UNDICI POESIE di Flavio Almerighi Procellaria Fermenti, Roma, 2013 con un Commento di Giorgio Linguaglossa e un Appunto dell'Autore

 

caro Flavio Almerighi,

ho letto con circospezione il tuo "Procellaria". Che dire?, è un libro che non fa sconti e non vuole che il lettore gliene faccia, ha una abbottonatura, una sua chiusura, un suo modo di difendersi dai lettori improvvisati o superficiali, è un libro che non si dà facilmente, non si offre e non vuole offrirsi al primo casuale lettore. La prima poesia «Rosso d'uva» è davvero splendida nella sua nuda crudezza, quella intitolata «Recessione» è un esempio di poesia, come si diceva una volta, impegnata, civile, tenuta su da un profondo sdegno, fatta di nervi scoperti e di umori repressi: c'è nello stile una visibile traccia della repressione ovattata e perdurante dei nostri tempi di recessione spirituale e stilistica, e lo stile tenta di ribellarsi a questa cappa di piombo che avverte attorno a sé. Procellaria è un libro che reca la traccia dello sconvolgimento dei nostri anni, la sua poesia si incide come  musica rock nei solchi dei dischi di un tempo in polivinile. È qualcosa d'altri tempi, come dire, sembra un libro fuori moda. È, come dire, uno stile che ha subito un oltraggio, e che reagisce all'offesa come può. Ecco secondo me spiegata la «durezza» di certe immagini e la tenuta compattata del verso che utilizzi (che sia il verso lungo o quello breve non importa) e che tu tenti in tutti i modi di cementificare; le immagini che utilizzi sono della stessa stoffa della nostra moneta che tende alla deflazione pur in tempi di recessione; tu utilizzi la deflazione delle immagini, lavori per sottrazione, scavo, svuotamento anche là dove c'è un vuoto da colmare; tu vai per svuotamenti successivi, lavori con la sega elettrica, con le immagini de-nucleate, per ossimori e per contrasto. Eccone un esempio:

 

Di là dal tempo

le ore si sviteranno

come tappi dal diserbante,

sarò un'edera

semi assiderata dal sole.

 

Ho poi l'impressione che i titoli delle poesie siano intenzionalmente depistanti: vogliono indicare una sineddoche che conduce fuori strada il lettore, non per ingannarlo ma per offrirgli una diversa possibilità di lettura che una interpretazione letterale dei titoli altrimenti non consentirebbero; è un modo ingegnoso per portare il lettore fuori strada, fuori norma, per provocare una sua reazione.

 

*

 

«Carissimo Giorgio, ti ringrazio per la selezione dei brani di Procellaria che mi hai richiesto. Ho voluto che il libro fosse così, senza prefazione, con un disegnino da terza elementare in copertina, è un libro questo che ho detestato fin dal suo inizio. Composto in pochi mesi di un periodo molto duro e cruciale della mia vita, l’estate 2012. Procellaria, come ben sai è un cugino del gabbiano, molti addirittura la confondono col gabbiano. E’ un animale solitario fin dalla nascita, la procellaria infatti è figlia unica come me. Vive di pesce e dei rifiuti gettati dalle barche, ma ha la capacità unica di sapersi lanciare in alto tra due ondate di mare robuste e parallele. E’ indistruttibile, come a volte anch’io mi stupisco di essere. Un caro saluto».

 

(Flavio Almerighi) 

 

 

Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

È chiaro che per Flavio Almerighi si può poetare soltanto con un linguaggio sobrio e sgombro di petali o di smottamenti del cuore; si può poetare intorno al «non-luogo», cosa non diversa che poetare intorno ai «luoghi», entrambi dissestati e s-postati altrove, secondo il disegno razionale (e irrazionale) che l'economia globale assegna loro. I «luoghi» quindi sono per Almerighi traslocabili ed «affabili», come gli «oggetti», «disciplinati» alquanto che «chiedono educatamente scusa» in quanto «protagonisti» del nostro tempo «d'erotica scolastica». La sopraffina ironia di Almerighi chiama le cose con il loro nome: «mi piacciono le donne quadrate...»,  comprime gli oggetti e le parole che parlano degli oggetti, perché sa che soltanto tenendole/i insieme mediante un collante si può sperare che esse/essi durino almeno il tempo della loro fruizione da parte degli utenti; anche l'«utopia perduta» è uno di questi «oggetti» e, come tale, dotato di valore e messo sul mercato dei non-luoghi sfitti. Nella asciutta poesia di Almerighi puoi notare in filigrana l'economia delle parole non educate e non amministrate che il poeta lascia filtrare con ironica disinvoltura occupato nelle sue faccende degli «oggetti» (ovvero, l'ottimo luogo «utopia imbottita d'erotica scolastica»), tra scoppi di risa e l'ironico motteggiare del cicaleccio di un quotidiano ormai denaturato, insignificante (il nessun luogo).

Davvero, non potremmo definire "optima" questa poesia di Almerighi, essendosi perduta la chiave ermeneutica per aprirci quei mondi "optimi" che un tempo lontano definiva il "luogo della poesia". È la poesia stessa a reclamare il proprio posto «nel vano degli oggetti», un posto davvero scomodo, e de-territorializzato.

 

Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999) Vie di Fuga (Aletti 2002) Amori al tempo del Nasdaq (Aletti 2003) Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007) durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008) qui è Lontano (Tempo al Libro 2010) Voce dei miei occhi (Fermenti editrice 2011) Procellaria (Fermenti editrice 2013) Sono le Tre (Lietocolle 2013) Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste quali Tratti, Prospektiva, Il Foglio Clandestino.

 

 

testi tratti da "Procellaria" Fermenti, Roma, 2013

 

 

Rosso d’uva

 

Questa notte un uomo
col ghigno
di un’acquasantiera
mi ha gettato
un giornale in faccia
poi mi ha accoltellato,

rosso d’uva
il sangue corre
dove non è mai stato
mi porta dietro,
quanto silenzio – penso
mentre muoio

e mi sveglio.

 

 

Ho sette anni

 

Passo senza muovermi
stormo di ruggini
come ogni volta,
ma prima invento
per chiunque non sia qui
indistinguibili particolari
di questo sottobosco
fra vipere e asparago.

Ai miei tempi
la fortuna non serviva,
mano a mano rallento
così essere
è più chiaro,
sento girare
la macchina delle falene
con un po’ di tormento.

Sono passato poco fa
senza insegne
le ali ammansite
da un sorriso,
io non parlo mai al plurale
nemmeno di noi,
ho sette anni.

 

 

procellaria

 

Quando dio decise
dimenticò il compasso,
ebbe comprensione
mi carenò, sempre pronta
a sfrecciare l’acqua
con violenza, ricetta base
di ogni portata.

Difficile esercizio
la dignità cui le lettere
sono possibili soltanto
a stomaco pieno,
ho il dovere di sorvolare
avvitarmi, colpire
senza esultanza per altro,

da sempre figlia unica
riposta sulla cresta
di due onde
e sola già dal nido,
l’unica mia vita
è trovare altra forza
continuare a predare.

 

 

Condono

 

C’è un tendone di cielo stasera

Da tenere teso per fumarci sotto

Mettere un cuscino da sonno imprevisto

Senza gravare un supporto di nubi,

Le dita muoiono di rabbia

O si fidanzano in caduta libera.

Il cuore è un buon camminatore

Non ha ali non ha piedi, c’è

Al buio è più vicino, metà sognato

Metà rimasto sotto il tendone

Mi disgrazia un futuro senza,

Condono a ogni rassegnazione

 

 

Ogni onesto predatore

 

Sono un maturo
embrione in filigrana
concepito a caso
nato per primo,
ampio oceano perduto
schiuso al nulla
cui chiedo silenzio
come niente appaia. 

Ogni onesto predatore
è mansueto, io no
sleale da sempre
so di non esserlo,
per altro dal Duemila
ho circa quarant’anni
stretti nel reticolato
di un mal di cuore 

senza immaginare
cosa passi nelle ossa
della buona sorte;
grazie per l’amore
grazie per l’aringa
per avermi trovato bene
nell’apparenza dissolta
di un uomo. 

 

 

poesia? 

 

poesia? Certamente, forse
Quasimodo si staglia a mezzanotte
scarno frutto dimenticato
sui giardini di Sala, sere d’astate
senza idea del pezzo
solo frammenti
Gesù,
non si riprende fiato
l’immediato è di necessità virtù
giusto per recapitare in porto
quello prima
e l’attrice al suo sipario
dapprima bruciato,
poi entrato nel profilo
bianco e nero senza destino
di cui tutti risero
dall’angelo domenicale
all’ecchimosi corsara dell’annullo,
sia declino in visibilio
o mezza rovesciata in rete
la procellaria non segue la strada
l’accorcia, ruota la fune
attorno alla pertica senza risalire
in balia del vento

 

 

Menù di pesce

 

Mi crocifiggeranno per questo,

dovrò stare attento

nei tre giorni seguenti

a non finire all’inferno.

Siamo al primo ti amo,

menù di pesce

e un paio di palpitazioni.

 

Il silenzio è facile

perché si anagramma meglio,

un giorno ho incontrato qualcuno

senza soprannome

abbiamo preso insieme un caffè,

diceva del bello nelle mie mani

che si incontrava perfettamente

con le sue.

 

Esistere per una carezza

la meno raccomandabile

passatempo e noia

cui adattarsi

senza consumare altra pelle,

scegliere il legno della croce

sarà pura formalità.

 

 

Incauta radura

 

In quanto tale la foresta

è una cattedrale,

vale la pena ricordarla

alta, millenaria

incauta radura

dai capelli verdi

sopra sottoboschi e moli

tanto agile da non pestare

nemmeno i propri passi,

bellezza, ciondolio di nidi

in penombra la vista cronica

nel silenzio carico di istinti,

la pioggia si sveglia

abbandonando quella poca

superstite

malinconia di donna.

 

 

La camicia nuova

 

Con la camicia nuova

e orgoglio fesso da poeta

attraversa la piazza

tutta chiusa in vacanza

i denti bucati di fumo

forse per troppe parole,

il consigliere lettone e signora

drappellano i portici

inscenando dignità

sulle vetrine del tatuatore,

così va la pioggia

teneramente secca

senza speranza sparire

 

 

La recessione 

 

Pizzerie etniche a ogni semaforo

il kebab è insapore ma a buon prezzo. 

Esportiamo i migliori per i manovali 

la bilancia è attiva, la decrescita acquisita.  

 

I nostri vecchi rovistano cassette a mercatini chiusi 

fuori orario sotto la pioggia battente; 

chi è stato operaio chi facoltoso perquisisce il nulla

i bambini per ora non sanno della minestra sporca. 

 

La sera è l’ultima recita, la notte rilegge Pasolini

alternando saette a un’aria che odora di cane bagnato,

treni e corriere portano pendolari in ritardo 

e con le paghe svanite.  

 

Le grandi città non resistono più

tutti parlano, pochi propongono nessuno accetta. 

I vecchi palazzi carichi di vivibili trascorsi 

sono chiusi per sempre soprattutto il sabato.  

 

Le piccole fabbriche traslocate o scosse

fanno ressa con altre nazioni sulla via della seta

per il solito tagliente cinismo dei cinesi

nessun Marco Polo le riporterà indietro. 

 

I banditi hanno facce da impiegati onesti,  

i funzionari di partito hanno adottato le modernità,

alzano la gonna di impegni ben più sciolti

smerciano nero di seppia senza luna.  

 

Lo zoccolo del cavallo è infranto a terra

poco distante un fuoco, 

berlino Millenovecentoquarantacinque

mangiamo carne scottata nel silenzio decomposto 

del mondo che è già qui.

 

 

L’inizio

 

L’inizio soffoca e dilata

l’ozioso diletto di Giulietta,

esibire il seno

a tre cavalli neri

scampati alla scacchiera,

la natura intorno

gira su se stessa

spezza silenzi senza fine, 

preferisce ferite dolciastre  

alle caste apologie

di musichette estive, 

non so come si sentirà

labbra di pesca finché

non capirà che l’amore

è deliziosa dermatite, 

arciere tutto ali

in ogni caso

volubile in acqua,

non esiterà a spogliarsi,

superato il taxi giallo

si fermerà a fissare

il cielo avaro 

ma sempre più blu

come ripetono cantanti

stanchi di ascoltarsi.