Mario Lunetta, Poesie, da L’allenamento è finito (poesie 2006-2016), Robin, Roma, 2016 pp. 190 € 15.00, Nota critica di Antonino Contiliano, Il punto critico di Giorgio Linguaglossa

 Giorgio Linguaglossa

Mario Lunetta: «La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore»

 

Il punto critico di Giorgio Linguaglossa

 

A proposito della poesia italiana degli anni ottanta scrive Mario Lunetta:

 

«La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia».

 

Come non condividere questa affermazione? Mario Lunetta è stato un importante ed insopprimibile esponente della Opposizione poetica che si è avuta in Italia dagli anni settanta al 2017, l’anno della sua scomparsa. Vorrei dire che un regime poetico senza Opposizione o che liquida l’Opposizione come insignificante e non rilevante, con il silenzio e con uno specioso sofisma, si rivela essere un regime non parlamentare ma un Regime Autoriale. Mario Lunetta è stato un poeta importante che avrebbe dovuto essere pubblicato nella collana bianca dell’Einaudi, e invece è stato confinato in edizioni di confine, è stato emarginato per via della sua pervicace e costante opera di opposizione al Regime Autoriale.

 

Giorgio Linguaglossa

Mario Lunetta, 2006

 

Nota critica di Antonino Contiliano

 

«Un poligrafo alchimista e proliferante. Una vita e una parola oppositiva, l’opera di Mario Lunetta. Una scrittura anti-sistema-mondo variamente proposta ma sempre nell’ottica di una espressione polisemica e plurilinguistica aggressiva. Una lotta materialista e una sottrazione engagé – giocate tra denuncia e demistificazioni, autoironia, ironia e sarcasmo (troskianamente permanente, direi) – che, nonostante il degrado invadente e pervasivo del sistema-mondo e della stessa “Forma Italia” (sventrata e sminuzzata dal capitalismo globalizzato dell’impresa finanziarizzata) mai sono dimentiche della possibilità antagonista-alternativa: hasta la vista, “il giovanissimo nome di comunismo”. Una scelta e un “fine vita” che Mario Lunetta (caro il caravaggesco moto “Senza Speranza. Senza Paura”) affida ai versi dell’opera L’allenamento è finito (Robin, Torino, 2016) e che Francesco Muzzioli richiama a chiusura della prima parte – “Il percorso poetico” – dello studio monografico (p. 65) che gli dedica.»

da L’allenamento è finito Poesie 2006-2016, Robin, Roma, 2016, pp. 190 € 15.00

 

But For All That

 

C’è da ridere solo a pensare al trattamento

da animale da circo di cui ebbe a godere

il poeta dei Cantos che già sentiva premersi addosso

il gelo della vecchiaia mescolato ad altre varietà

di gelo – da parte di politici, giudici senza giudizio,

funzionari, sbirri, intellettuali strabici, patrioti

e giannizzeri magari anche capaci di peggio, solo

a forni gliene il destro.

 

C’è da ridere sol che si pensi a come

generosamente

lui, il miglior fabbro, si sia sprecato per tanti

dei suoi colleghi e confrères, a come con splendida

ingenuità abbia dilapidato la sua vita incappando

in un Equivoco grosso come cento Moby Dick

incollati testa-coda, anche se uno spirito sterile

come F.R. Leavis afferma senza batter ciglio che “egli è,

nel senso più serio della parola, un esteta”.

 

Tutti sanno che una bella porzione del gran poema

di Eliot fu cassato da lui con intransigenza fraterna,

ma forse sono assai meno al corrente del fatto che quando

negli anni di Zurigo Jimmy Joyce dovette subire

un intervento chirurgico agli occhi per trattenere l’ultima favilla

di vita che vi brillava dentro, quella canaglia di Pound,

non ancora reo di alto tradimento nei confronti

del suo paese, per pagare le spese ospedaliere

vendette i suoi cimeli più amati: gli autografi

di re Ferdinando e della regina Isabella datati 1492.

 

Non so, davvero non so se sia possibile

immaginare

per chi è stato il maggior navigatore dei linguaggi

della modernità un’allegoria più fulminante. Ma certo

l’involontario risarcimento, coincidenza, caso, sfasatura

di quando lui nel 1958 tornò in Europa a bordo

della Cristoforo Colombo, ha l’aria di una tragedia

che si volta in farsa e viceversa, con una continuità

da brividi.

 

(12 gennaio 2010)

 

L’inesistenza del meglio

 

Chissà se è meglio o solo peggio sentirsi

un marmocchio in carrozzina trascurato dalla madre

o un vecchio in agonia carico di rimorsi.

Chissà se ancora il vento è più libero del condor

che si lascia cullare dalle sue folate prima di cadere a picco

sulla preda sentendosi stingere il cuore, chissà mai.

Chissà se il mondo è disposto a farsi chiudere

in un dizionario o le parole di tutte le lingua

sono ormai affette da devastanti attacchi di schizofrenia,

irreparabilmente.

 

Da questo bar sotto i portici si vede la farmacia

in fondo alla piazzetta e i intuisce l’insegna

di un’erboristeria coperta da fogliame in disordine.

In entrambe si vendono illusioni al canto

delle cicale che simulano quello di mitologiche sirene.

Laggiù il treno che corre sul sottopasso

ha tutta l’aria di un giocattolo che abbia finalmente

conquistato la sua libertà.

 

La calvizie è una colpa: è sulla capacità

di convincimento dei poveri di spirito che oggi

la menzogna pubblicitaria esercita i suoi poteri satanici

e riduce i cosiddetti consumatori

a orde di replicanti di androidi in preda all’infelicità

e ai sensi di colpa assetati ingozzati di popcorn

nel tubo intestinale dell’animale mondo incapaci di capire

che tutto ciò che si vede è bene prima sentirlo

per poterne interrogare le intenzioni criminali

per poi darsi un meritato riposo.

 

So che non accadrà: perché il verbo accadere

non ha il tempo futuro. Ciò vuol dire, dunque, che

sono ogni giorno più rare (anche tra le persone

a me più care) quelle capaci di corrispondermi

dal momento che da parte mia non so neppure più

corrispondere a me stesso. Prosit.

 

(14 giugno 2015)

 

Giorgio Linguaglossa

 

Tiresia

 

Perché nascondersi se siamo invisibili?

Domanda insieme ingenua, forse persecutoria

e in tutti i casi tautologica – rivolta a tutti

tranne che al sottoscritto che l’ha pensata ed emessa

come per distrazione o forse sotto un attacco

di farnético tranquillo nonché precedentemente

visualizzata

in un disegno a fasce ondulate energicamente policrome

dietro cui appare (per la precisione: appariva

prima della cancellazione, della scomparsa) un’ombra

in qualche modo antropomorfa in una luce di

crepuscolo…

 

Eppure a ben pensarci si potrebbe anche concludere

che tra nascondimento e invisibilità

c’è oltre a un quid consequenziale e (come prima

azzardato)

tautologico, un germe di contraddizione – dove si annida

una solida forma di positività dicasi pure dialettica – e

un suo analogo impegnato ad alimentare un desiderio

forse di salvezza rispetto a un pericolo incombente

forse di volontà di sparizione rispetto a tutto ciò

che esiste

o ha la pretesa di esistere, quindi di giudicare, di indicare

una strada, un arbitrio di destino

: (ma senza fare i conti col tebano Tiresia

accecato da Minerva nell’adolescenza

sempre deciso a nascondere la propria invisibilità

di uomo-donna e di donna-uomo dopo la doppia

uccisione

dei serpenti in amore e la sentenza sulla maggiore

sensibilità erotica della femmina

dietro un eccesso abbagliante di chiarezza

: innocenza suprema, suprema presunzione

che irride la morte)

 

(24 maggio 2016)

Anima persa

 

Qualche tempo fa, probabilmente il 23 novembre, il Sottoscritto Immemore ha compiuto ottantun’anni dimostrandone senza un filo d’imbarazzo dieci di più, a dir poco: e magari credendo in tutta buonafede che gli anni 

abbiano facoltà di esercitare liberamente il diritto di accrescere i loro addendi sia in senso anagrafico che in senso crono visivo – con allegria o umor nero, leggerezza o spirito plumbeo, nei luoghi più gradevolmente

aperti e ospitali o nel chiuso di una cella, in compagnia di chi si ama come nella più assoluta solitudine.

 

In tutti i casi il Sottoscritto Immemore conserva nel Mar dei Sargassi della sua trascurabile esistenza uno straccio di pietà per se stesso pur non

usandone mai

a fini di pubblica sollecitazione di conforto et similia.

(Lèggasi): anche parlando di sé il Sottoscritto

Immemore

parla invariabilmente di qualche altro

attraversandone

l’immagine con lampi sulfurei di ironia o secche bòtte

di sarcasmo, quando il caso lo richieda.

 

Che dire di più? Cosa aggiungere a certe futilità

se le polveri sottili vanno ad annidarsi perfino

nel piatto di spaghetti che ha mangiato un’ora fa,

il mese scorso o la prima settimana di un’altra vita

(con lei, id est la sua anima persa che lui,

l’Immemore, non ha

- lo giuro e lo spergiuro – la minima intenzione

di ritrovare?)

 

(27 aprile 2016)

 

Ghigliottina del benessere

 

Pare piuttosto buffo (e perché no spregevole) –

suppongo

non soltanto all’ipersofisticato sottoscritto-

assistere senza fiatare

al pressoché irrefrenabile proliferare di Centri Benessere

in tanta disperazione che si taglia col coltello più

che vederla

con gli occhi appannati del corpo e della mente,

tanto scialo

di urla soffocate, fiumi di sangue nel giorno che annega

dentro le fauci della notte ammutolita e fa salire

mescolati

canti di ugole strozzate con versi di animali in

tregua d’armi

mentre il mondo che si mostra e non si mostra

continua a sorridere

della propria agonia senza fine, nella giusta

divisione dei compiti

fra vittime e assassini: si taccia una buona volta almeno

per decenza, mica per carità – vorrei dirlo e non lo dico.

 

Meglio: vorrebbe dirlo e non lo dicembre l’ipersofisticato sottoscritto

intento a tagliarsi meticolosamente le unghie per

evitare di finire

nel gorgo dei suoi pensieri a spirale che

sopravvivono ai bordi

del vulcano e gli ghignano addosso come iene,

mostrando i denti

in una scommessa da ghigliottina dolceamara, nel maquillage

di questa fin de partie di cui è stato cancellato

l’inizio non l’epilogo.

 

Forse non c’è risposta: e se una ce n’è non

credo possa

di troppo discostarsi dal teorema di Spinoza ove si afferma

che Il pentimento non è una virtù, in quanto –

aggiunge umilmente

l’ipersofisticato sottoscritto – battersi il petto dopo

il crimine

(o magari la colpa più leggera) finisce per essere

uno sport in cui è troppo facile vincere senza eccessivo

spreco di energie. 

Heidegger non s’è mai pentito

del suo comportamento: non a caso era un profeta intriso

di retorica frattale, troppo intento – fino alla morte 

- a fissare

la profondità del proprio grandioso ombelico, 

das ist alles

 

(2 maggio 2016)

 

Giorgio Linguaglossa

 

 

Birignao Frecciarossa

 

dal finestrino del Frecciarossa Napoli-Roma h 16.40

gli occhi annegano in una distesa sconfinata di serre

- pomodori è da supporre, o altre specialità

di mangime vegeto-minerale tirate su a concimi chimici

e rinforzi ormonali se non gonfiate a estrogeni

come polli americani impunemente riciclati

nella Campania felix – ciò che provoca scandalo

mica morale ma solo estetico è quell’inconscia

instillazione di Beuys sotto forma di franante

aggressiva collina nera di copertoni d’auto

lì a chiudere l’orizzonte come un tappo

stupidamente inesorabile

 

ma forse il peggio è concentrato qui,

scompartimento

semivuoto, in quella cicalata ad alta  voce di una girl

a prima botta carina, benvestita, di postura elegante

poi di colpo, indossata l’uniforme manageriale, assunto

il tratto tosto del dirigente eccola lì buttar fuori al

cellulare

il suo gergo tecno-autoritario a freddo

a una qualche dipendente (ma meglio si direbbe

sottoposta)

sottolineato da discariche okay sparate a raffica

col gusto evidentissimo di sottomettere calpestare

ridurre

all’obbedienza chi l’ascolta da lontano: scena

spettacolosa

di surrealismo sadico, mitopoiesi allucinante

ora che lo speaker al microfono raccomanda ai

signori viaggiatori

di parlare a bassa voce per non disturbare please: sospiri

reiterati e birignao all inclusive nell’orrore, nella

pietrificazione filmica che non prevede

happy end

 

(1 giugno 2016)

4

 

Hodie giornata infausta di mezz’agosto

hai ripetuto al cellulare su mia ansiosa richiesta

il catalogo maligno delle tue indisposizioni

& dei tuoi malesseri sempre in agguato

l’amarissima filiera ormai sangue del mio sangue marcio

(mal di schiena, ernia del disco, cistite,

infiammazione

della rotula ecc.) che tortura le tue gambe

di walkiria fanciulla per cui l’elenco assassino

raspa la mia pelle di vecchio gatto soriano

al modo di una grattugia rovente manovrata

da un topo impazzito

 

Hodie et semper annaspo tra la fiaba sinistra

delle tue sofferenze mescolate alla rinfusa

con le clessidre rovesciate dei tuoi instabili umori

le tue malinconie nostalgiche il tuo volerti male

per incapacità di amarti pur sapendo che sei stata

amata da tanti (&la serie anima mia non è ancora

esaurita)

attratta come sei da un buio opaco nel pozzo

delle mille incertezze della tua psiche fatta di sogno

& crudeltà foschia & luce accecante

come l’oro della tua voce o le sue tenerezze

appena sussurrate

 

Colui che ti si rivolge pieno di patèmi

con questi versi maldestri

registra che anche hodie giornata infausta di

mezz’agosto

tu hai insistito a parlargli della fragilità

della tua mente avventurosa & altruista

dilaniata dai capricci di una psicastenia traditrice

a petto del bel carattere di lui che sarebbe a tuo dire

la risorsa inesauribile del suo resistere tra i marosi

& gli assalti di quella cosa astratta & concretissima

che chiamano vita

 

Lui caro ex carne mea si permette di rettificare

in tutta umiltà che non è il caso di parlare

di bel carattere ma di carattere semplicemente

& ti ripete senza stancarsi di ripeterlo

che questo carattere ti appartiene

deposto com’è ai tuoi piedi

ora & per tutto il tempo che vorrai

 

(5 agosto 2015)

 

su Oblio VIII, numero 32

 

Giorgio Linguaglossa

 

Elisa Caporiccio Francesco Muzzioli, Mario Lunetta. La scrittura all’opposizione, Roma, Odradek Edizioni, 2018  ISBN: 978-88-96487-67-9

«Mario Lunetta ci ha lasciati, ma è come se fosse ancora con noi». La recente monografia che

Francesco Muzzioli ha dedicato allo scrittore e amico da poco scomparso si apre nel segno del

ricordo, con la consapevolezza della necessità, ora, di riprendere in mano i suoi testi e promuoverne un’attenta riscoperta, chiarendo «il significato e il senso di un percorso letterario che ha segnato la seconda metà del Novecento e l’inizio del XXI secolo». Preso atto delle non poche difficoltà che s’incontrano nell’accostarsi con la dovuta attenzione critica a questa «figura fondamentale scarsamente riconosciuta dalle parti della cultura ufficiale» – dall’inventario di tutte le pubblicazioni, al recupero degli scritti inediti o dispersi nelle varie riviste, alla possibile costituzione di un’antologia dei suoi scritti –, Muzzioli decide di aprire la strada agli studi e alle iniziative future, offrendo come «punto di partenza» (così si intitola, non a caso, l’introduzione al volume) «una monografia che si provi a percorrere l’itinerario dell’autore», proponendone «una prima rilettura, ancora incompleta per forza di cose, ma costellata di campionature essenziali, per dare l’idea della direzione dei testi» (p. 7).

Il profilo tratteggiato nel volume prende le mosse dalla ricostruzione dell’esperienza poetica di

Lunetta, campo d’azione dichiaratamente privilegiato da Muzzioli in questa sede. La prima parte

dello studio monografico, snodandosi secondo un ordine cronologico, segue dunque passo passo le tappe del corpus poetico lunettiano, mostrando costanti ed evoluzioni di un’opera che si estende dagli anni settanta del Novecento (con le primissime raccolte Tredici Falchi, Torino, Geiger, 1970, e Lo stuzzicadenti di Jarry, Torino, Geiger, 1972) sino al primo quindicennio del Duemila (e si conclude con le «poesie postreme» di L’allenamento è finito, Torino, Robin, 2016).

L’analisi condotta da Muzzioli in questa prima sezione consente di rilevare alcune linee tematiche

d’importanza fondamentale nell’intero percorso letterario di Lunetta: la denuncia e demistificazione del crescente degrado della cultura italiota, mirabilmente stigmatizzata nelle raccolte che compongono la trilogia La forma dell’Italia («la forma dell’Italia / vive soltanto ormai delle sue / deformazioni progressive», Magnificat, Pescara, Tracce, 2013, p. 93); il rapporto «di corpo a corpo» nei confronti della città di Roma, «amata & insopportabile», degradata ad «una campana stonata una brocca fessa» (Saldi di fine stagione, Roma, Fermenti, 1992, p. 57), ed assunta nelle poesie più tarde ad emblema della città globale («Sempre più stridula voce / della città che è Roma & Nairobi, Brazzaville, Gibuti, Tripoli […]», Mappamondo, Paisan di Prato, Campanotto, 2006, p. 34); il processo di autocritica e «autoscoronamento» cui è sistematicamente sottoposto l’io poetico, travolto in «un gioco crudele di apoteosi e rovina» che alternativamente lo trascina «dalla rivendicazione iperbolica al crollo e all’abbattimento» (p. 13), oscillando tra l’apice dell’«immortale sottoscritto» (L’allenamento è finito, cit.) a quello, capovolto di segno, dell’«umile scriba» o dell’«io sherpa» (Sherpa, in Cadavre exquis, Roma, Rossi & Spera, 1985, p. 12).

Sul piano formale, la visione allucinata di un mondo in caduta libera si esprime solitamente nella

misura di «un verso tendente al molto lungo, un verso fluviale informe» (p. 14), animato

dall’oltranza dei procedimenti sperimentali messi in atto da Lunetta – dal ricorso alle maiuscole per evidenziare determinati vocaboli, all’inizio del periodo con i due punti, all’uso di parentesi su

parentesi o di parentesi non chiuse, alle barre utilizzate come interruzione – in un gioco sfrenato del significante e nel gusto di una «scrittura anomala» (p. 57) che si differenzia dalla lingua del

consumo. La parola lunettiana si torce sovente nelle forme dell’invettiva sarcastica e del rifiuto

dell’ideologia imperante, si sfaccetta in una pluralità stilistica e linguistica sorprendente, «fune

espressionista / tesa sul vuoto» che «si nutre / d’ira & di dolcezza», «disperato / pallottoliere delle

idee fuori corso» (Mappamondo, cit., p. 36). D’altronde, Lunetta era fermamente convinto, come

avrà a dichiarare nel primo numero dell’Almanacco Odradek di scritture antagoniste, che «solo

nella sperimentazione in controtendenza, nell’azzardo espressivo o spregiudicato, nella tensione

linguistica senza pavori» fosse ancora possibile «costruire oggetti mentali non conformizzati» (Le

forme del conflitto, «Almanacco Odradek», Roma, Odradek, 2003, p. 8).

Proprio allo «spirito conflittuale» di questo scrittore e alle molteplici modalità di intervento da lui

adottate si rivolge la seconda parte della monografia di Muzzioli (Il Conflitto si dice in molti modi), mantenendo fede all’obiettivo di restituire «il ritratto di uno scrittore a tutto tondo, un poligrafo davvero insaziabile» (p. 8), che non ha trascurato nessuna forma d’espressione letteraria. Questa seconda sezione del volume, se pur più breve della precedente, offre una rapida panoramica della restante produzione dell’autore, presentando gli aspetti fondamentali della narrativa (breve e lunga) e del teatro lunettiani, e riservando uno spazio a sé stante alle Prove di scrittura ecfrastica e a quei libri, definiti giustamente «eccentrici» (Di libri eccentrici eccellenti), che esulano dalle convenzionali definizioni di genere, obbedendo alla prepotente vocazione del nostro ad invadere e contaminare i più diversi ambiti, a «travalicare gli steccati disciplinari prestabiliti» (p. 82).

La terza sezione, infine, conclude il quadro fin qui delineato con una Piccola antologia della critica attraverso le prefazioni, concorrendo anche alla finalità di ricostruire la fitta rete di relazioni e scambi intellettuali intrattenuta da Lunetta. Nel corso del suo studio, Muzzioli non dimentica di ricordare le numerose iniziative intraprese da Lunetta, instancabile organizzatore e promotore della vita culturale romana, avendo cura di collegare di volta in volta il suo personale percorso a quello che era «il clima dell’epoca, la situazione storico-culturale» (pp. 7-8). Vanno intese in questa prospettiva le raccolte saggistiche dell’autore, così come le antologie da lui curate (AA. VV., Poesia italiana oggi, Roma, Newton Compton, 1981; AA. VV., Letteratura degli anni Ottanta, Foggia, Bastogi, 1985; AA. VV., Poesia italiana della contraddizione, Roma, Newton, 1989), nonché gli interventi teorici volti a sostenere con decisione, nell’ambito del dibattito critico che scaturirà nella stesura delle Tesi di Lecce, l’ipotesi di una «scrittura materialistica» e «il tentativo di ripresa di discorsi letterari alternativi» (p. 23) capaci di opporsi all’imperante situazione di «riflusso» e regressione verso poetiche di stampo intimistico.

Al termine della lettura di questo primo studio complessivo dell’opera di Mario Lunetta, ciò che

risulta è il «profilo tagliente» (p. 8) di uno scrittore sempre «all’opposizione», il racconto di una

«fermezza» e di un rigore etico e civile mai venuti meno, pur nell’ampiezza cronologica della sua

produzione. Quella elaborata e portata avanti da Lunetta lungo tutto l’arco della sua attività è stata

una scrittura motivata da una forte «coscienza antagonistica» e dalla convinzione dell’intrinseca

politicità e tendenziosità delle arti; una «scrittura dell’orrore», mai dimentica della «fondamentale

dimensione del Negativo» che domina la società «che abbiamo costruito e in cui faticosamente

viviamo», secondo la fondamentale dichiarazione di poetica pronunciata nel 1996 (Scrittura

dell’orrore, in Invasione di campo, Roma, Lithos, 2002, p. 116). Una pratica letteraria che trova il

«suo compito» e «il suo senso residuo» nell’obiettivo di «creare contraddizioni all'interno del senso comune egemone, di produrre enzimi fantastici indigeribili, di creare sconcerto nei confronti dell'universale obbedienza», come dichiarerà il nostro in una delle sue più brillanti interviste. 

(consultabile sul sito http://www.adolgiso.it/enterprise/mario_lunetta.asp).

Mario Lunetta, critico letterario e d’arte ha collaborato a: “l’Unità”, “Il Corriere della Sera”, “Il Messaggero”, “Rinascita”, “La Rinascita della Sinistra”, “Il manifesto”, “Liberazione”, e a numerose riviste italiane e straniere. È stato Presidente del Sindacato Nazionale Scrittori. Suoi libri e singoli testi sono tradotti in diversi paesi del mondo. Ha vinto numerosi premi ed è stato due volte finalista al Premio Strega (1977, 1989). Nel 2006 gli è stato conferito il Premio Alessandro Tassoni alla carriera.

Ha pubblicato in Poesia

Tredici falchi (1970); Lo stuzzicadenti di Jarry (1972); Chez Giacometti (1979); La presa di Palermo (1979); Flea market (1983- Premio Pisa); Cadavre exquis(1985 – Premio Adelfia); Autoritratto con acrostici (1987); In abisso (1989); Panopticon (1990), con disegno e lito di C. Cattaneo; Pianosequenza (1990), con acqueforti e acquetinte di S. Paladino; Sorella acqua
(1991), con serigrafie di C. Budetta; Antartide (1993); Catastrofette (1997), con un acquerello di E. Masci; Cunnichiglie (1997), con un acquerello di E. Masci; Roulette occidentale (2000), con un disegno di B. Caruso; Doppio fantasma – 91 poesie per 91 artisti (2003); Magazzino dei monatti (2005); Bacheca delle apparizioni, con quattro litografie di L. Boille (2005); Mappamondo & altri luoghi infrequentabili (2006); Nitroglicerina per ermellini, con cinque acqueforti-acquetinte e un rilievo di B. Aller (2007); Videoclip, con tre acquerelli e un rilievo di C. Budetta (2007), La forma dell’Italia (2008), Cartastraccia(2008).

Narrativa

Comikaze (1972); Dell’elmo di Scipio Marsilio 1974 – Premio Pisa); I ratti d’Europa (Editori Riuniti, 1977 – finalista al Premio Strega); Mano di fragola(Editori Riuniti, 1979); Guerriero Cheyenne (Manni, 1987); Puzzle d’autunno(Camunia, 1989 – finalista al Premio Strega);L’ubicazione di Lhasa (Camunia, 1993); Mercato delle anime Manni, 1998) – Premio Bergamo); Penalty (Le Impronte degli Uccelli, Roma 1998); Montefolle(Manni-Quasar, 1999); Soltanto insonnia (Odradek, 2000); Cani  abbandonati(Odradek, 2003); Figure lunari (Robin, 2004); I nomi della polvere (Manni, 2005); La notte gioca a dadi (Newton Compton, 2008).

Saggistica

La scrittura precaria (1972); Invito alla lettura di Italo Svevo (1972); Il Surrealismo (1976); Sintassi dell’altrove (1978); L’aringa nel salotto (1984); Da Lemberg a Cracovia (1984); Et dona ferentes: sindromi del moderno nella poesia italiana da Leopardi a Pagliarani (1996); Le dimore di Narciso (1997); Invasione di campo: progetti, rifiuti, utopie (2002); Liber Veritatis (2007).

Teatro

La visitatrice della sera (Radiodramma – Radio Frankfurt); Galateo (Teatro delle Voci); Città proibita (Teatro del Palazzo delle Esposizioni di Roma); Antartide (Teatro Belli di Roma); Gigantografia (Festival Internazionale di Ferentino), Coca-Cola di Rienzo Story (Teatro dell’Orologio); Altorilievo, Poema drammatico (Museo Archeologico di Formia); Arkadia nonsense e Smash(Giugno al Casaletto – Villa Zingone); La forma dell’Italia (Atelier Metateatro); Lunapark (Chiostro di San Pietro in Vincoli).  In volume: Coca-Cola di Rienzo Story Book Editore); La mela avvelenata (Cinque dialoghetti blasfemi); Prigioniero politico! (“Le Impronte degli Uccelli” Editrice).