Paul Valéry OPERE SCELTE a cura di Maria Teresa Giaveri "I Meridiani" Mondadori, 2014 pp. 1770 € 80 Presentazione di Giorgio Linguaglossa e una nota critica di André Durand - "La jeune Parque" (1917)

 

Paul Valéry (Sète, 30 ottobre 1871 - Parigi, 20 luglio 1945) è un poeta chiave per comprendere la poesia europea del Novecento; finalmente abbiamo qui riunite in un unico volume le opere poetiche del poeta francese insieme alle più importanti riflessioni sull'arte poetica e sulla Poetica. Valéry è il primo poeta europeo che crea una teoria del linguaggio e una teoria della composizione poetica, per lui il linguaggio è la fonte della metafisica come illusione intellettuale e la zona di massima dispersione e confusione intellettuale e linguistica. È caratteristico di Valéry che lui pervenga alla poesia da una teoria critica della poesia, da una via fino allora considerata impensabile. È un poeta e un teorico della poesia allo stesso tempo di straordinaria importanza.

«Tutta la mia filosofia - scrive Valéry - si riduce ad accrescere quella precisione o coscienza di sé che ha per effetto di separare nettamente le domande dalle risposte [...] Bisogna imparare a pensare che ciò che è non è necssariamente una domanda. E che non ogni domanda ha neessariamente un senso». Valéry pensa che il linguaggio sia  il luogo stesso della confusione. Di qui quella sua forsennata ricerca di una poesia che fosse applicazione di una geometria assoluta, di un rigore quasi matematico. Il superamento del linguaggio naturale in Valéry non può essere compiuto grazie a un linguaggio ideale ma grazie alla vita, che pone dei problemi reali per dei bisogni reali e grazie all'azione.

Scrive Valéry: «Si potrebbe - e forse lo si dovrebbe - assegnare come unico oggetto alla filosofia quello di porre e di precisare i problemi, senza preoccuparsi di risolverli. Si tratterebbe allora di una scienza degli enunciati, e dunque di una purificazione delle domande».  «Una riflessione semplicissima ci fa pensare che la Letteratura è e non può essere altro che una specie di estensione e di applicazione di certe proprietà del linguaggio. Essa utilizza per esempio ai propri fini le proprietà foniche e le possibilità ritmiche del parlare, che sono trascurate nel discorso comune [...] È questo il mondo delle "figure", di cui si preoccupava l'antica Retorica [...] La formazione delle figure è indivisibile da quella dello stesso linguaggio, in cui tutte le parole "astratte" sono ottenute tramite qualche dilatazione d'uso o trasferimento di significato, seguito da un oblio del senso primiero. Il poeta che moltiplica le figure non fa dunque che ritrovare in se stesso il linguaggio allo stato nascente [...] La Poetica si proporrebbe non tanto di risolvere i problemi quanto di enunciarli. Il suo insegnamento non sarebbe separato dalla ricerca stessa... dovrebbe essere trattato e mantenuto in uno spirito di massima generalità... quest'utima considerazione conduce... a un'importante distinzione: quella delle opere che sono come create dal loro pubblico (di cui rispondono all'attesa e sono perciò quasi determinate dalla sua conoscenza) e delle opere che, invece, tendono a creare il loro pubblico». (qui pp. 380-381)

«Una poesia su un foglio di carta non è che uno scritto, sottoposto a tutto quel che si può fare di uno scritto. Ma fra le sue varie possibilità, ce n'è una, e una soltanto, che pone infine quel testo nelle condizioni in cui prenderà forza e forma d'azione. Una poesia è un discorso che esige e che provoca un legame continuo fra la voce che è e la voce che viene e che deve venire. E questa voce deve essere tale da imporsi, e da stimolare lo stato emotivo di cui il testo sia l'unica espressione verbale. Togliete la voce, e la voce che occorre, e tutto diventa arbitrario. La poesia diviene una serie di segni legati l'uno all'altro solo dal fatto di essere stati materialmente tracciati uno dopo l'altro. (qui p. 394) «Anche nella testa più solida la contraddizione è la norma; la consequenzialità è l'eccezione [...] Ma ecco una circostanza stupefacente: tale dispersione, sempre imminente, importa e concorre alla produzione dell'opera quasi quanto la stessa concentrazione». (qui 396) «L'opera d'arte è un'opera in sé inutile, in rapporto al senso preciso di utilità: è una categoria completamente a parte». (qui p. 416) «Una poesia deve essere una festa dell'intelletto».

Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1892, a Genova, cade in quella che in seguito avrebbe  indicato come una profonda crisi esistenziale intellettuale. Al mattino decide di ripudiare gli idoli dell'estetica simbolista tutta volta alla ricerca di una sopra-realtà e si concentra su una concezione  tutta razionale dell'arte quale mezzo di conoscenza e di auto-costruzione; l'opera sarà un espediente per l'affinamento delle doti spirituali e intellettuali, un «esercizio spirituale», una «ginnastica», una «danza», un «fare», una «scherma», un «gioco di scacchi», una «strategia».  La via dello spirito è una via anagogica, ce lo testimoniano i suoi cahiers, (diari) nei quali annota ogni mattino le sue riflessioni. Aggiunge, come battuta di spirito, «avendo consacrato queste ore alla via dello spirito, mi sento in diritto di essere sciocco per il resto del giorno». «Ogni poema che non avesse la precisione esatta della prosa non ha nessun valore» dichiara Valéry, oppure, segue le orme di Malherbe il quale aveva detto che «un buon poeta non è più utile al suo paese di quanto non sia un buon giocatore di bocce».

Nel 1894, si trasferisce a Parigi, dove lavora come redattore al ministero della guerra. Rimane volontariamente lontano dalla scrittura poetica per consacrarsi alla conoscenza di sé e del mondo. Segretario personale di Edouard Lebey, amministratore della Havas, la prima agenzia di stampa, si dedica ogni mattino, dalle quattro alle sette, alla redazione dei suoi Cahiers, diari intellettuali, che vedranno la parziale pubblicazione solo dopo la sua scomparsa. Nel 1917, sotto l'influenza principalmente di André Gide, ritorna alla poesia, con La Jeune Parque, pubblicato presso Gallimard. In piena epoca di avanguardie e di libertà formale, Valéry ritorna all'alessandrino di Racine, a un modello formale seicentesco riproposto con due secoli di ritardo; sembra una provocazione, un lavoro a ritroso, e invece è subito un successo; il poema non è altro che «una fabbricazione artificiale che ha preso una sorta di sviluppo naturale» scriverà in seguito Valéry. Seguono Le Cimetière marin (1920) e una raccolta, Charmes (1922). Valéry non finisce mai di stupire, a proposito dei poeti simbolisti, durante una conferenza nega l'esistenza dei poeti simbolisti in quanto alla loro epoca nessuno di essi sapeva di essere dei simbolisti. Scrive:

«Quanto a loro, i nostri simbolisti dell'86 [concordi in una comune risoluzione di rinuncia al suffragio della massa], senza appoggi nella stampa, senza editori, senza approdi [...], si adattano a questa vita fuori norma; si fanno le loro riviste, le loro edizioni, la loro critica interna; e si formano a poco a poco quel piccolo pubblico di loro scelta [...]. Operano così una sorta di rivoluzione nell'ordine dei valori, poiché sostituiscono progresivamente alla nozione di opere che sollecitano il pubblico, che lo prendono per il suo lato debole o abitudinario, quella di opere che creano il loro pubblico». (pp. 1109-10) Scrive ancora Valéry: «I miei versi hanno il senso che si dà loro [...] È un errore che va contro la natura della poesia potrebbe esserle fatale pretendere che a ogni poesia corrisponda un significato autentico, unico, conforme o identico a un pensiero dell'autore» (pp.1298-9).

Scrive nella prefazione la Giaveri: «diversamente dalle opere giovanili (a cui d'altra parte rivendicava un senso preciso), le poesie della raccolta non vivono di un gioco metaforico costruito a posteriori, tramite la mediazione letteraria, ma di una analogia originaria fra due stati psicofisici che si strutturano secondo le stesse leggi e permettono le stesse varianti» (p. XXXIII).

Diventa il "poeta ufficiale" di Francia ma resta schivo ed estraneo ai riconoscimenti e agli onori. Nel 1924, viene eletto presidente del Pen Club francese e componente dell'Académie Francaise. Seguono anni di riconoscimenti e di onori e la cattedra (quella di poetico al Collège de France).

Ma durante tutto questo tempo, la sua vera professione continua nell'ombra: la profondità delle riflessioni che dà alle stampe in opere consistenti (Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, La soirée avec monsieur Teste), i suoi studi sul divenire della civiltà (Regards sur le monde actuel) e la sua viva curiosità intellettuale ne fanno un interlocutore ideale per Raymond Poincaré, Louis de Broglie, Henry Bergson e Albert Einstein. Sotto l'occupazione nazista, si rifiuta di collaborare e perde il suo posto d'amministratore a Nizza. Muore  il 20 luglio 1945, poche settimane dopo la fine della seconda guerra mondiale. Charles de Gaulle richiede per lui i funerali di Stato e viene sepolto a Sète, nel cimitero marino che aveva già celebrato nel suo famoso poema.

Ecco come il critico André Durand presenta La jeune Parque(1917):

Depuis 1892, Valéry n'avait publié qu'un très petit nombre de poèmes d'une esthétique fort différente des compositions antérieures, en particulier pour la nature et le fonctionnement des métaphores.

Vers le milieu de 1912, sur l'insistance d'André Gide et de Gaston Gallimard, il accepta d'éditer l'ensemble de ses œuvres de jeunesse, vers et prose. Mais, ne sachant comment transformer ces vers anciens qui lui paraissaient étrangers, il entreprit un poème d'une quarantaine de vers, qui serait un adieu à la poésie.

Dans sa dédicace à André Gide, il déclara : «Depuis des années, j'avais laissé l’art des vers ; essayant de m'y astreindre encore, j'ai fait cet exercice que je te dédie.» Et il précisa ses intentions : «Lorsque j'ai voulu me remettre à la poésie, j'ai voulu faire œuvre de volonté, combiner dans une oeuvre, tout d'abord les idées que je m'étais faites sur l'être vivant et le fonctionnement même de son être en tant qu'il pense et qu'il sent ; ensuite..., ne pas verser dans l'abstraction, mais au contraire incarner dans une langue aussi imagée que possible, et aussi musicale que possible, le personnage fictif que je créais.» Nulle contrainte n'était plus précieuse à cet athlète mental que celle de la versification traditionnelle, de la prosodie la plus rigoureuse. Il voulait que le poème en vers soit le chant continu d’une voix portée par un «je»  et dont l’efficacité poétique tienne aux ressources souplement modulées d’une matière verbale où la musique du sens est étroitement nouée à la musique du son. Son projet n’était pas de dire quoi que ce soit mais chercher à faire, c’est-à-dire à rigoureusement composer un poème dont le sens ne se dégagerait que plus tardivement.

Si, après un long silence, il était revenu à la poésie, il n'en avait pas, pour autant, abandonné ses idées centrales. Leur restant fidèle ou ne parvenant pas à s'en détacher, les jugeant essentielles, il voulait traiter, dans un poème aussi, le thème de la passion de l'intellect ou, mais c'est la même chose, de la connaissance et de la conscience. Il voulut d'abord l'intituler “Psyché” (l’âme) et a d’ailleurs défini son objectif de la manière la plus claire : «Songez que le sujet véritable du poème est la peinture d'une suite de substitutions psychologiques et en somme le changement d'une conscience pendant la durée d'une nuit.» Il voulut montrer l'opposition entre deux états et le passage de l'un à l'autre : du non-être de la conscience à l'existence de la conscience, cette prise de conscience de la conscience étant le motif central de toute sa réflexion.

La difficulté était donc quasi insurmontable : unir la matière abstraite la plus éloignée de toute forme poétique à la forme poétique la plus éloignée de l'abstraction. Au surplus, il était obligé de compter avec les exigences propres à la poésie, sachant qu'elle ne concède rien et qu'elle veut rester rythme, image, chant. Il a donc tenté de tenir cette gageure : rendre l'abstrait voluptueux sans qu'il perde rien de son austérité et créer une plasticité sans qu'elle perde rien de son rayonnement sensoriel. Puisque l'étude du mécanisme de l'intelligence, surpris dans le moment propice de l'élaboration ou de l'invention, restait sa curiosité profonde, il a corrigé la sécheresse d'un tel dessein et il en a vécu l'émotion.

Par une sorte de miracle, l'objet même qui devait l'obliger à l'usage de la prose et au vocabulaire technique l'a conduit à une prosodie rigoureuse, une syntaxe audacieuse et puriste, un choix de mots rares, des images, des symboles, des métamorphoses, une langue sensuelle, chatoyante et précieuse, si harmonieuse et si pleine que sa beauté paraît se séparer de son sens et autorisa, en son temps, l'extravagante erreur de tenir ses poèmes pour de la poésie pure, soit sans signification.

Cette tentative apparut d’abord à travers un brouil­lon intitulé ‘’Hélène’’. Ainsi, la mythologie grecque ajoutait aux différentes significations du poème des effets complexes de résonance. Hélène sortait de la grotte de la Nuit et voulait exister par elle-­même et non par le désir des autres («Suis-je quelque chose Moi qui ne me vois que dans le vertige des autres. Et qu'y suis-je?»), explorer les mystères de son être «en tant qu'il pense et qu'il sent». Mais, se regardant dans un miroir, elle se voyait séparée de ce reflet par des larmes, qui provoquaient aussitôt la question : «Si je me vois au miroir, des larmes me viennent, d'où?»). Puis elle se posait des questions sur un lieu inconnu, sur une identité autre et mystérieuse : «Mais qui pleure / seule et de diamants séparés?» Questions inachevables qui s'articulaient déjà sur un décor «éIémental» : Astres, Nuit, Distance, Larmes, Regard, ­et cette objet indispensable à tout questionnement chez Valéry : le Miroir. Mais, en quarante vers, c'était trop. D'autant plus que l'écri­ture fit surgir en s'accomplissant les problèmes du «système» auquel il ne cessait de travailler : les substitutions, l'acte de conscience et la mémoire, les déplacements et les condensa­tions du Moi par la pratique du langage, le fonctionnement des figures, la production de l'imaginaire par les structures for­melles, etc.

Gardant la préoccupation du double manque, le manque qui cause les larmes, le manque qui fait de cette autre d'Hélène dans Hélène un être sans nom, il envisagea donc une œuvre plus ample, qu’il appelait d’ailleurs «mon opéra», dans laquelle il voulut donner à la poésie les valeurs des récitatifs des drames lyriques (« Glück et Wagner m'étaient des modèles secrets» (lettre à  Aimé Lafont, septembre 1922), pour laquelle différents titres furent ébauchés à mesure pour aiman­ter diversement le travail : ‘’Pandora’’, ‘’Vers anciens’’, ‘’Ébauche’’, ‘’Étude ancienne’’, ‘’Discours’’, ‘’La seule Parque’’, ‘’L'aurore’’, puis ‘’Psyché’’ qui fut proposé par Pierre Louÿs, ‘’Île’’, enfin ‘’La jeune Parque’’ en 1916. Le poète a choisi de faire parler une Parque, non une des trois Parques qui, chez les Anciens, étaient les divinités du Destin, symbolisaient les étapes de la destinée humaine, la troisième coupant le fil de la vie ; mais une Parque qui est une mortelle et qui, surtout, est jeune, se trouvant à l'âge où l’individu doit définir son identité, voit naître «la conscience de soi-même», rencontre les divers problèmes de «la conscience consciente».

La composition dura plus de quatre ans. Le poème se développa par fragments remis vingt fois sur le métier : il y eut plus parfois plus de trente états successifs. Une note d'un ‘’Cahier’’ de 1917, intitulée «Comment j'ai fait la J.P,  précisa la chronologie du travail :

- 1912 : Genèse         

- 1913 :  Serpent                  

- 1914 

- 1915 : «Harmonieuse Moi», Sommeil        

- 1916 : Îles

- 1917.

Il commenta : «D'écart en écart, cela s'est enflé aux dimensions définitives». Pour ces 512 vers, il avait rédigé plus de cent brouillons dont la reproduction occuperait 600 pages !

La pression de la guerre accompagna l'invention du poème. Il avait fini par considérer comme un devoir de léguer à notre langue menacée cet ouvrage «fait de ses mots les plus purs et de ses formes les plus nobles». - «Je ne me l'explique à moi-même, je ne puis concevoir que je l'ai fait, qu'en fonction de la guerre. Je l'ai fait dans l'anxiété et à demi contre elle. J'avais fini par me suggérer que j'accomplissais un devoir; que je rendais un culte à quelque chose en perdition. Je m’assimilais à ces moines du premier Moyen Âge qui écoutaient le monde civilisé autout de leur cloître crouler, qui ne croyaient plus qu’en la fin du monde ; et toutefois qui écrivaient difficilement, en hexamètres durs et ténébreux, d’immenses poèmes pour personne [...] Il n'y avait aucune séré­nité en moi.» (lettre à Georges Duhamel, 1929). Mais les bruits de la guerre n'étaient peut-être pas nécessaires car il avoua : «angoisse, mon vrai métier».

Dans une lettre à Aimé Lafont (septembre 1922), il a ainsi défini son poème : «C'est une rêverie qui peut avoir toutes les rup­tures, les reprises et les surprises d'une rêverie dont le person­nage en même temps que l'objet est la conscience consciente. Figurez-vous que l'on s'éveille au milieu de la nuit, et que toute la vie se revive, et se reparle à soi-même [...] Sensualité, souvenirs, paysages, émotions, sentiment de son corps, profondeur de la mémoire et lumière ou cieux antérieurs revus, etc.. Cette trame qui n'a ni commencement ni fin, mais des nœuds, j'en ai fait un monologue auquel j’avais imposé avant de l’entreprendre des conditions de ‘’forme’’ aussi sévères que je laissais au fond de liberté. Je voulais faire des vers non seulement réguliers mais césurés, sans enjambement, sans rimes faibles.»

Dans une lettre à A. Mockel (1917), il précisa le but qu’il s’était donné : «Faire un chant prolongé, sans action, rien que l'incohérence interne aux confins du sommeil ; y mettre autant d'intellectualité que j'ai pu le faire et que la poésie en peut admettre sous ses voiles ; sauver l'abstraction prochaine par la musique, ou la racheter par des visions, voilà ce que j’ai fini par me résoudre à essayer, et je ne l'ai pas toujours trouvé facile […] Il y a de graves lacunes dans l'exposition et la composition, je n'ai pu me tirer de l'affaire qu'en travaillant par morceaux. Cela se sent, et j'en sais trop sur mes défaites !» Son projet était aussi de composer un poème «cent fois plus difficile à lire qu'il n'eût convenu», dont le sens ne se dégagerait que plus tardivement. Cette obscurité résulterait d'abord de la nature du sujet. Il a voulu rassembler dans ce poème un grand nombre d'idées qui l'occupaient depuis longtemps.

Ces «morceaux», les divers états du manuscrit font voir qu’ils ne se sont pas toujours succédé dans l'ordre où le texte définitif les présente, le plus important de ces déplacements concernant le dernier épisode. C’est que l’œuvre s’est formée en restant volontairement aveugle à son destin.

Ailleurs encore, on peut lire : «Ce chant est une autobiographie. J'ai supposé une mélodie, essayé d'attacher, de «ritardare», d'enchaîner, de couper, d'intervenir, de conclure, de résoudre, et ceci dans le sens comme dans le son...» (‘’Cahiers’’, VI, 508-509).

Armé de ces renseignements, invité par Valéry lui-même qui disait : «Il ne suffit pas d'expliquer le texte, il faut aussi expliquer la thèse», on peut essayer de déchiffrer ce poème dense et difficile dont l’obscurité ne résulterait pas d’une intention délibérée d’hermétisme (les raccourcis et les ellpises étant exigés par l’harmonie) et qui, grâce à la musique verbale, transpose une idée abstraite et revêche dans un érotisme onduleux, la pureté de l'idée étant atteinte à travers la pureté de la sensation, sans l’intermédiaire du sentiment.

La jeune Parque" (1917)

Poème de 512 alexandrins

«Le Ciel a-t-il formé cet amas de merveilles

Pour la demeure d'un serpent?»

Pierre Corneille.

                           Qui pleure là, sinon le vent simple, à cette heure

                           Seule avec diamants extrêmes?... Mais qui pleure,

                           Si proche de moi-même au moment de pleurer?

                           Cette main, sur mes traits qu'elle rêve effleurer,

                           Distraitement docile à quelque fin profonde,

                           Attend de ma faiblesse une larme qui fonde,

                           Et que de mes destins lentement divisé,

                           Le plus pur en silence éclaire un cœur brisé.

                           La houle me murmure une ombre de reproche,

10                        Ou retire ici-bas, dans ses gorges de roche,

                           Comme chose déçue et bue amèrement,

                           Une rumeur de plainte et de resserrement...

                           Que fais-tu, hérissée, et cette main glacée,

                           Et quel frémissement d'une feuille effacée

                           Persiste parmi vous, îles de mon sein nu?

                           Je scintille, liée à ce ciel inconnu...

                           L'immense grappe brille à ma soif de désastres.

                           Tout-puissants étrangers, inévitables astres

                           Qui daignez faire luire au lointain temporel

20                        Je ne sais quoi de pur et de surnaturel ;

                           Vous qui dans les mortels plongez jusques aux larmes

                           Ces souverains éclats, ces invincibles armes,

                           Et les élancements de votre éternité,

                           Je suis seule avec vous, tremblante, ayant quitté

                           Ma couche ; et sur l'écueil mordu par la merveille,

                           J'interroge mon cœur quelle douleur l'éveille,

                           Quel crime par moi-même ou sur moi consommé?...

                           ... Ou si le mal me suit d'un songe refermé,

                           Quand (au velours du souffle envolé l'or des lampes)

30                        J'ai de mes bras épais environné mes tempes,

                           Et longtemps de mon âme attendu les éclairs?

                           Toute? Mais toute à moi, maîtresse de mes chairs,

                           Durcissant d'un frisson leur étrange étendue,

                           Et dans mes doux liens, à mon sang suspendue,

                           Je me voyais me voir, sinueuse, et dorais

                           De regards en regards, mes profondes forêts.

                           J'y suivais un serpent qui venait de me mordre.

                           Quel repli de désirs, sa traîne !... Quel désordre

                           De trésors s’arrachant à mon avidité,

   40                             Et quelle sombre soif de la limpidité !

                           Ô ruse !... À la lueur de la douleur laissée

                           Je me sentis connue encor plus que blessée…

                           Aux plus traître de l’âme une pointe me naît ;

                           Le poison, mon poison, m’éclaire et se connaît :

                           Il colore une vierge à soi-même enlacée,

                           Jalouse… Mais de qui, jalouse et menacée?

                           Et quel silence parle à mon seul possesseur?

                          

                           Dieux ! Dans ma lourde plaie une secrète soeur

                                  Brûle, qui se préfère à l’extrême attentive.

 50                              Va ! Je n’ai plus besoin de ta race naïve,

                            Cher Serpent… je m’enlace, être vertigineux !

                           Cesse de me prêter ce mélange de noeuds

                           Ni ta fidélité qui me fuit et devine…

                           Mon âme  y peut suffire, ornement de ruine !

                           Elle sait, sur mon ombre égarant ses tourments,

                           De mon sein, dans les nuits, mordre les rocs charmants ;

                           Elle y suce longtemps le lait des rêveries…

                           Laisse donc défaillir ce bras de pierreries

                           Qui menace d’amour mon sort spirituel…

60                        Tu ne peux rien sur moi qui ne soit moins cruel,

                           Moins désirable… Apaise alors, calme ces ondes,

                           Rappelle ces remous, ces promesses immondes…

                           Ma surprise s’abrège, et mes yeux sont ouverts.

                           Je n’attendais pas moins de mes riches déserts

                           Qu’un tel enfantement de fureur et de tresses :

                           Leurs fonds passionnés brillent de sécheresse

                           Si loin que je m’avance et m’altère pour voir

                           De mes enfers pensifs les confins sans espoir…

                           Je sais… Ma lassitude est parfois un théâtre.

70                        L’esprit n’est pas si pur que jamais idolâtre

                           Sa fougue solitaire aux élans de flambeau

                           Ne fasse fuir les murs de son propre tombeau.

                           Tout peut naître ici-bas d’une attente infinie.

                           L’ombre même le cède à certaine agonie,

                           L’âme avare s’entr’ouvre, et du monstre s’émeut

                           Qui se tord sur le pas d’une porte de feu…

                           Mais, pour capricieux et prompt que tu paraisses,

                           Reptile, ô vifs détours tout courus de caresses,

                           Si proche impatience et si lourde langueur,

80                                   Qu’es-tu, près de ma nuit d’éternelle longueur?

                           Tu regardais dormir ma belle négligence…

                           Mais avec mes périls, je suis d’intelligence,

                           Plus versatile, ô Thyrse, et plus perfide qu’eux.

                           Fuis-moi ! du noir retour reprends le fil visqueux !

                           Va chercher des yeux clos pour tes danses massives.

                           Coule vers d’autres lits tes robes successives,

                           Couve sur d’autres cœurs les germes de leur mal,

                           Et que dans les anneaux de ton rêve animal

                           Halète jusqu’au jour l’innocence anxieuse !.. 

90                                    Moi, je veille. Je sors, pâle et prodigieuse,

                           Toute humide des pleurs que je n’ai point versés,

                           D’une absence aux contours de mortelle bercés

                           Par moi seule…  Et brisant une tombe sereine,

                           Je m’accoude inquiète et pourtant souveraine,

                           Tant de mes visions parmi la nuit et l’oeil,

                           Les moindres mouvements consultant mon orgueil.

Mais je tremblais de perdre une douleur divine !

                           Je baisais sur ma main cette morsure fine,

                           Et je ne savais plus de mon antique corps

100                      Insensible, qu’un feu qui brûlait sur mes bords :

                           Adieu, pensai-je, MOI, mortelle soeur, mensonge.

Harmonieuse MOI, différente d'un songe,

                           Femme flexible et ferme aux silences suivis

                           D'actes purs !... Front limpide, et par ondes ravis,

                           Si loin que le vent vague et velu les achève,

                           Longs brins légers qu'au large un vol mêle et soulève,

                           Dites !... J'étais l'égale et l'épouse du jour,

                           Seul support souriant que je formais d'amour

                           À la toute-puissante altitude adorée...

110                      Quel éclat sur mes cils aveuglément dorée,

                           Ô paupières qu'opprime une nuit de trésor,

                           Je priais à tâtons dans vos ténèbres d'or !

                           Poreuse à l'éternel qui me semblait m'enclore,

                           Je m'offrais dans mon fruit de velours qu'il dévore ;

                           Rien ne me murmurait qu'un désir de mourir

                           Dans cette blonde pulpe au soleil pût mûrir :

                           Mon amère saveur ne m'était point venue.

                           Je ne sacrifiais que mon épaule nue

                           À la lumière ; et sur cette gorge de miel,

120                      Dont la tendre naissance accomplissait le ciel,

                           Se venait assoupir la figure du monde.

                           Puis dans le dieu brillant, captive vagabonde,

                           Je m'ébranlais brûlante et foulais le sol plein,

                           Liant et déliant mes ombres sous le lin.

                           Heureuse ! À la hauteur de tant de gerbes belles,

                           Qui laissais à ma robe obéir les ombelles,

                           Dans les abaissements de leur frêle fierté ;

                           Et si, contre le fil de cette liberté,

                           Si la robe s'arrache à la rebelle ronce,

130                      L'arc de mon brusque corps s'accuse et me prononce,

                           Nu sous le voile enflé de vivantes couleurs

                           Que dispute ma race aux longs liens de fleurs !

                           Je regrette à demi cette vaine puissance...

                           Une avec le désir, je fus l'obéissance

                           Imminente, attachée à ces genoux polis ;

                           De mouvements si prompts mes vœux étaient remplis

                           Que je sentais ma cause à peine plus agile !

                           Vers mes sens lumineux nageait ma blonde argile,

                           Et dans l'ardente paix des songes naturels,

140                      Tous ces pas infinis me semblaient éternels.

                           Si ce n'est, ô Splendeur, qu'à mes pieds l'Ennemie,

                           Mon ombre ! la mobile et la souple momie,

                           De mon absence peinte effleurait sans effort

                           La terre où je fuyais cette légère mort.

                           Entre la rose et moi, je la vois qui s’abrite ;

                           Sur la poudre qui danse, elle glisse et n’irrite

                           Nul feuillage, mais passe, et se brise partout...

                           Glisse ! Barque funèbre...

                                                               Et moi vive, debout,

                           Dure, et de mon néant secrètement armée,

150                      Mais , comme par l’amour une joue enflammée,

                           Et la narine jointe au vent de l’oranger,

                           Je ne rends plus au jour qu’un regard étranger...

                           Oh ! combien peut grandir dans ma nuit curieuse

                           De mon coeur séparé la part mystérieuse,

                           Et  de sombres essais s’approfondir mon art !...

                           Loin des purs environs, je suis captive, et par

                           L’évanouissement d’arômes abattue,

                           Je sens sous les rayons frissonner ma statue,

                           Des caprices de l’or son marbre parcouru.

160                      Mais je sais ce que voit mon regard disparu ;

                           Mon oeil noir est le seuil d’infernales demeures !

                           Je pense, abandonnant à la brise les heures

                           Et l’âme sans retour des arbustes amers

                           Je pense, sur le bord doré de l’univers,

                           À ce goût de périr qui prend la Pythonisse

                           En qui mugit l’espoir que le monde finisse.

                           Je renouvelle en moi mes énigmes, mes dieux,

                           Mes pas interrompus de paroles aux cieux,

                           Mes pauses, sur le pied portant la rêverie,

170                      Qui suit au miroir d’aile un oiseau qui varie,

                           Cent fois sur le soleil joue avec le néant,

                           Et brûle, au sombre but de mon marbre béant.

                          

                           Ô dangereusement de son regard la proie !

                           Car l’oeil spirituel sur ses plages de soie

                           Avait déjà vu luire et pâlir trop de jours

                           Dont je m’étais prédit les couleurs et le cours.

                           L’ennui, le clair ennui de mirer leur nuance,

                           Me donnait sur ma vie une funeste avance :

                           L’aube me dévoilait tout le jour ennemi.

180                      J’étais à demi-morte ; et peut-être, à demi

                           Immortelle, rêvant que le futur lui-même

                           Ne fût qu’un diamant fermant le diadème

                           Où s’échange le froid des malheurs qui naîtront

                           Parmi tant d’autres feux absolus de mon front.

                           Osera-t-il, le Temps, de mes diverses tombes,

                           Ressusciter un soir favori des colombes,

                           Un soir qui traîne au fil d’un lambeau voyageur

                           De ma docile enfance un reflet de rougeur,

                           Et trempe à l’émeraude un long rose de honte?

190                      Souvenir, ô bûcher, dont le vent d’or m’affronte

                           Souffle au masque la pourpre imprégnant le refus

                           D’être en moi-même en flamme une autre que je fus…

                           Viens, mon sang, viens rougir la pâle circonstance

                           Qu’ennoblissait l’azur de ta sainte distance,

                           Et l’insensible iris du temps que j’adorai !

                           Viens consumer sur moi ce don décoloré ;

                           Viens ! que je reconnaisse et que je les haïsse,

                           Cette ombrageuse enfant, ce silence complice,

                           Ce trouble transparent qui baigne dans les bois…

200                      Et de mon sein glacé rejaillisse la voix

                           Que j’ignorais si rauque et d’amour si voilée…

                           Le col charmant cherchant la chasseresse ailée.

                           Mon cœur fut-il si près d’un cœur qui va faiblir?

        

                           Fut-ce bien moi, grands cils, qui crus m’ensevelir

                           Dans l’arrière douceur riant à vos menaces…

                           Ô pampres ! sur ma joue errant en fils tenaces,

                           Ou toi… de cils tissue et de fluides fûts,

                           Tendre lueur d’un soir brisé de bras confus?

«Que dans le ciel placés, mes yeux tracent mon  temple

210                      Et que sur moi repose un autel sans exemple !»

                           Criaient de tout mon corps la pierre et la pâleur…

                           La terre ne m’est plus qu’un bandeau de couleur

                           Qui coule et se refuse au front blanc de vertige…

                           Tout l’univers chancelle et tremble sur ma tige,

                           La pensive couronne échappe à mes esprits,

                           La mort veut respirer cette rose sans prix

                           Dont la douleur importe à sa fin ténébreuse !

                 

                           Que ma si tendre odeur grise ta tête creuse,

                           Ô mort, respire enfin cette esclave de roi :

220                      Appelle-moi, délie !... Et désespère-moi,

                           De moi-même si lasse, image condamnée !

                           Écoute... N’attends plus... La renaissante année

                           À tout mon sang prédit de secrets mouvements :

                           Le gel cède à regret ses derniers diamants...

                           Demain, sur un soupir des Bontés constellées,

                           Le printemps vient briser les fontaines scellées :

                           L’étonnant printemps rit, viole... On ne sait d’où

                           Venu? Mais la candeur ruisselle à mots si doux

                           Qu’une tendresse prend la terre à ses entrailles.....

230                      Les arbres regonflés et recouverts d’écailles

                           Chargés de tant de bras et de trop d’horizons,

                           Meuvent sur le soleil leurs tonnantes toisons,

                           Montent dans l’air amer avec toutes leurs ailes

                           De feuilles par milliers qu’ils se sentent nouvelles...

                           N’entends-tu pas frémir ces noms aériens,

                           Ô Sourde !... Et dans l’espace accablé de liens,

                           Vibrant de bois vivace infléchi par la cime,

                           Pour et contre les dieux ramer l’arbre unanime,

                           La flottante forêt de qui les rudes troncs

240                      Portent pieusement à leurs fantasques fronts,

                           Aux déchirants départs des archipels superbes,

                           Un fleuve tendre, ô mort, et caché sous les herbes?

                           Quelle résisterait, mortelle, à ces remous?

                           Quelle mortelle?

                                          Moi si pure, mes genoux

                           Pressentent les terreurs de genoux sans défense…

                           L’air me brise. L’oiseau perce de cris d’enfance

                           Inouïs… l’ombre même où se serre mon cœur,

                           Et roses ! mon soupir vous soulève, vainqueur

                           Hélas ! des bras si doux qui ferment la corbeille…

250                                 Oh ! parmi mes cheveux pèse d’un poids d’abeille,

                           Plongeant toujours plus ivre au baiser plus aigu,

                           Le point délicieux de mon jour ambigu…

                           Lumière !... Ou toi, la mort ! Mais le plus prompt me prenne !...

                           Mon cœur bat ! mon cœur bat ! Mon sein brûle et m’entraîne !

                           Ah ! qu’il s’enfle, se gonfle et se tende, ce dur

                           Très doux témoin captif de mes réseaux d’azur…

                           Dur en moi… mais si doux à la bouche infinie !...

                           Chers fantômes naissants dont la soif m’est unie,

                           Désirs ! Visages clairs !... Et vous, beaux fruits d’amour,

260                      Les dieux m’ont-ils formé ce maternel contour

                           Et ces bords sinueux, ces plis et ces calices,

                           Pour que la vie embrasse un autel de délices,

                           Où mêlant l’âme étrange aux éternels retours,

                           La semence, le lait, le sang coulent toujours?

                           Non ! L’horreur m’illumine, exécrable harmonie !

                           Chaque baiser présage une neuve agonie…

                           Je vois, je vois flotter,  fuyant l’honneur des chairs

                           Des mânes impuissants les millions amers…

                           Non, souffles ! Non, regards, tendresses… mes convives,

270                      Peuple altéré de moi suppliant que tu vives,

                           Non, vous ne tiendrez pas de moi la vie !… Allez,

                           Spectres, soupirs la nuit vainement exhalés,

                           Allez  joindre des morts les impalpables nombres !

                           Je n’accorderai pas la lumière à des ombres,

                           Je garde loin de vous l’esprit sinistre et clair…

                           Non ! vous ne tiendrez pas de mes lèvres l’éclair !

                           Et puis… mon cœur aussi vous refuse sa foudre.

                           J’ai pitié de nous tous, ô tourbillons de poudre !

                           Grands Dieux ! Je perds en vous mes pas déconcertés !

280                      Je n’implorerai plus que tes faibles clartés,

                           Longtemps sur mon visage envieuse de fondre.

                           Très imminente larme, et seule à me répondre,

                           Larme qui fait trembler à mes regards humains

                           Une variété de funèbres chemins ;

                           Tu procèdes de l’âme, orgueil du labyrinthe,

                           Tu me portes du cœur cette goutte contrainte,

                           Cette distraction de mon suc précieux

                           Qui vient sacrifier mes ombres sur mes yeux,

                           Tendre libation de l’arrière-pensée !

290                      D’une grotte de crainte au fond de moi creusée

                           Le sel mystérieux suinte muette l’eau.

                           D’où nais-tu? Quel travail toujours triste et nouveau

                           Te tire avec retard, larme, de l’ombre amère?

                           Tu gravis mes degrés de mortelle et de mère,

                           Et déchirant ta route, opiniâtre faix,

                           Dans le temps que je vis, les lenteurs que tu fais

                           M’étouffent… je me tais, buvant ta marche sûre…

                           - Qui t’appelle au secours de ma jeune blessure?

                           Mais blessures, sanglots, sombres essais, pourquoi?

300                      Pour qui, joyaux cruels, marquez-vous ce corps froid

                           Aveugle aux doigts ouverts évitant l’espérance !

                           Où va-t-il, sans répondre à sa propre ignorance,

                           Ce corps dans la nuit noire étonné de sa foi?

                           Terre trouble… et mêlée à l’algue, porte-moi,

                           Porte doucement moi… Ma faiblesse de neige

                           Marchera-t-elle tant qu’elle trouve son piège?

                           Où traîne-t-il, mon cygne, où cherche-t-il son vol?

                           …Dureté précieuse… Ô sentiment du sol,

                           Mon pas fondait sur toi l’assurance sacrée !

310                      Mais sous le pied vivant qui tâte et qui la crée

                           Et touche avec horreur à son pacte natal,

                           Cette  terre si ferme atteint mon piédestal.

                           Non loin, parmi ces pas, rêve mon précipice…

                           L’insensible rocher, glissant d’algues, propice

                           À fuir (comme en soi-même ineffablement seul).

                           Commence…Et le vent semble au travers d’un linceul

                           Ourdir de bruits marins une confuse trame,

                           Mélange de la lame en ruine, et de rame…

                           Tant de hoquets longtemps, et de râles heurtés,

320                      Brisés, repris au large… et tous les sorts jetés

                           Éperdument divers roulant l’oubli vorace…

                           Hélas ! de mes pieds nus qui trouvera la trace

                           Cessera-t-il longtemps de ne songer qu’à soi?

                           Terre trouble, et mêlée à l’algue, porte-moi !

                           Mystérieuse MOI, pourtant, tu vis encore !

                           Tu vas te reconnaître au lever de l'aurore

                           Amèrement la même...

                                             Un miroir de la mer

                           Se lève... Et sur la lèvre, un sourire d'hier 

                           Qu'annonce avec ennui l'effacement des signes,

330                      Glace dans l'orient déjà les pâles lignes

                           De lumière et de pierre, et la pleine prison

                           Où flottera l’anneau de l'unique horizon...

                           Regarde : un bras très pur est vu, qui se dénude.

                           Je te revois, mon bras... Tu portes l'aube...

                                                                        Ô rude

                           Réveil d'une victime inachevée…  et seuil

                           Si doux... si clair, que flatte, affleurement d'écueil,

                           L’onde basse, et que lave une houle amortie !...

                           L'ombre qui m'abandonne, impérissable hostie,

                           Me découvre vermeille à de nouveaux désirs,

340                      Sur le terrible autel de tous mes souvenirs.

                           Là, l'écume s'efforce à se faire visible ;

                           Et là, titubera sur la barque sensible

                           À chaque épaule d'onde, un pêcheur éternel.

                           Tout va donc accomplir son acte solennel

                           De toujours reparaître incomparable et chaste,

                           Et de restituer la tombe enthousiaste

                           Au gracieux état du rire universel.

                           Salut ! Divinités par la rose et le sel,

                           Et les premiers jouets de la jeune lumière,

350                      Îles !... Ruches bientôt, quand la flamme première

                           Fera que votre roche, îles que je prédis,

                           Ressente en rougissant de puissants paradis ;

                           Cimes qu'un feu féconde à peine intimidées,

                           Bois qui bourdonnerez de bêtes et d'idées,

                           D'hymnes d'hommes comblés des dons du juste éther,

                           Îles ! dans la rumeur des ceintures de mer,

                           Mères vierges toujours, même portant ces marques,

                           Vous m'êtes à genoux de merveilleuses Parques :

                           Rien n'égale dans l'air les fleurs que vous placez,

360                      Mais dans la profondeur, que vos pieds sont glacés !

De l’âme les apprêts sous la tempe calmée,

                           Ma mort enfin secrète et déjà si formée,

                           Et vous, divins dégoûts qui me donniez l’essor,

                           Chastes éloignements des lustres de mon sort,

                           Ne fûtes-vous, ferveur, qu’une noble durée?

                           Nulle jamais des dieux plus près aventurée

                           N’osa peindre à son front leur souffle ravisseur,

                           Et de la nuit parfaite implorant l’épaisseur,

                           Prétendre par la lèvre au suprême murmure.

370                      Je soutenais l’éclat de la mort toute pure

                           Telle j’avais jadis le soleil soutenu…

                           Mon corps désespéré tendait le torse nu

                           Où l’âme, ivre de soi, de silence et de gloire,

                           Prête à s’évanouir de sa propre mémoire,

                           Écoute, avec espoir, frapper au mur pieux

                           Ce cœur, - qui se ruine à coups mystérieux

                           Jusqu’à ne plus tenir que de sa complaisance

                           Un frémissement fin de feuille, ma présence…

                           Attente vaine, et vaine… Elle ne peut mourir

380                      Qui devant son miroir pleure pour s’attendrir.

.

Ô n’aurait-il fallu, folle, que j’accomplisse

                           Ma merveilleuse fin de choisir pour supplice

                           Ce lucide dédain des nuances du sort?

                           Trouveras-tu jamais plus transparente mort

                           Ni de pente plus pure où je rampe à ma perte

                           Que sur ce long regard de victime entr’ouverte,

                           Pâle, qui se résigne et saigne sans regret?

                           Dans quelle blanche paix cette pourpre la laisse,

390                      À l’extrême de l’être et belle de faiblesse !

                           Elle calme le temps qui la vient abolir,

                           Le moment souverain ne la peut plus pâlir,

                           Tant la chair vide baise une sombre fontaine !...

                           Elle se fait toujours plus seule et plus lointaine…

                           Et moi, d’un tel destin, le cœur toujours plus près,

                           Mon cortège, en esprit, se berçait de cyprès…

                           Vers un aromatique avenir de fumée,

                           Je me sentais conduite, offerte et consumée,

                           Toute, toute promise aux nuages heureux !

400                      Même, je m’apparus cet arbre vaporeux,

                           De qui la majesté légèrement perdue

                           S’abandonne à l’amour de toute l’étendue.

                           L’être immense me gagne, et de mon cœur divin

                           L’encens qui brûle expire une forme sans fin…

                           Tous les corps radieux tremblent dans mon esence !...

                           Non, non !... N’irrite plus cette réminiscence !

                           Sombre lys ! Ténébreuse allusion des cieux,

                           Ta vigueur n’a pu rompre un vaisseau précieux…

                           Parmi tous les instants tu touchais au suprême…

410                      - Mais qui l’emporterait sur la puissance même,

                           Avide par tes yeux de contempler le jour

                           Qui s’est choisi ton front pour lumineuse tour?

                           Cherche, du moins, dis-toi, par quelle sourde suite

                           La nuit, d’entre les morts, au jour t’a reconduite?

                           Souviens-toi de toi-même, et retire à l’instinct

                           Ce fil (ton doigt doré le dispute au matin),

                           Ce fil dont la finesse aveuglément suivie

                           Jusque sur cette rive a ramené ta vie…

                           Sois subtile…cruelle… ou plus subtile !... Mens !...

420                      Mais sache !... Enseigne-moi par quels enchantements,

                           Lâche que tu n’as su fuir sa tiède fumée,

                           Ni le souci d’un sein d’argile parfumée,

                           Par quel retour sur toi, reptile, as-tu repris

                           Tes parfums de caverne et tes tristes esprits?

                           Hier la chair profonde, hier, la chair maîtresse

                           M’a trahie… Oh ! sans rêve, et sans une caresse !...

                           Nul démon, nul parfum ne m’offrit le péril

                           D’imaginaires bras mourant au col viril ;

                           Ni, par le Cygne-Dieu, de plumes offensée

430                      Sa brûlante blancheur n’effleura ma pensée…

                           Il eût connu pourtant le plus tendre des nids !

                           Car toute à la faveur de mes membres unis,

                           Vierge, je fus dans l’ombre une adorable offrande…

                           Mais le sommeil s’éprit d’une douceur si grande,

                           Et nouée à moi-même au creux de mes cheveux,

                           J’ai mollement perdu mon empire nerveux.

                           Au milieu de mes bras, je me suis faite une autre…

                           Qui s’aliène?... Qui s’envole?... Qui se vautre?...

                           À quel détour caché, mon cœur s’est-il fondu?

440                      Quelle conque a redit le nom que j’ai perdu?

                           Le sais-je, quel reflux traître m’a retirée

                           De mon extrêmité pure et prématurée,

                           Et m’a repris le sens de mon vaste soupir?

                           Comme l’oiseau se pose, il fallut m’assoupir.

                           Ce fut l’heure peut-être où la devineresse

                           Intérieure s’use et se désintéresse :

                           Elle n’est plus la même… Une profonde enfant

                           Des degrés inconnus vainement se défend,

                           Et redemande au loin ses mains abandonnées.

450                      Il faut céder aux vœux des mortes couronnées

                           Et prendre pour visage un souffle…

                                                                            Doucement,

                           Me voici : mon front touche à ce consentement…

                           Ce corps, je lui pardonne, et je goûte à la cendre.

                           Je me remets entière au bonheur de descendre,

                           Ouverte aux noirs  témoins, les bras suppliciés,

                           Entre des mots sans fin, sans moi, balbutiés.

                           Dors, ma sagesse, dors. Forme-toi cette absence ;

                           Retourne dans le germe et la sombre innocence,

                           Abandonne-toi vive aux serpents, aux trésors !

460                      Dors toujours ! Descends, dors toujours ! Descends, dors, dors !

                           (La porte basse c’est une bague… où la gaze

                           Passe… Tout meurt, tout rit dans la gorge qui jase…

                           L’oiseau boit sur ta bouche et tu ne peux le voir…

                           Viens plus bas, parle bas… Le noir n’est pas si noir…)

                           Délicieux linceuls, mon désordre tiède,

                           Couche où je me répands, m’iinterroge et me cède,

                           Où j’allai de mon cœur noyer les battements,

                           Presque tombeau vivant dans mes appartements,

                           Qui respire, et sur qui l’éternité s’écoute,

470                      Place pleine de moi qui m’avez prise toute,

                           Ô forme de ma forme et la creuse chaleur

                           Que mes retours sur moi reconnaissaient la leur,

                           Voici que tant d’orgueil qui dans vos lis se plonge

                           À la fin se mélange aux bassesses du songe !

                           Dans vos nappes, où lisse elle imitait sa mort

                           L’idole malgré soi se dispose et s,endort,

                           Lasse femme absolue, et les yeux dans ses larmes,

                           Quand, de ses secrets nus les antres et les charmes,

                           Et ce reste d’amour que se gardait le corps

480                      Corrompirent sa perte et ses mortels accords.

                           Arche toute secrète, et pourtant si prochaine,

                           Mes transports, cette nuit, pensaient briser ta chaîne ;

                           Je n’ai fait que bercer de lamentations

                           Tes flancs chargés de jour et de créations !

                           Quoi ! mes yeux froidement que tant d’azur égare

                           Regardent là périr l’étoile fine et rare,

                           Et ce jeune soleil de mes étonnements

                           Me paraît d’une aïeule éclairer les tourments,

                           Tant sa flamme aux remords ravit leur existence,

490                      Et compose d’aurore une chère substance

                           Qui se formait déjà substance d’un tombeau !

                           Ô, sur toute la mer, sur mes pieds, qu’il est beau !

                           Tu viens !... Je suis toujours celle que tu respires,

                           Mon voile évaporé me fuit vers tes empires…

                           ... Alors, n'ai-je formé, vains adieux si je vis,

                           Que songes?... Si je viens, en vêtements ravis, 

                           Sur ce bord, sans horreur, humer la haute écume,

                           Boire des yeux l'immense et riante amertume,

                           L'être contre le vent, dans le plus vif de l'air,

500                      Recevant au visage un appel de la mer ;

                           Si l'âme intense souffle, et renfle furibonde

                           L'onde abrupte sur l'onde abattue, et si l'onde

                           Au cap tonne, immolant un monstre de candeur,

                           Et vient des hautes mers vomir la profondeur

                           Sur ce roc, d'où jaillit jusque vers mes pensées

                           Un éblouissement d'étincelles glacées,

                           Et sur toute ma peau que morde l'âpre éveil,

                           Alors, malgré moi-même, il le faut, ô Soleil,

                           Que j'adore mon cœur où tu te viens connaître,

510                      Doux et puissant retour du délice de naître,

                           Feu vers qui se soulève une vierge de sang

                           Sous les espèces d'or d'un sein reconnaissant !

La jeune Parque

(1917)

Poème de 512 alexandrins