dal greco Acheron-ontos; nel latino mutato in Acherontis.
La signora Maria Rosaria Madonna scrisse il suo Stige tra i trentacinque e i quarant’anni; da giovane fece studi di teologia ed era medievalista quanto a letture, ed anche studiava la patristica; inoltre è informatissima di poesia antica e moderna, dà alle stampe questo libretto solo oggi che è cinquantenne, avendo per molto tempo distrutto le poesie di cui era, evidentemente, insoddisfatta. Così come il suo editore la presenta, è sì poeta eminentemente lirico, che si inserisce nella tradizione «alta» della nostra letteratura. Differisco dal prefatore quando egli parla di «sfrondamento di tutto ciò che è realtà empirica, una sottrazione di ogni realtà individuale-esistenziale», in cui «nessun particolare biografico è individuabile». Anzi, direi grosso modo che l’intero libretto si distingue per la sua originalità e compattezza per un buon tre quarti delle poesie*, ove l’inizio inventivo-linguistico in pseudolatino, è davvero originale e ispirato. Man mano che l’autrice passa dal suo ritmicissimo pseudolatino inventivo ad un italiano frammisto di latino e poi ad un italiano semplice, sembra, strano a dirsi, indebolirsi la sua ispirazione che è religiosa e pagana insieme. Non potrei dire, specie per l’ultima parte del libro, che i temi non siano amoroso-biografici; direi anzi che il libro intero, con le sue iniziali poesie di genere metafisico, abbia come tematica principale (nascostamente), quella della ribellione alla borghesia: tema che nel violento isolamento dell’autrice è ancor più aspro, e poco risolto, perché poco conscio. Se vi siano state, tre le prime quaranta e più poesie, «paesaggi astratti degli accadimenti stilizzati», «distillazione», e «confessioni pur sempre artificiali», nel passare alla lingua itala, la rinuncia anche tecnica alla formalizzazione e sublimazione è graduale, e a volte, per qualche stanchezza o altro, la poesia perde la prima forte originalità.
Da una molto autentica religiosità, da una molto musicale latinità, nascono alcuni versi e poesie intere, quale «Veniat sua jurisdictione terribilis», «Dove sono le catene» e «Egredientes latrinitatibus meo pectore», nonché «Quando ero giovane e bella», «Nel buio Tartaro, perturbationibus» e «Non adularmi per la mia misura» - che illustrano la crisi e il passaggio, infatti, agli inferni, proprio come è descritto in Dante in quel quinto cerchio detto la «palude stigia», il luogo degli iracondi, degli orgogliosi e degli accidiosi. «Si cum tuo licore nel mio core / versato, si cum tuo livore sul mio / onore posato, si cum tuo stiletto in mio / diletto infernato...»; «Bevo il calice dell’ebrezza / condito di aceto e fiele». E anche: «Accorto all’ingiuria, all’ira ratto / va il mio cuore matto di colore».
Giorgio Linguaglossa
* Madonna cancellerà, in vista dell’edizione definitiva di Stige, le poesie a pagg. 52, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60 e 61 dell’edizione del 1992.