L'EPOCA DEI LUPI

IL PENSIERO POETICO DI OSIP MANDEL'ŠTAM

 

In Osip Mandel'štam è vivissimo il presentimento di vivere in un'epoca di lupi, di grandi rivolgimenti sociali e politici. Nella squisita fattura ellenistica della sua poesia a poco a poco si insinuano piccole invisibili fratture che danno origine ad una nuova «fisiologia» della sua poesia. La squisita fattura ellenistica della sua poesia di quegli anni dissimula la crisi incombente di un mondo che sta per scomparire, inghiottito dalla rivoluzione bolscevica.. La forma costruita sul pentametro giambico è la risposta che il poeta russo dà ai rivolgimenti del suo tempo. Rispetto alla sua poesia, i saggi teorici sono stati scritti su ordinazione per giornali o riviste, a caldo quindi, e risentono, nell'impianto generale e nei numerosi spunti polemici, del clima culturale dell'epoca. La sua critica è sempre stringata, tagliente, spesso affiora un senso di superiorità intellettuale, la consapevolezza di essere nel giusto ma anche la sensazione di un isolamento culturale che con l'andar degli anni divenne isolamento fisico. Prevaleva in lui la percezione di essere fuori del proprio tempo, di andare contro corrente. Mandel'štam era troppo intelligente per non comprendere che le sue posizioni lo avrebbero potuto condurre alla catastrofe ma non intese mai modificare i suoi comportamenti privati e pubblici. Era cosciente che un atteggiamento intransigente verso la rivoluzione gli avrebbe attirato ostilità e ostracismo. Già nel 1923 era stato colpito da una tacita scomunica: non si pubblicavano più i suoi articoli sui giornali e non gli venivano più richieste poesie per la pubblicazione. La morsa della censura si stringeva sempre più. Da questo punto di vista è estremamente interessante esaminare l'unico saggio che Mandel'štam scrisse per proprio diletto: il Discorso su Dante (1933-1934) dove viene elaborata ed approfondita una concezione della lingua e della poesia affatto originale. Prima facie l'oggetto dell'indagine è la Commedia, in realtà Mandel'štam legge e interpreta la poesia di Dante dal punto di vista della propria poesia, effettua numerose perlustrazioni entro la struttura interna della Commedia per carpirne i segreti compositivi, la formula base di questa complessa macro struttura. Alterna momenti di introspezione a lunghe pause di macerazione e di riflessione. Mandel'štam comprende che Dante non può essere giunto di colpo e d'improvviso alla perfezione dell'endecasillabo e della terzina, tantomeno della intera struttura dell'opera; la sua curiosità insoddisfatta lo induce a lamentare che «le minute di Dante non sono ovviamente arrivate fino a noi. Non c'è alcuna possibilità di indagare sulla storia del testo, ma ciò non ne segue, naturalmente, che non vi fossero brutte copie piene di cancellature e versi corretti e che il testo sia nato adulto come la prole dalle uova di Leda o Pallade Atena dalla fronte di Zeus (...) Per quanti secoli si è parlato e scritto di Dante come se egli avesse messo giù sulla carta i suoi pensieri direttamente sulla più raffinata pergamena? Il laboratorio di Dante... si parla di Dante come se egli avesse avuto il quadro completo innanzi agli occhi ancor prima di cominciare il lavoro e fosse indaffarato sulla tecnica del moulage: prima la gettata nel gesso, poi nel bronzo. All'apice, egli maneggia un cesello e può intagliare o, come dicono, scolpire. Qui essi dimenticano un piccolo dettaglio: il cesello rimuove esattamente ogni eccesso, e l'abbozzo dello scultore non lascia tracce materiali dietro, quel qualcosa di cui il pubblico è molto appassionato. Proprio il fatto che il lavoro di uno scultore procede per stadi corrisponde ad una serie di versioni-bozze. I bozzetti non vengono mai distrutti. In poesia, nelle arti plastiche, e in arte generalmente non vi sono oggetti ready-made. Noi siamo intralciati nella comprensione di ciò dalla nostra abitudine del pensiero grammaticale».8

 

L'ellenismo è, per il poeta russo, la patria di una cultura mondiale, il punto verso il quale si orienta la bussola di ogni poeta che intenda utilizzare una lingua dell'Occidente («l'archipendolo fissato alla tolda danzante»). Una volta Mandel'štam scrisse che l'imagismo era «nostalgia di una cultura mondiale». Con tale espressione intendeva evitare qualsiasi facile etichetta alla scuola poetica che si proponeva l'ambiziosissimo scopo di seppellire per sempre il simbolismo. Mandel'štam tesse le lodi di Rozanov che aveva trascorso tutta la vita nello sforzo di restaurare il «legame con la parola, per la cultura filologica, che sta fermamente a fondamento della natura ellenistica della lingua russa»; dichiara così apertamente la sua adesione alla ellenizzazione della lingua russa, ma non nel senso di una «magia della parola» che riduce il poeta a non essere altro che un «raccoglitore ed infilatore di parole, al di fuori di ogni preoccupazione di stile». Ribadisce con forza la natura ellenistica della lingua russa e la massima venerazione nei confronti dell'attitudine filologica verso la parola. Il bisogno di costruire un'«Acropoli» o un «Cremlino» era un compito prioritario per Mandel'štam; la lotta contro l'indebolimento del senso delle parole lo ossessionò per tutta la vita, lo ossessionava il pensiero che «il torpore di due o tre generazioni avrebbe potuto condurre la Russia alla morte storica». Questa consapevolezza lo spingeva verso posizioni di poetica sempre più intransigenti. Occorreva correre subito ai ripari: costruire una cupola sotto la quale avrebbero potuto trovare posto le generazioni a venire. Anche nell'atteggiamento da «talpa» di Chlébnikov Mandel'štam notava una forza sostanzialmente salvifica della lingua, posizione questa ben lontana dalla sensibilità verso la lingua che avevano i futuristi, gli «anarchici» della lingua o da quella che professavano i simbolisti «sacerdoti d'un culto asiano» che avrebbero potuto condurre, nei tempi lunghi all'esaurimento delle potenzialità della lingua russa. Mandel'štam possedeva una acutissima percezione della «velocità dello sviluppo della lingua», il suo essere appena una mosca nocchiera di quel grande Leviathano non lo spingeva al pessimismo, tutt'altro, il suo attaccamento alla lingua russa non si configurava come un rapporto parassitario di mera dipendenza da quella ma era un rapporto di osmosi sanguigna. Questa consapevolezza anima dall'interno il linguaggio poetico di Mandel'štam che diventa un tessuto di carne viva, palpitante.

 

Mandel'štam ha della lingua russa una concezione, se così possiamo dire, diacronica e sincronica, la lingua è per il poeta russo «un mare agitato di avvenimenti, ininterrotta incarnazione ed attività di carne assennata che respira», di qui la sua presa di distanze rispetto al concetto che della lingua avevano i poeti simbolisti, di qui la ragione della sua polemica contro i simbolisti Andrej Belyj e Bal'mont. I poeti simbolisti avevano un concetto esclusivamente acustico del linguaggio poetico, avevano un rapporto parassitario con la lingua che impiegavano come calco sonoro per una operazione di mero «sfruttamento per i propri scopi intuitivi». Ad essi il poeta russo contrapponeva Innokentij Annenskij e Viaceslav Ivanov caratterizzati da un «ellenismo interiore», forniva dell'ellenismo una definizione originale ed esemplare: «l'ellenismo è il circondarsi consapevole dell'uomo di vasellame al posto di oggetti indifferenti». Questa religione della domesticità, questo ellenismo dello spirito, lo spingeva ad adottare una visione della lingua dove tutti gli oggetti e le parole che li designano sono collegati tra loro come «stecche di un ventaglio». «La parola è già forma chiusa; non si può toccare. Essa non serve per la vita quotidiana così come nessuno si metterà ad accendere una sigaretta da una lampada». Per Mandel'štam l'autosufficienza della parola è già tutta intera e integra nella lingua viva della comunità, assoggettarla ad un «tabù», sottrarla al suo valore d'uso significa compiere un atto «ostile all'uomo», fabbricare «un animale impagliato, uno spaventapasseri», un mero calco sonoro. Mandel'štam non conosce la frattura tra il segno e il denotato che da De Sassure in poi tanti guasti ed equivoci ha generato nella poesia del Novecento, egli vuole salvare la parola nella sua rete di relazioni di utilità così come si presenta nella vita quotidiana; considera falsa e superficiale la poetica dei simbolisti per i quali il reale è «una terribile controdanza di corrispondenze che si ammiccano l'un l'altra... Nessuna parola chiara, soltanto allusioni, reticenze». Il potente aggancio della parola alla vita quotidiana riscatta la poesia di Mandel'štam dalla fumosa genericità dei simbolisti e la pone su un piano molto più alto di consapevolezza problematica.

Quando Mandel'štam afferma che «la lingua è nel contempo un corridore e una tartaruga» 1, polemizza da un lato contro i «fautori della teoria del progresso» in letteratura, dall'altro, lancia attacchi alla scuola dei simbolisti. Mandel'štam elabora uno storicismo simultaneo che ha nel sincronismo, nell'attualità e nella coesistenza di tutte le epoche la sua base naturale. La nuova poetica dell'acmeismo reca in sé un nuovo concetto di storicismo delle forme estetiche. «Correlata alla concezione sincronica della storia, fissata dalla memoria individuale, fu la creazione, da parte di Mandel'štam e dell'Achmatova, di una particolare poetica semantica, nella quale elementi eterogenei del testo, testi diversi, generi diversi (poesia e prosa), la creazione e la vita, tutte queste componenti e il destino -tutto s'imperniano su un unico asse semantico, chiamato a ripristinare la correlazione tra l'uomo e la storia». 2

La concezione secondo cui la parola non coincide con la cosa è presa in prestito da Bergson il quale accentua questa scissione fino a raccomandare che il poeta deve «superare le parole» divenute ormai sedi di «simboli praticamente inutili, generalità convenzionalmente e socialmente accettate» che costituiscono una barriera tra la realtà e noi. «L'art n'a d'autre objet que d'ecarter les symboles pratiquement inutiles... (e) nous vivons dans una zone mitoyenne entre les choses et nous, exterieurement aux choses, exterieurement à nous-mêmes». 3 Mandel'štam è preoccupato di salvare «il principio di unità nel turbine dei cambiamenti e nel flusso ininterrotto degli avvenimenti».4 La filosofia di Bergson si attaglia perfettamente alle esigenze del poeta russo, gli permette di sviluppare le sue intuizioni con il conforto di uno zoccolo filosofico: «Bergson esamina gli avvenimenti non nell'ordine della loro sottomissione alla legge della successione temporale ma in quello della loro estensione spaziale. A Mandel'štam interessa esclusivamente il legame interno degli avvenimenti, libera questo legame dal tempo e lo esamina separatamente. In tal modo avvenimenti legati tra di loro formano come un «ventaglio le cui stecche si possono dispiegare nel tempo ma che, analogamente, cederà ad una coagulazione all'intelletto comprensibile». Agli «orrori pseudosimbolisti», negli anni della maturità Mandel'štam opporrà la «metafora eraclitea» che permette lo scorrere di rappresentazioni verbali svincolate dalle leggi della successione temporale intesa come ordine cronologico bensì legate al loro fondamento spazio-temporale. Il poeta russo citerà per esteso, nel Discorso su Dante, i versi 25-42 del XXVI canto dell'Inferno Il suo commento è rivelatore: «Dante  talvolta abile nel descrivere un fenomeno in modo tale che assolutamente nulla resta di esso. Per fare questo egli fa uso di un espediente che dovrei chiamare metafora eraclitea, mediante la quale enfatizza con forza la fluidità del fenomeno e con tale rigoglio lo cancella del tutto in modo che la contemplazione diretta, dopo che la metafora ha svolto il suo lavoro, non lascia nulla in vita.

Ho già avuto occasione più volte di notare che gli espedienti metaforici di Dante superano le nostre nozioni di composizione, poiché le nostre teorie critiche, inceppate dal pensiero sintattico, sono impotenti dinanzi a lui».5

Ne Il mattino dell'acmeismo (scritto nel 1913) Mandel'štam parla della «straordinaria densità della parola poetica, la quale non è un semplice segno che esprime un certo significato, bensì l'unione di molti elementi che ne costituiscono il contenuto». Si tratta di un concetto totalmente nuovo della parola, Mandel'štam guarda avidamente al futuro, comprende tutti i limiti delle elaborazioni teoriche che i nuovi critici formalisti stanno elaborando, e va oltre, diventa egli stesso un teorico e formula una teoria completamente nuova. Ma i tempi non erano adatti per una assimilazione attiva delle nuove idee. Infatti, Ejchenbaum negava agli acmeisti il rango di teorici, era scettico sul ruolo dell'acmeismo pur riconoscendo il valore della Achmatova e di Mandel'štam. su questa posizione si attestano anche Jakobson, Sklovskij, Osip Brik, Tynianov. Su una posizione di appoggio agli acmeisti si  schierano invece Zirmunskij, Tomasevskj e Vinogradov. Resta il fatto che l'acmeismo pur rappresentando un nuovo sviluppo di poetica rispetto al simbolismo, costituisce il vertice dell'autocoscienza poetica raggiunto dai migliori poeti della nuova generazione: Mandel'štam, l'Achmatova e Nikolaj Gumilëv. Quello di Mandel'štam è un lavoro all'interno della lingua russa, in favore della sua «ellenizzazione», come amava definirlo. Il lavoro degli acmeisti ha per i contemporanei un profilo di inattualità, la loro poesia non è diretta verso alcun interlocutore concreto posto nel tempo e nello spazio, né ricercano il favore del pubblico. La parola poetica è ormai svincolata da ogni committenza, da ogni mandato sociale, è costretta a vivere per se stessa. La «densità» di cui parla   Mandel'štam è affollamento di tempo e spazio; il tempo e lo spazio intervengono per rallentare il verso, renderlo vischioso, torpido, quasi solido, operano come rinforzo alla forza di gravità. Lo sfondo delle poesie degli anni venti è sempre la città: Mosca o Pietroburgo, Roma, Ferrara, Venezia; «Raffaello è ospite di Rembrandt: / come Mozart ha perso la testa per Mosca». non ci sono soltanto personaggi brulicano parvenze e reminiscenze, atmosfere, c'è fame di tempo, di spazio («l'asmatica vastità», «lo spazio asessuato»), di libertà e di estraneità al proprio tempo di questa poesia diventa ogni giorno più evidente agli occhi della polizia segreta. I funzionari del regime comunista lo prendono ben presto di mira. Scrive Efim Etkind: «Nelle condizioni della decadente società borghese, del capitalismo in putrefazione... l'acmeismo ha espresso una piena e incondizionata riconciliazione con la realtà capitalista... è sete di godersi tranquillamente la vita... apologia del parassitismo estetizzante... assaporamento estetizzante dell'aspetto esteriore degli oggetti». Anche l'Achmatova viene bollata: «per contenuto intellettuale e per problematica è estremamente povera». Ed infine: «Nell'opera degli acmeisti si manifesta la psicologia parassitaria dell'epoca borghese della putrefazione del capitalismo e la paura delle classi dominanti di fronte alla crescita dello spirito rivoluzionario del proletariato». 6   

Anche la poesia astorica ed esotica di Gumilëv doveva apparire agli occhi sospettosi della polizia segreta altamente pericolosa. Così Chodasevic descrive Gumilëv  nel 1920: «Fu organizzato un ballo all'Istituto di Storia delle Arti. Ricordo le immense sale assiderate del palazzo Zubov in piazza Isaakievskaja, la misera illuminazione, il vapore condensato dal gelo... C'è tutta la Pietroburgo letteraria e artistica. La musica rimbomba. La gente si muove nella semioscurità, si accalca attorno ai camini. Mio Dio com'è vestita questa folla! Stivali di feltro, maglioni, logore pellicce... Ed ecco... apparire Gumilëv al braccio di una signora tremante dal freddo vestita di un abito nero dalla profonda scollatura. Dritto e altezzoso, in frac, Gumilëv attraversa le sale. Trema anche lui dal freddo, ma distribuisce saluti e inchini con solenne affabilità. Conversa con i conoscenti in tono mondano. Sta giocando al ballo. Tutto il suo aspetto dice:  "Non è successo nulla. La rivoluzione? Non ne so niente".7  Questi versi di Gumilëv: «Io sono colui che dorme... voi, voi siete solo un pallido riflesso del sogno», sembrano un'epigrafe della sua posizione nel mondo: dormire nell'epoca della rivoluzione bolscevica era non solo un terribile  errore, ma una provocazione intollerabile.

 

«Due mele di sonno ha il secolo-sovrano / e stupenda bocca d'argilla». Sono versi di Mandel'štam, che suonano come una epigrafe al secolo nuovo che si annunciava con la vittoria della rivoluzione bolscevica.

 

Da un lato, Mandel'štam conduce una incessante guerriglia contro il «laboratorio di impagliatura» del simbolismo; «le immagini sono sventrate come animali da impagliare, e imbottite di un contenuto a loro estraneo... Una spaventosa controdanza di "corrispondenze", che ammiccano l'una all'altra. Un eterno ammiccamento. Neanche una parola chiara, soltanto allusioni, sottintesi. La rosa rimanda alla fanciulla, la fanciulla alla rosa. Nessuno vuol essere se stesso...»; (9) dall'altro, conduce una schermaglia intellettuale avverso il linguaggio transmentale e i futuristi. Il termine «zaum'» è un composto di «za» "dall'altra parte di" e «um», "ragione", e suggeriva non soltanto qualcosa «privo di significato» o «incomprensibile». Kručënych, uno degli artefici di questa pratica poetica, voleva creare un sistema di segni che fosse apprensibile da facoltà diverse della «ragione» mediante l'intuizione che consentirebbe al poeta di scoprire analogie tra gli oggetti che il senso comune e la logica della sintassi non sarebbero mai stati in grado di comprendere. Per Mandel'štam il futurismo era nato da una costola del simbolismo russo, ad esso il poeta russo rimproverava la mancanza di una teoria della parola poetica e del linguaggio poetico, una critica radicale a quest'ultimo avrebbe implicato una confutazione della poetica dei futuristi. Con l'eccezione di Chlébnikov, la strada per i futuristi era tutta in salita. Mandel'štam propone di «considerare la parola come una immagine, cioè una rappresentazione verbale... un complesso insieme di fenomeni, un nesso, un sistema (...) unta tale concezione delle rappresentazioni verbali.. permette di sognare la creazione di una poetica organica di carattere non normativo ma biologico, che distrugga ilo canone in nome del moto interiore dell'organismo e che possieda tutte le caratteristiche della scienza biologica».

La parola, nella concezione di Mandel'štam, non può essere disgiunta dal tempo e dallo spazio. Uno storicismo tutto peculiare quello di Mandel'štam nel quale «tutte le epoche coesistono», impiantato saldamente in una concezione sincronica della storia, una poetica semantica «incentrata sull'uomo, non un uomo completamente schiacciato dagli orrori pseudo-simbolisti, bensì un padrone in casa sua, su un autentico simbolismo, circondato da simboli, cioè da un armamentario che abbia come suoi organi le rappresentazioni verbali». Nel Discorso su Dante Mandel'štam afferma che «ogni unità del linguaggio poetico - sia esso un verso, una stanza, o un'intera composizione - deve essere considerata come una singola parola. Quando noi pronunciamo, per esempio, la parola "sole", non presentiamo un significato già pronto - il che sarebbe un aborto semantico - noi stiamo vivendo attraverso un peculiare ciclo. Ogni parola è un fascio ed il significato si stacca da esso in varie direzioni senza dirigersi verso alcun punto ufficiale. Quando noi pronunciamo "sole"  come se facessimo un immenso viaggio, divenuto per noi così familiare che procediamo nel nostro sonno. Ciò che distingue la poesia dal linguaggio automatico è che essa ci scuote e ci sveglia nel bel mezzo di una parola. Allora la parola diventa molto più lunga di quanto pensassimo, e ci ricordiamo che parlare significa essere sempre sulla strada».

Questa citazione è utile per introdurci nella mitopoiesi del mondo Mandel'štamiano dove tutte le metafore sono connesse da una fitta rete mitopoietica e le relazioni tra di esse sono fondate su un rigoroso rapporto di inerenza. Per il poeta russo, una poesia nasce soltanto quando il processo di accumulo di materiale metaforico e dei nessi relazionali soggiacenti appare finalmente in superficie. Ad esempio, quando Mandel'štam scrive:

 

A Pietroburgo ci incontreremo ancora

come se ci avessimo seppellito il sole,

e la beata parola senza senso

pronunceremo per la prima volta.

 

Una lunghissima circumnavigazione della Russia avviene nei primi due versi; un movimento di andata (da Pietroburgo) e di ritorno (dal Sud, luogo del sole). Si ha qui la rappresentazione di un concetto del tempo simultaneo e sincronico. Il verso è denso di tempo, intriso di passato e di futuro; la poesia è dominata dalla legge della retrattilità del tempo e dello spazio in un punto, nel punto dove può essere pronunciata «la beata parola senza senso», il punto dal quale promana la luce, come nel quadro tanto ammirato da Mandel'štam, «Il figliol prodigo» di Rembrandt, dove la luce rossastra si diffonde dal centro irradiandosi in tute le direzioni. Anche la poesia citata è forgiata come un quadro tridimensionale dove entrano il tempo, lo spazio e la luce che esplode nella potente metafora del sole seppellito. Questa quartina presenta, come dice Mandel'štam, una «forma cristallografica, cioè un corpo», «la poesia - annota Mandel'štam - in senso stretto (è) un corpo stereometrico, un integrale sviluppo di un tema cristallografico». Il poeta russo utilizza questo concetto per illuminare la struttura interna della Divina Commedia, intesa come «una singola unificata e indivisibile stanza». Nello steso saggio Mandel'štam si lamenta di come la mancanza della sia pur vaga nozione di cristallografia «ed ignoranza in questo campo come in molti altri» lo privi del piacere di afferrare la vera struttura della Commedia. Ne Le mie memorie Nadezda, la moglie di Mandel'štam, narra un aneddoto che illumina la concezione che il marito aveva dell'opera dantesca. Siamo nel 1933 sulle rive del Mar Nero, «a Koktebel' tutti avevano la mania di raccogliere i ciottoli che la risacca spingeva sulla spiaggia. Le pietre iù apprezzate erano le corniole. A pranzo tutti si mostravano a vicenda i loro tesori, e anch'io mi lasciai prendere dalla passione comune. Mandel'štam mi seguiva in silenzio lungo la riva e si intestardiva a raccogliere certe pietre strane, ignorando le corniole e gli altri tesori della spiaggia di Koktebel'. "Gettale", gli dicevo, "che te ne fai di quelle?" Ma lui non mi ascoltava... Un bel giorno riuscimmo ad avere della carta: la padrona della casa di riposo e il direttore di un negozio "riservato" ci procurarono una risma di fogli grigi. Avere la carta è sempre stato un miracolo  che per noi: non se ne trovava, e ancora oggi è difficile trovarla.  Mandel'štam cominciò subito a dettarmi il  Discorso su Dante. Quando arrivò al punto in cui "chiede apertamente consiglio ai ciottoli di Koktebel' per penetrare la struttura della Commedia mi rimproverò: "E tu che dicevi, gettali!... Ora hai capito a cosa mi servivano?».

Altrove Mandel'štam parla del «genio stereometrico» delle api che costruiscono alveari sfaccettati e straordinariamente complessi che ubbidiscono ad una sola elementare, semplicissima legge formale. Ecco perché «le similitudini di Dante non sono mai descrittive ma rappresentative». «Come in ogni vera poesia, il pensiero di Dante nelle immagini è perseguito con l'aiuto di una caratteristica del materiale poetico che io propongo di chiamare la trasformabilità o convertibilità di esso». Questa intuizione porta il poeta russo all'interno del «laboratorio di Dante»; e chiosa: «nella poesia europea coloro che sono più lontani dal metodo dantesco... ed in posizione opposta sono precisamente i cosiddetti parnassiani, cioè Heredia, Leconte d Lisle. Baudelaire è molto più vicino a Dante. Ancora più vicino è Verlaine, e più di tutti Arthur Rimbaud».

Altrove Mandel'štam accenna ad una «peculiarità della siche di Dante: il suo timore di risposte dirette, dovute forse alla situazione politica di quel complicato, pericoloso e criminale secolo. Mentre l'intera Divina Commedia... è una serie di domande e risposte, ogni pronunzia di Dante è letteralmente estorta mediante l'ostetricia di Virgilio o con l'ausilio della nutrice Beatrice, e così via». È questo un accenno fin troppo scoperto alla propria poetica, al proprio metodo di composizione che preannuncia senza proclamare, che accumula indizi senza svelare il cuore della poesia, che utilizza le digressioni e le divagazioni per rientrare perentoriamente ed improvvisamente nella corsia centrale della poesia, per divergere subito in direzioni impreviste. Tutta questa arte della complicazione il poeta russo l'aveva ben studiata in Innokentij Annenskij, Georgij Ivanov ed in Baratinskij. Il risultato finale è di splendida esemplare chiarezza. Girare attorno all'oggetto significa poterlo ritrarre meglio, più compiutamente, con sguardo stereometrico e visione storica. Cogliere un oggetto significava rappresentarlo nel suo incessante mutamento, non come mero susseguirsi di fenomeni ma come susseguirsi di essenze che si saldano l'una nel'altra. Il pensiero della struttura della Commedia deve aver assillato il poeta russo per molti lunghi anni. Come era possibile eseguire nella poesia del primo Novecento un'operazione di tale sbalorditiva audacia? Quali particolarità costruttive mettere in opera? A quali arcate, a quali ponti porre mano? Era un'impresa di disperata audacia. Era la poesia russa pronta ad un tale compito? Tutta l'esistenza del poeta è stata spesa nel tentativo di costruire con la lingua russa un'opera di stampo dantesco.

«È impensabile leggere i canti di Dante senza indirizzarli in direzione del giorno presente. Furono creati per questo scopo. Essi sono missili per catturare il futuro. Chiedono un commentario al futuro. Il tempo, per Dante, è il contenuto della storia intesa come singolo atto sincronico... Dante è un antimodernista. La sua contemporaneità è inesauribile, incommensurabile, infinita. Ecco perché la lingua di Odisseo, rigonfia come la lente di un magnifico cristallo, può esser applicata alla guerra dei Greci e dei Persiani come anche alla scoperta dell'America di Colombo, agli audaci esperimenti di Paracelso e all'impero mondiale di Carlo V. Il canto XXVI, dedicato ad Odisseo e a Diomede, è una splendida introduzione alla anatomia dell'occhio di Dante così naturalmente predisposto per un solo scopo: la rivelazione della struttura del futuro. Dante possedeva l'orizzonte visivo degli uccelli da preda, non adatto a mettere a fuoco a corta distanza: troppo ampio era il campo entro cui cacciava... Per noi stranieri è difficile penetrare l'ultimo segreto di questa poesia. Non è affar nostro giudicare; l'ultima parola non può esser la nostra. Penso che è precisamente qui che troviamo quell'accattivante duttilità della lingua italiana che soltanto l'orecchio di un italiano di nascita può pienamente afferrare. Qui sto citando Marina Cvetaeva, la quale una volta accennò alla "duttilità della lingua russa". Se prestate attenzione ai movimenti della bocca di una persona che recita distintamente, sembrerà che stia dando una lezione a dei sordomuti; cioè, questi opera come se presumesse di essere capito anche senza ilo suono, articolando ogni vocale con pedagogica ovvietà. Ed è sufficiente ascoltare il suono dl Canto XXVI. Direi che in questo canto le vocali sono agitate, sussultanti».

L'attenzione di Mandel'štam per la fonetica era subordinata al senso dei tropi e al potente ancoraggio della sintassi. Polemizzando con i simbolisti soleva ripetere che non bisognava darsi pensiero per la «musica dei versi», «la fonologia verrà da sola».

«In apparenza le sue poesie non sembravano tanto diverse da quelle dei simbolisti russi che dominavano la scena letteraria», ha notato acutamente Brodskij. Il pentametro giambico usato da Mandel'štam è il parente stretto dell'esametro latino; questa non fu una scelta casuale ma il consapevole strumento scelto dal poeta per trasmettere l'enorme ricchezza accumlata dalla tradizione della letteratura universale e, in primo luogo, dalla poesia greca e latina. Uno strumento, dunque, per convogliare il «tempo» in una forma contratta, plastica; un mezzo per dialogare con la cultura modiale, la solenne «architrave» che permette la costruzione di una «acropoli», d'un «portico» greco, d'una «cattedrale gotica». La poesia era considerata da  Mandel'štam come un «acme», il punto più alto di qualcosa in cui etica ed estetica coincidevano, si condensavano in un preciso momento della cultura di un popolo e della sua lingua. Di qui l'intransigenza del poeta russo dinanzi al «tempo» e al «potere». («Col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili»; «No, mai di nessuno fui contemporaneo»).

 

«Invidia, o Poesia, la scienza della cristallografia, morditi le unghie nell'ira e nell'impotenza: perché è risaputo che le combinazioni matematiche richieste per descrivere il processo della formazione dei cristalli non sono derivabili dallo spazio tridimensionale. A te, comunque, è negato quell'elementare rispetto di cui gode ogni particola di cristallo universale. Dante ed i suoi contemporanei non conoscono il tempo geologico. L'orologio paleontologico era ad essi sconosciuto: l'orologio del carbone, l'orologio dell'infusorio calcare, i granulosi, renosi stratificati orologi».10

Queste osservazioni non sono casuali, nella lettura della Commedia dantesca Mandel'štam riflette su alcuni aspetti della propria poesia così fitta di riferimenti alle trasformazioni, alle stratificazioni tettoniche della «terra», considerata alla stregua di un organismo vivente e parlante.

Nella poesia titolata «Ode d'ardesia», che è del 1923, troveremo il «cammino siliceo», il «linguaggio della selce e dell'aria / selce con acqua, anello con fero di cavallo, / sul soffice schisto delle nuvole...»; «notte densa», «stratificarsi poderoso di selci»; «uno strato di buio, uno di luce, / e voglio infilare le dita / nel cammino siliceo dell'antico canto». Anche la storia della cultura, per Mandel'štam prosegue la storia delle stratificazioni tettoniche delle epoche della vita sulla terra: la poesia risuona «col canto delle aonidi», quando le lancette dell'orologio paleontologico segnano l'ora del risveglio. Ma, nell'epoca «senza tempo», quella che lo ha privato per sempre della «mia biografia», l'epoca nella quale «hanno spezzato le ali alle libellule, / le hanno torturate con piccoli martelli (mentre) i bambini giocano agli aliossi con vertebre di animali morti».

È significativo quello che scrive un giovane critico russo morto a soli 24 anni, Lev Lunc il quale dà giudizi positivi su Mandel’štam e Gumilëv: «Mandel’štam è un innovatore. Le sue poesie non mi piacciono, quella combinazione logico-assurda di frasi eterogenee non mi piace ma mi affascina. Anche se scrive poesie che si possono leggere indifferentemente, partendo dall’inizio, dal fondo o dalla metà, Mandel’štam ha davvero scoperto nel verso russo possibilità inaspettate. Sa maneggiare con straordinaria maestria, confondere sparpagliare ogni sorta di incastri verbali e di masse sonore. È proprio sulle sue poesie, non in quelle dei futuristi, che il suono trionfa sul significato; nelle sue poesie, non in quelle di Andrej Belyj, il verso è veramente musicale. Una musica raggiunta non attraverso la “sinfonia”, o le rozze rime interne che saltano all’occhio, ma attraverso una combinazione di suoni forse priva di senso, ma bellissima. (…) Gumilëv e Mandel’štam sono due grandi poeti. Ma fossero anche il doppio più geniali, non potrebbero ugualmente trovare scuse per aver fondato una scuola poetica già morta».

   

1 Osip Mandel'štam Sulla natura della parola

2 Efim Etkind in La crisi del simbolismo e l'acmeismo citato in Storia della letteratura russa. Il Novecento Einaudi, 1989

3 Bergson Le rire 1900

4 Osip Mandel'štam Sulla natura della parola

5 Osip Mandel'štam Sulla natura della parola

6 E. Etkind op. cit.

7 Chodasevic Necropoli Milano, Guanda, p. 100

8 Osip Mandel'štam Discorso su Dante

9 Osip Mandel'štam Sulla natura della parola

10 Osip Mandel'štam Discorso su Dante EdiLet, Roma, 2014

 

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LA SCOMPARSA DELL’INTERLOCUTORE

Osip Mandel'štam, Wystan Auden

 

Nel suo libro di memorie, Nadezda, la moglie del poeta russo Osip Mandel'štam, mette sulla carta alcune riflessioni del marito straordinariamente importanti per la poesia del Novecento. Parlando di alcune poesie del marito, scrive che «Mandel'štam il quale non aveva mai mosso un passo per venire incontro ai suoi lettori, che non si preoccupava mai d’essere capito, considerando ogni suo ascoltatore e interlocutore alla sua stessa altezza e che perciò non diluiva e non semplificava i suoi pensieri, ha reso proprio questi versi accessibili a tutti, facili, aperti». Il problema posto da Mandel'štam con grande chiarezza e perspicuità è il seguente: ogni grande poesia conquisterà i propri lettori nell’avvenire e il poeta non si deve affaticare a ricercare una facile riconoscibilità ed un facile applauso presso i contemporanei. E in un saggio giovanile intitolato «Sull’interlocutore» (pubblicato in traduzione italiana sul n. 1 di «Poiesis», 1993), il poeta russo indicava nell’interlocutore il problema centrale della poesia del Novecento. La poesia moderna aveva, per il poeta russo, perduto il proprio «interlocutore» (concetto da non identificare e appiattire con quello sociologico di «pubblico»), e questa perdita avrebbe condotto la poesia moderna nel vicolo cieco della «scatola acustica», nel «laboratorio per impagliature» della tarda poesia del «simbolismo». Rivolgendosi alla «scatola acustica» dell’ascoltatore o del lettore per edificarlo, sedurlo, corteggiarlo con la narcisistica esposizione della propria musicalità, la voce del poeta simbolista nasce, per Mandel'štam, già sedotta, radicalmente impotente ad esprimere il «messaggio» ultimativo che i tempi richiedevano alla poesia. Per il poeta russo l’eclisse dell’«interlocutore» coinvolge il problema della destinazione finale della poesia; per il poeta acmeista non c’è destinazione senza destinatario, come non v’è destinatario senza interlocutore, essendo questi l’obiettivo ultimo, e quindi più importante, del proprio lavoro di poeta. Questo nesso problematico, che il poeta russo coglie con grandissima chiarezza già negli anni dieci, è di grandissima importanza per cogliere gli snodi fondamentali della poesia del Novecento. E comunque, un esito significativo della crisi dell’interlocutore è dato appunto da un certo tipo di arte, diremmo noi oggi, autoreferenziale, che si rivolge alla «scatola acustica» (dizione di Mandel'štam) del fruitore o del lettore (inteso in senso sociologico). Non si capisce nulla della poesia di Mandel'štam se non si tiene ben fermo il criterio orientativo della sua poesia: la ricerca di un «nuovo» interlocutore e di un «nuovo» «sistema architettonico» della forma-poesia. Ecco qui spiegato il grande interesse che sul poeta russo esercitò l’architettura, da quella semplice ed elementare dell’alveare delle api, fino alla complessità delle facciate neoclassiche di San Pietroburgo, fino allo studio della stratificazione tettonica dei «sassi» trovati a Koktebel, sulle rive del mar Nero, nei tardi anni Trenta, che gli dischiuderanno i segreti della «costruzione» della Commedia dantesca. La ricerca di una nuova configurazione del sistema simbolico coincide con la presa d’atto della scomparsa del mondo in cui il poeta era ancora inserito in una società dove la comunicabilità del suo «messaggio» non era affatto posta in predicato. Insomma, alla fin fine un problema apparentemente secondario ed astruso come quello dell’«interlocutore» coinvolge e trascina con sé quello ben più complicato della nuova configurazione del sistema simbolico in poesia. 

È sintomatico che, dall’altra parte dell’Atlantico, un poeta tormentato ed intellettuale come Auden ci abbia lasciato una profonda meditazione sulla «crisi» dei valori del nostro tempo con il proposito di un’arte che sconfigga l’angoscia e la dissoluzione morale della nuova civiltà di massa. Il poeta americano comprende come l’artista simbolista sia impotente a percepire e a rappresentare il «reale» nella sua nuova configurazione; la ricerca di un «nuovo» pubblico per la propria poesia coincide con l’abbandono di una poesia che si risolva, mallarmeanamente, in gioco fonico, in seduzione musicale. L’ultima fase del simbolismo viene da Auden ripudiata proprio per il suo affidarsi unicamente alla magia della parola poetica. I procedimenti simbolici interni vengono esorcizzati a strumenti retorici consapevoli in vista di una «clarté» cartesiana, per una «nuova» comprensibilità di una poesia impegnata sul piano dei valori, una poesia concreta ed oggettiva. Nel 1938 Auden scrive nella Introduzione a «The Oxford Book of Light Verse»: «Egli (l’artista) vuol dire la verità, ma vuole anche divertire, e il tipo di verità che egli dice (…) dipende in parte dallo stato della intera società (…) Più una società è instabile, e più l’artista è distaccato da essa, più chiara è la sua visione, ma più difficile è per lui comunicarla agli altri. Nei più grandi periodi della letteratura inglese, come l’elisabettiano, la tensione era al suo apice. L’artista era ancora sufficientemente inserito nella vita della sua epoca da sentirsi accomunato al proprio pubblico, e allo stesso tempo la società era in stato sufficientemente fluido, perché le convinzioni generali potessero gravare sulla visione dell’artista». Dietro e sotto la sicurezza del tegumento formale dei suoi versi viene dissimulata la forma-merce dell’opera d’arte e la nuova configurazione di massa del pubblico.Quando Auden scrive: «Here am I, here are you: / But what does it mean? What are we going to do?», intende appunto la crisi di identità del poeta e del pubblico. Il problema dell’«interlocutore» è nella presa d’atto, semplice e disarmante, «che cosa stiamo facendo?». A chi scrive il poeta? «Io» e «Tu» sono l’uno di fronte all’altro, irriconoscibili, separati dalla impossibilità di una comprensione reciproca. E qui sorge il problema che assillerà Auden lungo tutta la sua esistenza: quale poesia scrivere? È ancora possibile scrivere poesia? Chi è il destinatario della mia poesia?

 

Private faces in public places

Are wiser and nicer

Than public faces in private places

 

(Facce private in luoghi pubblici / Sono più saggi e gradevoli / di face pubbliche in luoghi private), scriverà in una dedica in versi a Stephen Spender. Auden risolverà la questione a modo suo, scrivendo per un largo pubblico, in termini però intelligibili soltanto ad uno più ristretto, in modo tale che quest’ultimo possa riconoscere «private faces in public places», piuttosto che scegliere la via contraria rischiando così di appiattire il pubblico ristretto sul livello della media comprensione del pubblico più vasto.

«The Orators» si può e si deve leggere seguendo questa impostazione problematica: ora il poema è intessuto di una miriade di allusioni cifrate, ora, invece, il poeta si inoltra nella illustrazione della crisi della propria epoca. Analogamente, in «Address for a Prize-Day» il poeta americano formula il tema dell’intera opera: «What do you think about England, this country of ours where nobody is well?». «You» intende alludere ai giovani delle «public schools»; viene impiegato il linguaggio di questi giovani messo in satira, con esiti demistificanti. Il «Tu» è un tu collettivo, l’«interlocutore» è il destinatario finale: la condanna della propria epoca.

 

 

 

SU UNA POESIA DI OSIP MANDEL'ŠTAM "Trovando un ferro di cavallo". 

 

 

Trovando un ferro di cavallo

 

Guardando il bosco diciamo:

ecco il legno delle navi, degli alberi maestri,

pini rosati

liberi fino in cima dal ruvido fardello,

a loro di gemere nella burrasca

solitarie conifere

nell’imbestialita aria non boschiva:

sotto il salato tallone del vento resiste l’archipendolo fissato alla tolda danzante.

 

E il navigatore dei mari nella sua smisurata ansia di spazio

trascinando per umidi solchi il fragile strumento del geometra

confronta l’attrazione del grembo terrestre

con lo scabro livello delle acque

 

E respirando l’odore

di lacrime di resina dal fasciame della nave,

ammirando le tavole

inchiodate, composte in paratie

non dal buon falegname di Betlemme, ma dall’altro

- il padre dei viaggi, l’amico dell’andar per mari –

diciamo:

anche loro stavano sulla terra,

scomoda come la spina dorsale di un asino,

per le cime dimenticando le radici,

dritti sul famoso crinale,

e vociavano sotto l’insipido acquazzone,

proponendo invano al cielo di scambiare con una manciata di sale

il loro carico prezioso.

 

Da dove cominciare?

tutto si incrina e oscilla.

L’aria trema di paragoni.

Nessuna parola vale più di un’altra,

la terra romba di metafore,

e bighe leggere

nei vistosi finimenti di uccelli in stormi densi per lo sforzo

finiscono in frantumi

a gara con gli sbuffanti beniamini degli ippodromi.

 

Tre volte benedetto chi porta un nome al suo canto:

adornata di un nome la canzone

vive più a lungo delle altre,

un nastro sulla fronte la fa eletta fra le compagne

salvandola dall’oblio, profumo troppo forte che stordisce

- foss’anche la prossimità del maschio

o il profumo della pelle di una bestia forte

o anche soltanto la fragranza della santoreggia sgualcita fra le mani.

L’aria sa essere scura come l’acqua, e ogni cosa vivente vi nuota dentro come un pesce

scuotendo con le pinna la sfera,

compatta, elastica, appena riscaldata,

cristallo dove girano ruote e scartano i cavalli,

umida terra-nera della Neera ogni notte di nuovo disossata

da forche tridenti, zappe, aratri.

L’aria è coinvolta non meno densamente della terra.

 

(traduzione di Serena Vitale)

 

Nel suo libro di memorie, Nadežda, la moglie del poeta russo Mandel'štam, mette sulla carta alcuni riflessioni del marito straordinariamente importanti per la poesia del Novecento. Parlando di alcune poesie del marito, scrive che «Mandel'štam il quale non aveva mai mosso un passo per venire incontro ai suoi lettori, che non si preoccupava mai d’essere capito, considerando ogni suo ascoltatore e interlocutore alla sua stessa altezza e che perciò non diluiva e non semplificava i suoi pensieri, ha reso proprio questi versi accessibili a tutti, facili, aperti». Il problema posto da Mandel'štam con grande chiarezza e perspicuità è il seguente: ogni grande poesia conquisterà i propri lettori nell’avvenire e il poeta non si deve affaticare a ricercare una facile riconoscibilità ed un facile applauso presso i contemporanei. E in un saggio giovanile intitolato «Sull’interlocutore» (pubblicato in traduzione italiana sul n. 1 di «Poiesis», 1993), il poeta russo indicava nell’interlocutore il problema centrale della poesia del novecento. 

La poesia moderna ha, per il poeta russo, perduto il proprio «interlocutore» (concetto da non identificare e appiattire con quello sociologico di «pubblico»), e questa perdita avrebbe condotto la poesia moderna nel vicolo cieco della «scatola acustica», nel «laboratorio per impagliature» della tarda poesia del «simbolismo». Rivolgendosi alla «scatola acustica» dell’ascoltatore o del lettore per edificarlo, sedurlo, corteggiarlo con la narcisistica esposizione della propria musicalità, la voce del poeta simbolista nasce, per Mandel'štam, già sedotta, radicalmente impotente ad esprimere il «messaggio» ultimativo che i tempi richiedevano alla poesia. Per il poeta russo l’eclisse dell’«interlocutore» coinvolge il problema della destinazione finale della poesia; per il poeta acmeista non c’è destinazione senza destinatario, come non v’è destinatario senza interlocutore, essendo questi l’obiettivo ultimo, e quindi più importante, del proprio lavoro di poeta. 

Questo nesso problematico, che il poeta russo coglie con grandissima chiarezza già negli anni dieci, è di grandissima importanza per cogliere gli snodi fondamentali della poesia del novecento. E comunque, un esito significativo della crisi dell’interlocutore è dato appunto da un certo tipo di arte, diremmo noi oggi, autoreferenziale, che si rivolge alla «scatola acustica» del fruitore o del lettore (inteso in senso sociologico). Non si capisce nulla della poesia di Mandel'štam se non si tiene ben fermo il criterio orientativo della sua poesia: la ricerca di un «nuovo» interlocutore e di un «nuovo» «sistema architettonico» della forma-poesia. Ecco qui spiegato il grande interesse che sul poeta russo esercitò l’architettura, da quella semplice ed elementare dell’alveare delle api, fino alla complessità delle facciate neoclassiche di San Pietroburgo, fino allo studio della stratificazione tettonica dei «sassi» trovati a Koktebel, sulle rive del mar Nero, nei tardi anni Trenta, che gli dischiuderanno i segreti della «costruzione» della Commedia dantesca. 

La ricerca di una nuova configurazione del sistema simbolico coincide con la presa d’atto della scomparsa del mondo in cui il poeta era ancora inserito in una società dove la comunicabilità del suo «messaggio» non era affatto posta in predicato. Insomma, alla fin fine un problema apparentemente secondario ed astruso come quello dell’«interlocutore» coinvolge e trascina con sé quello ben più complicato della nuova configurazione del sistema simbolico. È sintomatico che, dall’altra parte dell’Atlantico, un poeta tormentato ed intellettuale come Auden ci abbia lasciato una profonda meditazione sulla «crisi» dei valori del nostro tempo con il proposito di un’arte che sconfigga l’angoscia e la dissoluzione morale della nuova civiltà di massa. Il poeta americano comprende come l’artista simbolista sia impotente a percepire e a rappresentare il «reale» nella sua nuova configurazione; la ricerca di un «nuovo» pubblico per la propria poesia coincide con l’abbandono di una poesia che si risolva, mallarmeanamente, in gioco fonico, in seduzione musicale. L’ultima fase del simbolismo viene da Auden ripudiata proprio per il suo affidarsi unicamente alla magia della parola poetica. I procedimenti simbolici interni vengono esorcizzati a strumenti retorici consapevoli in vista di una «clarté» cartesiana, per una «nuova» comprensibilità di una poesia impegnata sul piano dei valori, una poesia concreta ed oggettiva. 

Nel 1938 Auden scrive nella Introduzione a «The Oxford Book of Light Verse»: «Egli (l’artista) vuol dire la verità, ma vuole anche divertire, e il tipo di verità che egli dice (…) dipende in parte dallo stato della intera società (…) Più una società è instabile, e più l’artista è distaccato da essa, più chiara è la sua visione, ma più difficile è per lui comunicarla agli altri. Nei più grandi periodi della letteratura inglese, come l’elisabettiano, la tensione era al suo apice. L’artista era ancora sufficientemente inserito nella vita della sua epoca da sentirsi accomunato al proprio pubblico, e allo stesso tempo la società era in stato sufficientemente fluido, perché le convinzioni generali potessero gravare sulla visione dell’artista».Dietro e sotto la sicurezza del tegumento formale dei suoi versi viene dissimulata la forma-merce dell’opera d’arte e la nuova configurazione di massa del pubblico.Quando Auden scrive: «Here am I, here are you: / But what does it mean? What are we going to do?», intende appunto la crisi di identità del poeta e del pubblico. Il problema dell’«interlocutore» è nella presa d’atto, semplice e disarmante, «che cosa stiamo facendo?». A chi scrive il poeta? «Io» e «Tu» sono l’uno di fronte all’altro, irriconoscibili, separati dalla impossibilità di una comprensione reciproca. E qui sorge il problema che assillerà Auden lungo tutta la sua esistenza: quale poesia scrivere? È ancora possibile scrivere poesia? Chi è il destinatario della mia poesia?

 

Private faces in public places

Are wiser and nicer

Than public faces in private places

 

(Facce private in luoghi pubblici / Sono più saggi e gradevoli / di face pubbliche in luoghi private), scriverà in una dedica in versi a Stephen Spender. Auden risolverà la questione a modo suo, scrivendo per un largo pubblico, in termini però intelligibili soltanto ad uno più ristretto, in modo tale che quest’ultimo possa riconoscere «private faces in public places», piuttosto che scegliere la via contraria rischiando così di appiattire il pubblico ristretto sul livello della media comprensione del pubblico più vasto.

«The Orators» si può e si deve leggere seguendo questa impostazione problematica: ora il poema è intessuto di una miriade di allusioni cifrate, ora, invece, il poeta si inoltra nella illustrazione della crisi della propria epoca. Analogamente, in «Address for a Prize-Day» il poeta americano formula il tema dell’intera opera: «What do you think about England, this country of ours where nobody is well?». «You» intende alludere ai giovani delle «public schools»; viene impiegato il linguaggio di questi giovani messo in satira, con esiti demistificanti. Il «Tu» è un tu collettivo, l’«interlocutore» è il destinatario finale: la condanna della propria epoca.

 

La lettura di una poesia di Mandel'štam pone alcuni problemi. Un primo appunto:  è una lettura «tridimensionale» di un mondo «tridimensionale», l’io poetante si è spostato e adesso coincide con il punto di vista del lettore che «guarda» la poesia. L’inizio è quindi un «noi» (l’autore e il lettore) retto (anche nel testo russo) da un gerundio, ma il «guardare» è l’inizio di una azione, è un «dire»: « ecco il legno delle navi, degli alberi maestri,/ pini rosati / liberi fino in cima dal ruvido fardello», e un agire: voglio dire che il nuovo concetto di «metafora tridimensionale» e di «discorso poetico» che è costruito sul mondo è tale se rispetta la tridimensionalità della Storia degli uomini. Le immagini sono intrecciate le une con le altre e compenetrate (come un meccanismo di scatole cinesi) indissolubilmente con un potentissimo effetto moltiplicatore dell’efficacia complessiva del testo. « il navigatore dei mari» è, appunto Ulisse, l’iniziatore della civiltà tecnologica munito del « fragile strumento del geometra» etc. Come si vede, la poesia di Mandel'štam cresce uno strato sopra l’altro, ha una struttura tettonica, è materia che preme su altra materia.

 

 

 

Osip Emil’evic Mandel'štam; «I lupi e il rumore del tempo», Biblioteca dei Leoni, LCE edizioni, 12 euro, 2013

È uscita in questi giorni una egregia traduzione dall'inglese ad opera di Paolo Ruffilli delle poesie di quello che, a detta di Brodskij, è stato il più grande poeta russo del Novecento: Osip Emil’evic Mandel'štam (1891-1938); «I lupi e il rumore del tempo», (Biblioteca dei Leoni, LCE edizioni, 12 euro), questo è il titolo scelto da Ruffilli per l'antologia, che riprende un titolo di una delle più belle raccolte del poeta russo. Non si sottolineerà mai abbastanza l'importanza della poesia di Mandel'štam per la poesia del Novecento, il suo andare «contropelo rispetto al mondo», la sua avversione viscerale, dopo un primo momento di moderato apprezzamento, a quella nuova forma di barbarie rappresentata dal bolscevismo. Nel 1911 aderisce alla «Gilda dei poeti», fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij. Tutta la sua battaglia culturale si concentrò nella nascita dell'acmeismo del quale redasse il primo manifesto e nella polemica letteraria e culturale contro la poesia simbolista, di qui le critiche indirizzate al più grande rappresentante della poesia russa del tempo: Aleksandr Blok e a Konstantin Bal'mont, il poeta più colto e prolifico del tempo che possedeva a menadito le letterature di più di dieci lingue europee.

Passeggiando sulle sponde del mar Nero il poeta russo raccoglie delle pietre, ne studia le striature, i differenti colori dei materiali sovrapposti all'interno, riflette sugli insetti conservati per milioni di anni nell'ambra, comprende che la poesia deve in qualche modo riflettere, dentro di sé, nella sua forma-interna, la stratificazione tettonica delle pietre raccolte in riva al mare, giunge così d'un colpo alla concezione di una poesia «tridimensionale». Il nocciolo della novità apportata da Mandel'štam alla poesia del Novecento si può riassumere così: la poesia abita necessariamente il mondo tridimensionale e la chiave per rappresentare questo concetto in poesia è la metafora tridimensionale attraverso la quale gli oggetti vengono ad essere configurati all'interno della curvatura dello spazio e del tempo. Quindi, non più una poesia, come quella simbolista (sostanzialmente bidimensionale), che si basava sulla scissione tra i due «mondi», quello visibile e quello invisibile (simbolico), ma una poesia che fosse interamente terrestre, interamente simbolica perché interamente configurata nello spazio e nel tempo; di qui l'enfasi con cui il poeta russo accennava alla «polvere dei secoli» che secondo la sua concezione la poesia doveva possedere, quella aderenza al significato per cui parlava spesso di «poesia significazionista» da ottenere attraverso una massima organizzazione della proposizione versale e della ottimizzazione delle risorse linguistiche all'interno di un ordine architetturale spazio temporale (di qui l'ammirazione del poeta russo per le cattedrali gotiche che, con gli acuminati pinnacoli, sembrano slanciarsi nel cielo); seppe acutamente intuire l'importanza che hanno la successione e la composizione delle strofe nella poesia moderna. Mandel'štam amava l'Italia, leggeva la Commedia di Dante in italiano (infatti si porterà una copia della Commedia nel lager dove Stalin lo confinò e dove trovò la morte nel 1938), apprezzava le straordinarie qualità musicali dell'ottava ariostesca, la canzonetta napoletana, ma apprezzava anche la poesia del più grande poeta dell'avanguardia del suo tempo Velemir Chlébnikov,  le poesie per bambini, di cui presto uscirà per EdiLet di Roma la traduzione di dieci straordinarie composizioni dedicate ai bambini, apprezzava la poesia di Pasternak, di Anna Achmatova, di Gumilëv, della Zvetaeva di Chodasevich. Insomma, con Mandel'štam siamo davanti a un poeta e un intellettuale tra i più lucidi, complessi e intransigenti della poesia del Novecento che si è battuto con tutte le sue forze per una concezione antropocentrica dell'arte e della poesia in particolare: porre la poesia al vertice della dimensione umana nel cosmo e nella Storia. Ma poi sappiamo come è andata a finire la questione della centralità della poesia del Novecento, diventata sempre più marginale e periferica, tra le attività umane, anzi, una attività, come scrisse Montale nel discorso tenuto per il conferimento del Nobel a Stoccolma nel 1980: «inutile». Non era certo questo il concetto che  Mandel'štam aveva della poesia.

 

Odio la luce 

 

Odio la luce delle stelle uniformi. 

Salve mio vecchio delirio, 

slancio di torre gotica al cielo! 

Pietra, sii come un merletto 

e diventa, tu, ragnatela. 

Ferisci con un ago sottile

 il petto vuoto del cielo! 

Verrà il mio turno, lo so, 

e sento aprirsi le ali. 

Ma dove mirando cadrà 

la freccia del vivo pensiero? 

Conclusi il tempo e la strada, 

potrò ritornare dov’ero: 

ma là non riesco ad amare 

e qua del mio amore ho timore. 

(1912)