UNA RIPROPOSTA: CORRADO GOVONI (1884-1965) – Commento di Giorgio Linguaglossa
Corrado Govoni è un «classico» indiscusso del primo Novecento, anzi, uno dei «classici» di tutto il Novecento. La poesia, “Dove stanno bene i fiori”, è un esempio impareggiabile dell’estro e della magnifica capacità che Govoni ha di spaziare con le metafore e le immagini, con le analogie e i parallelismi, come mai forse nessun altro nel Novecento. È impressionante quell’andare a briglia sciolta da invenzione ad invenzione, da immagine ad immagine, senza dare tregua al lettore, senza blandirlo con soluzioni languide, servizievoli o ammiccanti, obbligandolo a seguirlo nella sua funambolica ascesa alla immaginazione poetica più sbrigliata e libera di tutto il primo Novecento italiano. Sotto questo aspetto, non c’è nessun altro poeta del primo Novecento (con l’eccezione di Palazzeschi) che possa stare al pari della sfrenata libertà metaforica di Govoni; c’è da restare perplessi, smarriti e meravigliati, smarriti dinanzi alle iperboli funamboliche delle immagini che si susseguono senza tregua. Sarebbe ora di rileggere con altri occhiali i grandi poeti del primo Novecento. Torniamo a rileggere la poesia a briglia sciolta di Govoni, vediamo con quale strabiliante svolgimento di immagini Govoni tematizza il tema: prende il tema dei “fiori” e ci fa sopra una poesia che ha una straordinaria brillantezza e «trasandatezza» formale.
Scrive Mengaldo: «Govoni appresta quel repertorio di oggetti e temi che sarà tipico della sensibilità “crepuscolare” (parola tematica che in lui compare presto), e lo fa in modo straordinariamente elementare, e, per così dire, feticistico”, accompagnandolo con “arpeggi di annoiata chitarra” (Solmi). In realtà Govoni è soprattutto attratto dalla superficie colorata del mondo, dalla varietà infinita dei suoi fenomeni, che registra con golosità inappagabile e fanciullesca, quasi in una volontà di continua identificazione col mondo esterno»*
Il giudizio riduttivo di Mengaldo sulla poesia di Govoni è indicativo della cecità e della ristrettezza di campo concettuale con cui il critico citato guarda alla poesia di Govoni. Mengaldo fa una duplice operazione, dimidia il valore della poesia dei crepuscolari per puntare dritto sulla poesia del primo Montale, quello degli “Ossi” e quello delle “Occasioni” per canonizzarlo quale spina dorsale della poesia del Novecento; ma non solo, la idea guida di Mengaldo ripete il cliché del topos accademico che guarda alla poesia del primo Novecento dal punto di vista della poesia maggioritaria del secondo Novecento. Mengaldo svaluta la prima per rivalutare la seconda; svaluta la libertà sfrenata e gioiosa dei grandi poeti del primo Novecento come Campana, Govoni, Palazzeschi, i futuristi, Lucini, Saba, i crepuscolari, per rivalutare la poesia del pedale basso del Montale di Satura (1971) e della poesia post-montaliana del disimpegno e dell’ironia, della cultura dello scetticismo e del disinganno dinanzi alla invasione della società di massa.
Alla luce degli eventi che hanno punteggiato la poesia italiana in questi ultimi tre quattro decenni, dobbiamo rovesciare come un guanto il giudizio critico di Mengaldo e rivalutare quei poeti che nel primo Novecento hanno corso a briglia sciolta sulle ali di una irrefrenabile aria di libertà creativa (Govoni) e di una estenuata malinconia (i crepuscolari). Occorre riparametrare quella presunta centralità della poesia del secondo Novecento che aveva la sua referenza sociale nella piccola borghesia. Ritengo sia giunto il momento di ribaltare i giudizi (anzi i pregiudizi) consolidati. Proviamo a rileggere all’incontrario la poesia del Novecento.
Devo fare un inciso su ciò che ci dice la poesia del minimalismo. Attraverso quella poesia si può leggere in filigrana ciò che stava diventando il paese: un paese invaso dallo scetticismo, dal demagogismo del disimpegno assunto a nuova ideologia di massa, dall’ironizzazione scontata e facile, da una cultura che non aveva cognizione di ciò che stava avvenendo, che continuava a fare una poesia del disincanto, del ritorno al privato, alla cronaca, al quotidiano, al particulare, allo scetticismo. Una cultura celebrativa e inaugurale del Presente fondata sulla digressione e sul bilanciamento tra il quotidiano e il privato. E l’affermarsi di una clericatura di massa dotata di invarianza e di tatticismi e di uno stile cosmopolitico.
A questo punto occorre fare una distinzione tra il correre a briglia sciolta della poesia di un Govoni e di un Palazzeschi del primo Novecento e lo sbocco del paese nel fascismo: non c’è alcun legame tra le due cose; quello che poi emerse negli anni Trenta è stato il richiamo all’ordine di “La Ronda” che la poesia di Cardarelli in certa misura legittima: il ritorno all’ordine politico e il ritorno all’ordine del testo poetico. Occorre leggere la storia della poesia del Novecento con un’altra lente di ingrandimento. E, direi anche con altri occhiali.
Per tornare all’oggi, è utile e salutifero guardare alle esperienze poetiche del primo Novecento con l’occhio critico di chi abita l’omologismo del post-minimalismo di massa dei nostri giorni.
((P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, p. 5, Mondadori, Milano, 1978)
(da Gli aborti, 1907)
Dove stanno bene i fiori
I ciclami, nei chiostri di marmo.
Le ortensie, nelle rosse Certose.
Le margherite, nei prati.
Le viole, tra le foglie secche
lungo i fossi.
La malva, nelle pentole dei poveri, alle finestre.
Gli oleandri, nei vestiboli dei ricchi.
Le rose, dentro gli orti di campagna.
I tuberosi, nei giardini dei collegi.
Le aquilegie, nei cortili dei castelli antichi.
Le ninfèe, come
bianche lavandaie, sotto i ponti.
Gli edelvai, vicino ai nidi delle aquile.
I convolvoli, nelle siepi delle strade.
I glicini, sui ruderi.
L’edera, come una decorazione verde
intorno agli alberi veterani.
I gigli, sugli altari e in processione.
Le orchidee, simili ad aborti, nei bicchieri.
Le azalèe, nelle chiese protestanti.
Le camelie, nei vasi di maiolica sulle scale.
I narcisi, davanti agli specchi.
I garofani rossi, nella bocca delle amanti.
I crisantemi, sulle tombe e nelle tavole.
I pensè, come maschere curiose alle finestre.
I papaveri, nel frumento.
I begliuomini dai fiori ascellari
simili ad arlecchini, negli orti delle zitelle.
Le violacciocche, lungo i viali delle passeggiate.
I semprevivi, nelle camere dei malati e davanti ai santi.
I gelsomini, alle finestre degli ospedali.
I funghi, nei boschi umidi
nelle travi marcite
e nell’anima mia.
*
Il cùculo
O cùculo, bel cùculo barbogio
che voli sopra il fresco canepaio ,
cantando il tuo ritornello gaio,
il vecchio ritornello d'orologio:
tu sei la primavera pazzerella,
che si nasconde e canta allegra: - Orsù,
venitemi a pigliar... cucù! cucù!
dietro il frumento che va in botticella.
E quando, dopo un lungo inseguimento,
tu speri d'acciuffarla nel frumento,
ella, che ti spiò e venir ti vide,
eccola là, che canta e ti deride
da un alto pioppo, tremulo d'argento,
che s'alza in fondo al campo di frumento.
O cùculo mio del cùculo vaio
che voli sopra il fresco canepaio.
Nel cimitero di Corbetta -
Povera creatura inutile!
io ti conosco, forse.
Eri una delle tante bambine
ch'io vidi nei cortili delle cascine;
scalza, seduta sul limitare
con la tazza di latte sui ginocchi
e un gran pane di frumentone ai denti
e con le compagne intenta a giocare.
Eri anche bella ed accarezzata
da tutti: quando il male
ti spense in un istante.
Ora t'hanno sepolta e più nessuno
stasera si ricorderà di te.
Tranne tua madre che non dormirà,
sospirerà guardando il tuo lettino
vuoto, accanto alla finestra nera
aperta sulla notte di primavera
pensando ch'eri così piccola ...
(...sì, ma il becchino
ha sudato scavandoti la fossa
profonda come la sua vanga!
sì, ma non tanto
che tua madre per te non pianga!)
e che sei qui sotto, sola nella tomba oscura,
e che forse hai paura,
tu ch'eri così piccola
che bastava una lucciola
pendula ad uno stelo a farti lume
lungo la via,
così piccola e leggera
nella tua culla, che bastava a muoverla
l'onda dell'avemaria!
O povera innocente, dormi in pace!
Ché anche tu avrai, come ogni misero,
la tua fresca coroncina
di vetro, che il ragno,
che tesse tesse e non sa nulla,
ti rinnoverà ogni mattina;
e invece del tuo lettino bianco
nella camera nera
sei adagiata in una culla
d'odori di primavera,
e se non senti più la voce della tua mamma
hai l'usignolo che ti canta la ninna nanna.
Villa chiusa -
nella campagna romana
So d’una villa chiusa e abbandonata
da tempo immemorabile, segreta
e chiusa come il cuore d’un poeta
che viva in solitudine forzata.
La circonda una siepe, e par murata,
di amaro bosso, e l’ombra alla pineta
da tanto più non rompe né più inquieta
la ciarliera fontana disseccata.
Tanta è la pace in questa intisichita
villa che sembra quasi ogni cosa
sia veduta attraverso d’una lente.
Solo una ventarola arrugginita
in alto su la torre silenziosa,
che gira, gira interminatamente.
Charlot
Con la tua bombetta all'idrogeno
piena d'uova di pasqua e canarini;
con la tua finanziera rattoppata
che ha nelle tasche i resti dell'aquilone
impiccato al lampione del sobborgo
per rumoroso vertebrato fazzoletto;
con la tua giannettina di rabdomante,
scettro di re in esilio,
bastone del vescovo pazzo,
vincastro del pastore;
con le tue scalcagnate scarpe
buone da far bollire nella pentola
nei giorni della carestia;
pagliaccio schiaffeggiato dai milioni:
girerai sempre l'ironico disco
della luna dei poveri
col tuo tacco di eterno vagabondo,
usignolo fischiato dal silenzio,
sull'ipocrita cuore del mondo.
Arcobaleno -
E' cessato or ora il temporale
e il prato odora
di menta glaciale.
E' un immenso fruscio di pioggia
che sgocciola lenta lenta
lungo i tremuli fili d'erba,
dalle ciglia rosee dei fiori.
Laggiù il cielo sereno
è il grande innaffiatoio di smalto azzurro
col manico variopinto dell'arcobaleno.
Effetto di nebbia
Nella nebbia luminosa del mattino
la casa dolcemente indietreggia e s'appanna;
si piegan sullo stelo, nel giardino,
dolci fiori di spuma e di panna.