TRE POESIE di Chiara Moimas con un Commento di Giorgio Linguaglossa 

 

Chiara Moimas (1953) ha al suo attivo diverse pubblicazioni a carattere didattico su riviste specializzate. Ha pubblicato i volumi di poesia Metamorfosi: donna (1989) e L’angelo della morte e altre poesie (2005) che ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Seguono Curriculum vitae (2012), e L'acerbo Pruno (2014). Sue poesie sono state pubblicate su riviste di settore e nell’antologia Ragioni e canoni del corpo di Luciano Troisio (2001). Nel 2012 ha vinto il “Premio speciale M. Stefani” al concorso di poesia erotica di Venezia. Si occupa anche di scrittura per l’infanzia e di poesia dialettale (il “bisiac”) con riscontri su pubblicazioni e premi locali.

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

 

In questi ultimi trenta anni il cinema è riuscito ad imporsi come modello di tecnica narrativa non solo nel romanzo ma anche in poesia. Il modo di raccontare le «storie» del cinema detta, implicitamente, la sintassi e i tempi dei modi di raccontare le «storie» sia nel romanzo che, in minore misura, anche nella poesia. 

Il modo di raccontare di Chiara Moimas non è affatto semplice, né prevedibile, non è neppure troppo definibile; si ha la sensazione che non sia neanche collocabile temporalmente. Non lascia dietro di sé alcun filo di Arianna mediante il quale ripercorrere a ritroso la strada percorsa. È una poesia che si è dimenticata della modernità, forse perché la poesia non ha alcun bisogno di essere, o di apparire moderna, non ha alcun bisogno di facilitare al lettore il compito della lettura. È una poesia che parte dall’oblio del Moderno. E di qui si dirige, a vele spiegate, verso l’ignoto. Con la maschera della propria impenetrabilità. È il suo modo di offrirsi al lettore.

 

Il libro, stilisticamente omogeneo, ci consegna la fisionomia di una poetessa impegnata in una operazione che oserei definire di «restaurazione metafisica». S’intende che qui il termine «restaurazione» va inteso nel senso di una operazione di conservazione stilistica e di accrescimento stilistico, come il termine «metafisico» non indica qui un aggettivo ma una sostanza. La poetessa di Ronchi dei Legionari parte dal retaggio di ciò che in poesia è avvenuto durante gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dalla presa di distanza dalla poesia al femminile impegnata in un tracciato di ricerca tutto «intimo», «privato», «effabile», «sublime» con il mobilio della propria privata dimora, con tutta la reflessologia degli affetti dell’«io». Col senno di poi, si può dire che la storia della lirica del Novecento è stata una cosa molto frastagliata e politropa, e anche contraddittoria, convulsa, contaminata da influenze extraliriche ed extraestetiche. Tutto si può dire della lirica italiana del Novecento, su di essa grava la pesante eredità di un secolo drammatico e convulso, grava infatti una pesantissima ipoteca: quella di essersi lasciata cullare dalla idea che fosse possibile fare una lirica pura (e un’antilirica spuria), quando Amelia Rosselli ed Helle Busacca chiariscono che non è ormai più percorribile la strada verso la pianura della lirica pura. Così, per quei sopravvenuti equivoci legati soprattutto alla  asfittica antitesi di lirica e antilirica, la cultura poetica italiana è rimasta legata a un’idea fallace e fuorviante di poesia, così che, com’è noto, nella poesia italiana del secondo Novecento hanno avuto il sopravvento quelle posizioni che teorizzavano e praticavano una «antilirica», ovvero, una lirica «contro», e quelle posizioni che praticavano una lirica rimodernata e ristrutturata tramite l’affoltamento del «mobilio dell’io». 

 

Chiara Moimas è una poetessa di indubbia integrità. Forse è dato qui rinvenire una consonanza con le poetesse del tardo Novecento: Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Laura Canciani che hanno optato per una strada tutta in salita, impervia forse, non facilmente comunicabile, non immediatamente spendibile. Che il «desiderio» sia stato un pessimo veicolo del pensiero forse è vero, come afferma Adorno, da Senofane ad oggi, ma è anche vero che esso ha costituito il corrimano ideale della migliore poesia femminile del Novecento a partire da La libellula (1965) di Amelia Rosselli e I quanti del suicidio (1972) della Busacca. Se «il mondo è migliore e peggiore dell’inferno», come scrive il filosofo tedesco, è quello che ci è dato, consegnato per la verifica dell’esistenza, con l’immanenza entro il proprio sortilegio che la converte in trascendente. Quel che altra poesia tende a demitologizzare, qui la Moimas tende a riconfigurare entro il tegumento inaccessibile del sortilegio.

L’elevazione poetica della poesia della Moimas (con la sua parentela con lo stadio genitale della sessualità), ripresa dall’ambito teologico, converte laicamente il teologico in linguaggio metaforico simbolico. Con ciò svuota il teologico nell’immanente.

 

La figuralità, il tono innodico e salmodiante, quasi liturgico, le atmosfere di queste composizioni risultano fuse in un universo monotonale e monodico, visionario e irreale; il lessico, che oscilla tra il prezioso e l’infimo, è stato sottoposto ad un intenso lavoro di disboscamento e di intensificazione; e così la gamma lessicale e tonale risulta fitta e circoscritta, rileva un «mondo» come sotto l’influsso di un sortilegio o di una lontana maledizione. 

Il «male» non è chiamato mai con il suo nome, il «dolore» non è chiamato mai con il suo nome, perché non hanno nomi, o meglio, hanno una molteplicità di nomi e di referenze; la «disperazione» (l’ultima ideologia ancora vendibile sul mercato delle pari opportunità) non ha un nome proprio visti i desiderata innumerevoli di una poesia che soggiorna stabilmente nel regno della illibertà.

 

Ciò che recede diventa sempre più piccolo, e la metafisica si rifugia nei dettagli, nelle fessure tra gli oggetti e l’io, diventa la costellazione indecifrabile dell’esistentivo. L’«orrore» è chiamato, convocato tramite una astutissima regia mediante un rito magico numinoso, apotropaico, il suo nome è un senza-nome, è «il regno animale dello spirito» direbbe Hegel. Ma l’aspetto determinante direi che sono le pianure post-liriche che si distendono e si accavallano in locuzioni «astratte»: «Curricoli persi nei grandi / immondezzai del pianeta / languiranno torcendosi / in lenta combustione / liberando scorie nocive / tossiche esalazioni effluvi pestilenziali»; dove le immagini vengono accostate con una regia sapiente in guisa di chiasmo, ad incrocio e a strati sovrapposti; così, certe locuzioni espressionistiche («nella rete dei ragni / stoltamente planeranno / flotte di pipistrelli / sprezzanti / e scarafaggi potenti / adagiati sul guscio / offriranno la resa»; «foglie carnose / di candide ninfee / lascivamente distese / sopra specchi lacustri / al gracidare / notturno dei rospi») convivono con incisi marmorei («un guerriero dagli omeri forti»); ma l’aspetto determinante è l’intensità innica che si distende in locuzioni parenetiche, ottative, desideranti; dove le immagini vengono accostate con una regia sapiente in guisa di chiasmo, ad incrocio; così, certe locuzioni espressionistico surreali («Perduto il paradiso / nel fango delle guerriglie / tra crateri di atroci esplosioni / nell’inarrestabile liquame / che inghiotte le valli»; «Coinquilini graditi / ed invadenti / banchettano gli dei / su comodi triclini adagiati. Ai loro simposi / la tua presenza reclamano / camuffato da eracle o apollo»), convivono con incisi plastici («Scioglie le trecce Berenice / nel cupo del mare le immerge / sino a farne gomene servili / e Venere arrossa / e piangono lo Scorpione / e l’Ariete»).

Quel che salva il contenuto di verità di questa poesia è, forse, il suo essere privo di alcunché che somigli ad un contenuto di verità dell’esistentivo e della correlativa forma poetica. Non c’è davvero nulla da cui veritariamente accomiatarci e da cui prendere congedo, non c’è forse neanche un interrogativo al quale rispondere. È questa forse l’ultima parola che ci rimane.

 

Scrivevo nella prefazione a L’angelo della morte e altre poesie : «Gli angeli della Moimas non parlano. Interrogati, non rispondono. Il loro silenzio è un criptico e sibillino metalinguaggio e risiede nella posa statuaria, nelle pieghe del volto, in un sintagma nascosto della loro regale postura. L’angelo della Moimas è dunque colui che è depositario degli orrori della storia degli uomini. E, in un certo senso, questi angeli sono innocenti e sublimi proprio grazie a questa loro inconsapevolezza che li rende eterei e leggeri. Essi aleggiano e volteggiano, ma il loro moto è più simile a una danza macabra che non a una pavana o a un minuetto».

Come lo strumento rivela l’essenza della "tecnica" soltanto quando s’inceppa e si guasta, come lo strumento è trasparente finché lo si utilizza entro il circuito della produzione di merci, così anche le parole diventano pienamente visibili soltanto quando muoiono, si guastano, diventano infungibili alle esigenze della produzione per il mercato. Analogamente, la «parola poetica» della Sicari attrae, come una calamita, le tessere semantiche che sono state deiettate dalla produzione. 

 

 

 da L’Angelo della morte e altre poesie (2005) 

 

Sulla battigia dell’eden

angeli pietosi

reclinano le ali pesanti

raccogliendo naufraghi

come candide conchiglie.

Un sasso rovente è caduto nel mare.

Ippocampi sospesi in un sonno tranquillo

si dibattono adesso

nella rete dei nostri capelli

intricati di vento e di sale.

Scuotono la morte in sussulti

sconosciute varietà di branchi silenziosi

prigionieri di tasche rigonfie.

Fiocine

le nostre dita aperte

rastrellano alghe rapprese. Ma

non siamo di aiuto

in questo rimestare l’oscurità.

Impotenti

al cospetto dell’apocalisse

che erige inedite terre

sulle quali grovigli di grida

diventano il pianto comune.

Siamo pronti a raccogliere

pali e gomene

ad inchiodare tavole di croci

per restare nell’emerso.

 

 

L’angelo della morte (in S. Pietro)

 

Quale volto nasconde tra le pieghe del marmo

gonfie d’un alito che nessuno respira

quale terrore cela nelle orbite vuote.

Al crepuscolo dell’estrema navata

il suo stare non dice se vola o se plana

o se il volo trattiene e la quota

sul confine dell’orrido che forse lui vede.

Non traspare lo slancio di femori e tibie

né si coglie lo scatto nello spento baleno.

Come trama leggera il costato si espone

alla lancia che passa e non figge;

gabbia per anime furibonde

che premono agli orifizi

per premono pensieri.

Non si solleva lo sterno per desiderio

incontenibile affanno fatica suprema od attesa

né riparo al piacere è concesso dal ventre

ispido e vuoto. Non un punto

dove possa annidarsi la vita. Inservibili

tacciono le ali nel bronzo rappreso.

La clessidra del tempo brandita da ossute falangi

è bottino di strage strappato con forza crudele

alla presa tenace dell’ultimo arpione

ma grano non c’è che percorra le ampolle

o dolore che vada a ritroso sanando una colpa

non sua. Quel volto nascosto trasuda

vergogna immortale: l’eterno vanto della bellezza.

Ribrezzo per il vuoto degli occhi

per le concave guance e la fronte infinita.

Dove le scapole pronte a coprirsi di piume

nel fendere lo spazio che dalla notte ci separa

dove le chiome d’oro fluttuante

l’ambiguità del sesso nelle forme

che dalla tunica tradiscono il seno

esibendo omeri audaci. Un volo

incagliato nelle pietre e nei marmi

che si chiudono in volta sontuosa.

E dentro di noi si fa strada l’inezia d’infinito

che ci assembla la carne e il pensiero.

Guadagniamo il portale ansimanti.

Stolti ci riserviamo nelle asfittiche trombe.

Che qualcuno ci perdoni.

 

 

da Curriculum vitae (2012)

 

Curricoli


Da gotici portali emergono
goffamente issati su zampe
di pteranodonte
incidono
passo dopo passo
di orme stellate
l’argilloso terreno.
Conche
dove il piscio
di umanoidi ignari
si distende invitando
ad idilliaci sogni lacustri
dove foglie ripudiate
da venti vagabondi
galleggiano maldestre
otturandosi il naso e la gola.
Satolli di adiposi saperi
ancheggiano insicuri
nelle sale d’aspetto
nei deliranti corridoi
dove cigolano grida
sui cardini oliati
dove ammassa l’attesa
muschio sulle giunture
e la ruggine corrode
ingranaggi di complessi
pensieri. Spettri
di pianeti lontani
orge declamano
di inconfessabili teorie
imperscrutabili a chi
batte e ribatte
con ticchettio di pioggia
il tasto
del segno negativo.



Tremano con labbra riarse
da domande inevase
ed ali già vantano
di soprannaturale esistenza
code bifide a legarli
nei gironi infernali.
Morituri con glandi
turgidi pronti a fecondare
di sperma prelibato
preziosi calici di femmine
procreatrici. Stirpi elette
affogate nei pubblici
vespasiani e cordami
sbiaditi di DNA
legati a mediocri progenie
saldamente radicati
nelle incubatrici di alieni.
Impregnato l’etere
e l’aurora ne tracima
e lo zenit si offusca
di tanta plateale cognizione.



Sacri mostri preposti
a delineare con romanzate
verità la sudditanza
della cavità cerebrale
arroganti scudisciano
le spalle ricurve.
Abiura. Rinneghino
questi miseri postulanti
l’ultimo volo libero
dello scontroso gabbiano
e corvo diventino dall’ala
spezzata.
Rinneghino felicità
nel desolante
quotidiano errare
e segni premonitori
attendano
forieri di desiderabili
supplizi.
Invertiranno l’orbita
i mondi ruotanti
e lapislazzuli in sciami
colpiranno l’autostima
agonizzante la fede
perirà nelle spire di serpenti
dai gangli tridimensionali.

Curricoli persi nei grandi
immondezzai del pianeta
languiranno torcendosi
in lenta combustione
liberando scorie nocive
tossiche esalazioni
effluvi pestilenziali.
Ed ancora
ne incontreremo
avvinghiati dentro
tubi catodici
contorti
in spasimi agonizzanti
da strati di pece
ribollente sommersi.
Bolo malsano
nelle arterie delle nostre
telematiche vicende
nutrimento
di estatiche illusioni
rigurgito pronto
all’espulsione dentro
il rifiuto di sotterranee
odissee.
Chi ne fa scempio
chi da rupi sinistre
ne scaglia la voce implorante
chi con sadico ghigno
ne atrofizza il pulsare
avrà sterpi nel letto
e le palpebre accese nel sonno.



L’oscura Signora coperta
da pesante mantello
ritta sul ciglio
dell’unica strada
attende
reclamando il suo pegno.
Rintronerà la sua gola
di uno stridere acuto
un arrider sguaiato
striscerà sulle volte
affrescate
del precario castello.
Nella rete dei ragni
stoltamente planeranno
flotte di pipistrelli
sprezzanti
e scarafaggi potenti
adagiati sul guscio
offriranno la resa.
Si farà umile
prostrato e servile
chi il comando teneva
come lenta lumaca
che strisciando
dissipa la bava.