L’aporia del presente nella poesia di Mauro Pierno e di Donatella Costantina Giancaspero – L’ingresso del fattore T nella poesia della nuova ontologia estetica – Le parole oscurate di papa Francesco – Riflessione sulla poesia di Gino Rago, Poesie di Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa
Kurt Perschke, Progetto di area urbana

 

Giorgio Linguaglossa

 

22 dicembre 2017 alle 11:02

 

 Nell’edizione serale del TG1, la frase di Papa Francesco indirizzata contro i «complotti» è sparita: “«Riformare la Curia è come spolverare la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti» diceva monsignor De Mérode; e Francesco ieri ha ripetuto quella frase. Giunto al suo quinto anno di lavoro sulle riforme e al suo quinto discorso per gli auguri natalizi ai collaboratori romani, il papa spiega che «una Curia chiusa in sé stessa sarebbe condannata all’autodistruzione». è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti”. Ebbene, questa frase è stata “oscurata”.

 

È incredibile, adesso siamo arrivati addirittura a CENSURARE le frasi del papa che non riescono gradite alle orecchie dei mercanti di schiavi dei Padroni e del conformismo mediatico più spregiudicato. Voglio proprio vedere se di questa frase c’è traccia nei quotidiani di oggi.

 

Parafrasando la frase che oggi Papa Francesco ha pronunciato in Vaticano:

 

Voler fare pulizia nella poesia italiana è come voler togliere la polvere dalla Sfinge con uno spazzolino da denti.

 

*

Lucio Mayoor Tosi


Lungo il viale del tempo

– oh, grazie! Che immagine romantica.

 

… dove nascono ad aprile le cavallette
e a giugno le prime aragoste

dentro la scatola bianca dei souvenir,
per un soffio, il forte vento fa tremare
le statue sui basamenti.

Sì, è scritto nell’articolo di una rivista letteraria:

“Nella realtà inquieta dei poeti, tutte le cose
sono immense, o infinitamente piccole”
e
“L’anello grigio del secolo scorso
potrebbe ustionare chi lo porta al dito. Farlo piangere”.

– Oh, Il canto silenzioso delle lumache!

L’oasi K2 quando arrivano rifornimenti e libagioni!
Le prime Candies Blue alla frutta danese!
Il bel tramonto su Baudelaire!

A pagina chiusa, il libro narra di noi
nel Mausoleo del Parlamento.

Non un granello di polvere tra i corpi
refrigerati.
Ho lasciato il mio guardaroba
tra mille anni.

 

 

     Gino Rago

21 dicembre 2017 alle 18:34 

 

Salvatore Martino, ovvero, “la poesia di Eros nel gesto controllato che riesce a farsi segno…”

 

“Al mio paese ci sono notti che le barche corrono lungo il soffio dei pesci e l’albero appassito della prua notti nel sonno di maree umide e gialle Tutto il giorno ho sperato di te con la testa all’angolo del braccio Umide e gialle di scogli appuntiti Nel chiuso della stanza le pareti si gonfiano lo specchio quadrato il tavolo le sedie il gioco alterno dei marosi rossi e bianchi e bianchi l’assurda figura dei vestiti la porta che non s’apre Sei intero come il tutto che ci divide nel tuo corpo di vetro E notti ci sono allungate dal buio di correnti che lampeggia il tossire dell’aria e distendi alla luce del ventre l’inutile sorriso…”.

 

Si assiste all’affiorare dei temi centrali della tradizione lirica italiana e della poesia fatta dagli insulari, dal nostos omerico alla trasfigurazione epica della pesca, dalla presenza della morte a quella dei delfini e delle sirene, ma almeno in questo brano di cristallina prosa d’arte ci imbattiamo in un Salvatore Martino alle prese con i segni di quell’immenso lavoro sul linguaggio in atto che troverà nell’opera futura in via di preparazione una sua realizzazione più compiuta.

La selezione da me effettuata risponde a una lettura possibile, senz’altro parziale. Aggiungo che ho preferito esporre, bruscamente e talvolta estraendoli a forza dal corpo dei versi postati su l’Ombra, un passaggio nel quale si trovano inseriti quei segni che sembrano garantire un’illuminazione immediata, la cui matrice affettiva e nostalgica assume un rilievo specifico ma tuttavia mai incline all’arreso ripiegamento intimista.

 

 Dalla nostalgia per i tempi a quella per gli spazi e fino al ricordo di ” amici” o compagni che fanno la guardia in sembianza di animali fedeli, Martino ci sospinge dalla parte di chi parla nei «versi oscuri della divozione», con la voce di un mitico fanciullo che viene dal Sud, un Sud isolano mai consegnato all’oblio, come fu per Ripellino, per Cattafi e soprattutto per Stefano D’Arrigo alle cui frequenze delicate accosto quelle di Salvatore Martino, almeno se mi limito a considerare i versi riportati di seguito, tratti da “Pregreca” del D’Arrigo poco prima di ‘Orcynus Orca’:

da Pregreca di Stefano D’Arrigo:

 

 “Gli altri migravano: per mari

celesti, supini, su navi solari

migravano nella eternità.

I siciliani emigravano invece (…)”

 

Due sensibilità poetiche ben precise e senza sforzi riconoscili, dai contorni ben disegnati, Salvatore Martino e Stefano D’Arrigo, ma entrambe mosse, agitate, nutrite da Eros come forza vitale, come forza cosmica primordiale che nei loro versi riesce a farsi trasparenza d’alabastro di contro alla opacità della pietra. Eros, il gesto controllato che riesce a farsi segno nella “insidia della soglia”, come in questi versi di Salvatore Martino:

 

” I morti sono morti e basta

e freddi

perché la morte è fredda

e dio è volato

sopra i gabbiani che piangono”

 

2 – Lucio Mayoor Tosi, ovvero un poeta che gioca con il tempo nello Spazio Espressivo Integrale:

 

Lucio Mayoor Tosi “Lungo il viale del tempo”

 

 In “Picasso” che Gertrude Stein dedicò al personaggio dominante dell’arte del Novecento europeo, tra narrativa e critica d’arte, la Stein ebbe a dire, fra le tante raffinate meditazioni sul padre del Cubismo, che le idee letterarie di un pittore non sono come le idee letterarie di uno scrittore.

Perché? Perché l’ “egotismo” del pittore è un egotismo assai diverso dall’egotismo dello scrittore, dall’egotismo del poeta. E Gertrude Stein più avanti nel libro articola il suo pensiero così:

 

“Il pittore non concepisce se stesso come esistente in se stesso. Il pittore concepisce se stesso come il riflesso degli ‘oggetti’ che egli ha collocato nei suoi quadri; un poeta invece concepisce se stesso come esistente in sé e per se stesso, perché il poeta (o lo scrittore) non vive affatto nei suoi libri: per scrivere deve prima di tutto esistere in se stesso, ma perché un pittore possa dipingere prima di tutto deve essere fatta la pittura…”.

 

 Ecco perché per Picasso i suoi disegni non erano tracce di ‘cose’ vedute ma di ‘cose’ espresse. Insomma, i disegni per Picasso erano le sue parole, erano il suo modo di parlare.

Nel caso di Lucio Mayoor Tosi, dunque, proprio perché artista e poeta nello stesso tempo, l’egotismo del poeta è obbligato a coesistere con l’egotismo del pittore. Non sempre questa coesistenza probabilmente in lui, nella sua psiche, è coesistenza pacifica e dunque non sappiamo se scrive disegnando o se disegna scrivendo… L’esito estetico che s’indovina nei suoi versi è attribuibile necessariamente al muoversi di Lucio Mayoor Tosi nel linguaglossiano Spazio Espressivo Integrale in cui tempo e spazio hanno altezza, larghezza e profondità tridimensionali e i nomi e le immagini sono disegni-parole, parole-disegni, in un continuo scambio di energie interne.

Energie interne che toccano l’acme nel verso memorabile:

 

“Oh, il canto silenzioso delle lumache!”

 

 Orazio parlò di “monumento” da erigere par la sua Opera, Mandel’stam, sulla scia schiumosa di Orazio, parlò anch’egli di “monumento”, Letizia Leone, forse anche per una risonanza rimbaudiana del ‘Battello ebbro’, di recente ha parlato anche lei di “monumento” anche se ebbro (Il monumento Ebbro).

 

Invece Lucio Mayoor Tosi parla di “statue” sui basamenti pronte a tremare sotto i colpi del vento, segno inconfondibile d’una weltanshauung tosiana incardinata sul senso del Difetto del Sé e della precarietà della presenza dell’uomo nel mondo. In piena consapevolezza della indeterminazione della condizione del poeta e del pittore in una stagione della storia dell’uomo non proprio volta verso il vero, il giusto, il bello.

 

Giorgio Linguaglossa 

 

3 – Giorgio Linguaglossa (“Preghiera per un’ombra” )

 

Questa è la preghiera per un’ombra.1]

Gioca a fare l’Omero, mi racconta la sua Iliade,

 

la sua personale Odissea.

Ci sono cavalieri ariosteschi al posto degli eroi omerici

 

e il Teatro dei pupi.

L’illusorietà delle illusioni.

[…]

 

«Le cifre pari e le dispari tendono all’equilibrio

– mi dice l’ombra –

 

così, stoltezza e saggezza si equivalgono,

eroismo e viltà condividono lo stesso equanime destino.

 

Noi tutti siamo ombre fuggevoli, inconsapevoli

della nostra condizione di fantasmi.

 

Gli uomini non sanno di essere mortali, dimenticano

e vivono come se fossero immortali;

 

il pensiero più fugace obbedisce ad un geroglifico

imperscrutabile,

 

un fragile gioco di specchi inventato dagli dèi.

Tutto è preziosamente precario, tranne la morte,

 

sconosciuta ai mortali, perché quando viene noi non ci siamo;

tranne l’amore, una pena vietata agli Immortali».

[…]

«Queste cose Omero le ha narrate», mi dice l’ombra,

«come un re vecchio che parla ai bambini

 

che giocano con gli eroi omerici

credendoli loro pari, perché degli dèi irrazionali

 

che governano le cose del mondo nulla sappiamo

se non che anch’essi sono bambini che giocano

 

con i mortali come se fossero immortali;

perché Omero dopo aver poetato gli immortali

 

cantò la guerra delle rane e dei topi,

degli uccelli e dei vermi,

 

come un dio che avesse creato il cosmo

e subito dopo il caos.

 

Fu così che abbandonò Ulisse alle ire di Poseidone

nel mare vasto e oleoso.

 

E gli dèi abbandonarono l’ultimo degli immortali,

Asterione, alle pareti bianche del Labirinto

 

perché si desse finalmente la morte per mano di Teseo.

In fin dei conti, tutti gli uomini sono immortali,

 

solo che essi non lo sanno.

Non c’è strumento più prezioso dello specchio

nel quale ciò che è precario diventa immagine.

A questa condizione soltanto gli uomini accettano di essere uomini».

[…]

«Giunto all’isola dei Feaci abbandonai Ulisse al suo dramma.

Perché il suo destino non era il mio.

 

Il suo specchio non era il mio».

[…]

«Il tempo è il regno di un fanciullo che si trastulla

con gli uomini e le Parche.

 

Non c’è un principio da cui tutto si corrompe.

Il firmamento è già in sé corrotto, corruzione di una corruzione.

 

Un fanciullo cieco gioca con il tavoliere.

Come ha fatto Omero con i suoi eroi omerici.

 

Come farai tu».

[…]

«Quell’uomo – mi disse l’ombra – era un ciarlatano,

ma della marca migliore

La più alta.

Egli era elegante,

e per giunta poeta…»2]

 

1] Riferimento a mio padre calzolaio che mi raccontava da bambino storie di cavalieri ariosteschi

2] versi di Sergej Esenin “l’uomo nero” (1925)

 

“Noi tutti siamo ombre fuggevoli…” è l’apoftegma linguaglossiano che sostiene il componimento ove l’idea di “ombra” è già nel titolo. Conoscendo, da lunga frequentazione, la formazione culturale di Giorgio Linguaglossa posata su chiari e irrinunciabili punti di riferimento anche di filosofia estetica, un commento organico a questa “Preghiera per un’ombra” non può sottrarsi al mito platonico degli uomini incatenati in una caverna, con le spalle nude rivolte verso l’ingresso e verso la luce del fuoco della conoscenza. Altri uomini si muovono liberi su un muricciolo trasportando oggetti; sicché, questi oggetti e questi uomini, colpiti dalla luce del fuoco, proiettano le proprie ombre sulle pareti della caverna. Gli uomini incatenati, volgendo le spalle verso il fuoco, possono scorgere soltanto queste ombre stampate alle pareti della caverna. 

 

Nel mito platonico, la luce del fuoco è la “conoscenza”; gli uomini e gli oggetti sul muricciolo rappresentano le cose come realmente sono, cioè la “verità“ delle cose (aletheia), mentre le loro ombre simboleggiano l’”opinione”, vale a dire l’interpretazione sensibile di quelle stesse cose (doxa). E gli uomini in catene con lo sguardo verso le pareti e le spalle denudate verso il fuoco e l’ingresso della caverna? Sono la metafora della condizione naturale dell’individuo condannato a percepire soltanto l’ombra sensibile (doxa) dei concetti universali (aletheia), fino a quando non giungono alla “conoscenza”. Senza questa meditazione filosofica a inverare l’antefatto estetico, culturale, cognitivo che sottende l’attuale, febbrile ricerca poetica di Giorgio Linguaglossa non si comprenderebbe appieno l’approdo-punto di ripartenza di questa poesia e delle sue implicazioni, nominabili in poche ma singolari parole-chiave: forma di poesia senza forma; linguaggio di molti linguaggi; astigmatismo scenografico; stratificazione del tempo e dello spazio; metodo mitico per versi frammentati; intertemporalità e distopia. Il tutto compreso in quella invenzione linguaglossiana dello “spazio espressivo integrale”, l’unico spazio nel quale i personaggi inventati da Giorgio Linguaglossa (Marco Flaminio Rufo, il Signor K., Avenarius, Omero, il Signor Posterius, Ettore che esorta i Troiani contro gli Achei, Elena e Paride nella casa della Bellezza e dell’Amore, il padre, la madre, Ulisse, i legionari, Asterione, etc.) simili agli eteronimi di Pessoa, possono ricevere la piena cittadinanza attiva che richiedono al loro “creatore” quando, altra novità di vasta rilevanza estetica in questa poesia di Giorgio Linguaglossa, “parlano” nelle inserzioni colloquiali, o nel “parlato”, dentro ai componimenti linguaglossiani recenti.

 

Lo “spazio espressivo integrale” della “Preghiera per un’ombra” è il campo in cui “nomi”, “tempo”, “immagine”, “proposizione” vengono rifondati, ridefiniti, spingendo il nuovo fare poetico verso paradigmi fin qui esplorati da pochi poeti del nostro tempo [Mario Gabriele, fra questi, con Steven Grieco-Rathgeb, Letizia Leone, Lucio M. Tosi, Angela Greco, (in parte Antonio Sagredo) e lo stesso Gino Rago] a costituire un “nuovo” poetico da far sentire “vecchia” ogni altra esperienza di poesia contemporanea esterna a tale campo.

 

[Nota.

Segnalo l’ottimo commento di Alfredo Rienzi a “Preghiera per un’ombra” (al quale non mi sono voluto sovrapporre con la mia lettura del 30 marzo 2017 – Roma, Laboratorio Poesia Gratuito, Libreria L’Altracittà, Via Pavia, 106) apparso su La presenza di Erato]

 

Giorgio Linguaglossa

 

4 – Mario Gabriele (“In viaggio con Godot”)

 

I due poeti al centro della NOE, Giorgio Linguaglossa, già considerato, e Mario Gabriele, che stiamo considerando) nel loro fare poetico all’interno dello Spazio Espressivo Integrale, sanno che:

 

* il vuoto non è assenza di materia;

* l’assenza di musica non è l’affermarsi del silenzio;

* il Campo Espressivo Integrale è l’unico in cui la poesia può inglobare spazio e tempo, filosofia e mito, musica e silenzio, metafisica e scienza, memoria e armonia delle sfere, meraviglia e sapienza, in una unità di linguaggio di numerosi linguaggi differenti…

 

Esemplare sotto tale specifico aspetto è il recentissimo Libro-Poema di Mario Gabriele , con memorabile saggio introduttivo di Giorgio Linguaglossa, In viaggio con Godot, 69 composizioni che s’intrecciano l’una con l’altra, ma ciascuna con una propria completezza finita.

Un Libro ad architettura e struttura di poema da inserire nel meglio della poesia pubblicata negli ultimi 15/20 anni in Italia.

Ed i meriti sono etici ed estetici, stilistici e linguistici, ecc. con una abilità del poeta di nominare con esattezza e leggerezza luoghi, situazioni. occasioni,

personaggi, giornali, riviste, libri, esperienze musicali, opere d’arte visive, in uno stile che definirei ‘adamistico’, pensando all’inevitabile collegamento con la corrente più significativa dell’acmeismo mandelstamiano:l’ “adamismo “.

 

Ma nei 69 pezzi de In viaggio con Godot  ho sentito vibrare un’adesione gentile, consapevole, cordialissima alle dinamiche contorte del mondo e della vita che l’autore (Mario Gabriele) interpreta e segnala giocando sulla asimmetria spaziotemporale, all’insegna della indeterminazione del vivere e altro…L’esito estetico finale è una poesia, rubando le parole a Giorgio Linguaglossa, autore del saggio introduttivo, “atetica, non-apofantica, pluritonica, vario ritmica.”

Ne è paradigmatico il componimento numero 51.

Questo componimento numero 51 della raccolta gabrielana si lega strettamente agli altri 50 che lo precedono e d’altro lato prepara il terreno agli altri diciotto che lo seguono, pur presentando e possedendo una propria finitezza stilistico-emotiva, una compiutezza tematico-etico-stilistica:

 

(51)

 

“Dora scrive versi.

Sorprendono le metafore e i giorni della resa.

 

Al Circolo Heidelmann

si replica il Partigiano Johnny.

 

Con Le Demoiselles d’Avignon

siamo andati a cercare Le Illuminazioni.

 

Il tempo è in agguato. Ci minaccia.

Dora alle sette apre le imposte.

 

Toglie i ragni sui muri. Chiude la porta.

Benn l’accompagna alla stazione.

 

-Milano- dice.- è una grande città

con tante Silicon Valley.

 

Puoi contattare qui la M.G.M.

per un lavoro part-time.

 

Poi si vedrà se andare a Boston.

C’è però un problema ed è la famiglia Salomon

 

che parla sempre di decaloghi

e di colombe che tornano dopo il diluvio-.

 

Un’altra stagione è alle porte

con lampi di sole sulle tavolette di Lucio.

 

Domani è di scena Mrs Dalloway,

ma senza Virginia Woolf.”

 

Così è per gli altri 68 del libro. Ciò ben lo rimarca Giorgio Linguaglossa nel suo poderoso saggio introduttivo quando tira in ballo «Il treno del tempo».

Un tempo da Linguaglossa interpretato come ‘successione, salto in avanti, salto All’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità…’.

Riflessioni linguaglossiane che sono propedeutiche all’accostamento consapevole alla cifra centrale della poesia di Mario Gabriele: le immagini. Più precisamente alle immagini metaforiche nel senso di Tranströmer, in ciò maestro indiscusso.

 

Mario M. Gabriele

21 dicembre 2017 alle 19:15 

 

Caro Gino,

 

stai svolgendo un ottimo lavoro critico su l’Ombra, con una interpretazione dei testi disvelati nella più aperta diversificazione oggettiva e strutturale. Le definizioni anche tecniche del linguaggio aprono al lettore occasionale una strada per connettersi con la poesia di ogni Autore da te trattato. Ci sono metodi e fonti che sono indispensabili per parlare di critica innovativa, come egregiamente sta facendo Linguaglossa, dal suo “osservatorio” di ricerca operativa.Io vedo in questo vostro lavoro una specie di assistenzialismo interpretativo nei confronti del lettore.per un maggiore accentramento del “senso” poetico, che se non dichiarato può passare spesso inosservato. Per tutto questo, grazie e cordiali saluti.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          

 

Mauro Pierno


Attenzione prego…
attenzione prego…
Siete tutti in ascolto…
prego…”il gioco non è più divertente
il gioco avviene quasi a nostra insaputa…
Tutti giocano e noi gli ignoriamo. Ma giocano davvero.”
Capito il guaio?
“E che vorremmo essere sempre e dappertutto…e loro giocano, e noi giochiamo, e tutti giocano…”
ma come si fa? Ad essere sempre poeti e dappertutto…ed a giocare sempre da soli?”
Con l’illusione del gioco…

Secondo tempo
La proposta:
Sudore di poesia, di incontri fissi mensili, no promozioni, no perditempo…Solo produzioni… ISTANTANEE DI POESIA…
ESTEMPORANEE DI POESIA…
AGGRAVI DI POESIA
PROGETTI DI POESIA
FINALITÀ DI POESIA
(Prodotte il quel preciso giorno, ora o momento)
e poi subito in stampa e in divulgazione.
Subito prodotte.
SCRITTO E MANGIATO!
Stop.
terzo tempo
Vedo sopra.

Grazie Ombra.
P.s. Un grande abbraccio ad A.D.P.)
e a voi pure!)

 

Giorgio Linguaglossa

22 dicembre 2017 alle 8:25  

 

L’aporia del presente nella poesia di Mauro Pierno e di Donatella Costantina Giancaspero.

L'ingresso del fattore T nella poesia della nuova ontologia estetica

 

In una certa misura la problematica del fattore T. (tempo) è anch’esso centrale nella «nuova poesia». Qui Mauro Pierno si arrischia a scrivere una poesia fatta tutta nel «presente», una poesia irriflessiva, estemporanea, casuale… si badi, non affatto parole in libertà quanto parole del presente, che galleggiano solo nel presente. Cosa affatto semplice. Incredibile. Anche questa è una modalità per catturare il fattore T.

Io, invece, adotto un’altra strategia. Lascio le mie poesie per molti anni sempre vive, nella memoria del computer (fattore T.) e nella mia mente (due modi di esistenza del fattore T.); in questo modo la poesia resta aperta come sul tavolo dell’obitorio, dissezionata… All’improvviso accade durante gli anni che varie esperienze di letture e di vita mi portano nuovi stimoli, nuove idee, nuove frasi che mi chiedono di entrare in quella o in quell’altra poesia… Così le mie poesie crescono e concrescono, come foreste tropicali, grazie all’ausilio attivo del fattore T.

 

In questo lavoro di attivo coinvolgimento del fattore T., il Tempo interviene attivamente, si introduce nella casa linguistica come un padrone; io, il mio Ego, si è nel frattempo fatto da parte, anzi, è stato fatto sloggiare. Adesso la casa linguistica è abitata solo dal fattore T., è esso che guida la composizione verso il suo sviluppo. Proprio ieri, ascoltando delle canzoni jazz della cantante svedese Gunhild con la sua band straordinaria, ho avuto in regalo la visita del fattore T.: molti spezzoni di frasi hanno bussato alla porta delle mie case linguistiche e sono entrate, alcune sono entrate di prepotenza senza neanche bussare o chiedere permesso, sono loro, mi sono detto, i veri padroni delle mie case linguistiche!.

 

Invece, Mauro Pierno procede in modo opposto, vuole abitare esclusivamente il «presente». Ma, caro Pierno, il «presente» assoluto non esiste! Questo lo sappiamo da Agostino di Ippona e da Derrida i quali hanno fatto una disamina precisissima della inesistenza del «presente»; anche Husserl ha precisato che il «presente» in sé non esiste, che il «presente» è fatto di un «non-presente»… E allora cosa dovremmo dedurne? Che la poesia di Mauro Pierno non esiste? In effetti è così, la poesia di Mauro Pierno nei suoi momenti più riusciti, è fatta di presente e di non-presente, di presenza e di assenza.

È proprio questa l’aporia della «cosa» di cui dicevo in un precedente commento, la «cosa» che esiste soltanto nel «presente», o che addirittura è scomparsa dal «presente» perché si è persa, è andata distrutta, è stata rubata etc… Ecco, dicevo, quella «cosa» misteriosa costituisce una insopprimibile aporia del mio pensiero, sta qui e non sta qui, è nella mia memoria e non più nella mia memoria… c’è e non c’è, è qualcosa di incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà…

 

Per fare un esempio diverso, la poesia di Donatella Costantina Giancaspero è tutta basata su fotogrammi impressi nella memoria. Si tratta di ricordi che sono stati elaborati dall’inconscio e che si sono fissati, raggelati. In quei fotogrammi il fattore T è stato raggelato, fermato, se ne sta lì, immobile, tagliato fuori dalla vita reale, dall’esistenza nel presente. Il lavoro della poetessa si muove «attorno» e «dentro» questo fotogramma dandogli uno sviluppo metaforico e metonimico. La metafora e la metonimia sono i due binari lungo i quali si sviluppa la sua poesia, sono i trasformatori che traslocano la pulsazione debole del fotogramma in icone linguistiche, in segni, in parole. È una strategia di cattura del fattore T., del tempo. Il tempo viene messo in scatola, viene inscatolato, e così neutralizzato. E questa è ancora un’altra procedura tipica della sensibilità della «nuova ontologia estetica». Non più una poesia a pendio elegiaco come quella della tradizione del novecento italiano ed europeo, ma una poesia della pianura della prosa, che impiega fraseologie piane, ipotoniche, lessico basso e raffreddato, ritmi ipotonici, toni cloridrici…