Marie Laure Colasson, TritticoStrutture dissipative, 2019, Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, 2005, Ermeneutica di Gino Rago, Giorgio Linguaglossa. La catena del colore è analoga alla catena del significante, non ha propriamente fine, 

 

Giorgio Linguaglossa


Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa
M.L. Colasson, Struttura dissipativa, 2016

 

Ermeneutica di Gino Rago

 

Cosa nitidamente si coglie in questi versi di Marie Laure Colasson?
In primo luogo, il tema dello sguardo, in secondo luogo, l’altro grande tema, la «caduta».

Il tema dello sguardo nella Colasson è analogo a quello di Roland Barthes de La camera chiara. Nella fotografia, riguardo al rapporto parola-immagine, Barthes scrive: «dandomi il passato assoluto della posa la fotografia mi dice la morte al futuro, che il soggetto fotografato sia o non sia già morto, ogni fotografia è appunto tale catastrofe», nella ripetizione senza fine di ciò che ha avuto luogo una sola volta. Da qui lo straniamento in Marie Laure Colasson verso la poetica dell’istante infinito, o, se si vuole, dell’infinito istante.

In secondo luogo, la caduta, direi la poetica della «caduta». Qui non si può fare a meno di pensare alla «caduta» di Tadeusz Różewicz, secondo l’idea di Nietzsche di caduta come «stato naturale» dell’uomo d’Occidente.

Marie Laure Colasson, come per Ágota Kristóf che ha transitato dalla lingua ungherese alla francese, ha fatto il percorso inverso: dalla madrelingua francese alla italiana, ma continua a scrivere e a pensare nella sua madrelingua francese; in tal senso, non rientra nel fenomeno trans-linguistico dell’esilio sempre almeno secondo l’idea di **Iosif Brodskij, il quale ha trovato rifugio nella sua lingua d’origine: «La tua capsula è il tuo linguaggio: per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era per così dire la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula […]».

Giorgio Linguaglossa parla di «un retro-linguismo», perché la poetessa francese ritorna alla sua lingua a partire dall’italiano; approda al francese a partire dalla sua pittura astratta, dalla «struttura dissipativa» indagata nella sua pittura.

«L’assenza di regole sintattiche e di punteggiatura sono la prosecuzione in poesia della sua ricerca figurativa, che non tratta di astrazioni geometriche o coloristiche come in Kandinsky o Rotcko, ma che considera l’astrazione come indagine sullo s-fondamento del fondo. Il che è una cosa ben diversa.
Che poi la Colasson abbia individuato questo suo personalissimo percorso prima di incontrarsi con i nuovi orientamenti (parlo al plurale) della nuova ontologia estetica, non è dovuta a mera causalità o casualità. O meglio, c’è una ragione anche nella casualità, gli incontri non avvengono per caso.
La scelta di un linguaggio figurativo astratto è la medesima scelta di un linguaggio poetico astratto (ma pieno, anzi, pienissimo di oggetti concretissimi). Come si spiega tutto ciò? È semplice, a mio avviso una scelta figurativa, una scelta di tematica per un poeta o un plot da parte di un narratore, non sono mai scelte innocenti ma il risultato di una politica estetica o, se volete, di una scelta di poetica, ovvero, una scelta figurativa e poetica che si sottragga alle petizioni ideologiche post-moderne o tardo moderne del tardo capitalismo globale in cui abbiamo la ventura di vivere».
«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».1

Condividendo le riflessioni sul retro-linguismo attribuito da Linguaglossa alla poesia della Colasson, devo notare che di fronte a questo genere di esperienza poetica, con la «caduta libera» ci troviamo di fronte a un fatto linguistico del tutto nuovo, tra bi-linguismo, trans-linguismo e retro-linguismo. La poetessa francese propone una poetica di «strutture dissipative», di entanglement, di «infiniti istanti», vale a dire frammenti di quella che convenzionalmente chiamiamo realtà.

Questi frammenti spingono l’osservatore-lettore fuori della cornice, ad immaginare cosa possa esserci al di sopra o al di sotto, a sinistra o a destra di quei frammenti di forme raggelate e sottratte al tempo e cristallizzate in pose fotografiche:

“[…] I suoi occhi frugavano e rovistavano
da destra a sinistra

da sinistra a destra
una mobilità spaventosa […]”

Perché questa procedura? Risponderei, in breve sintesi, perché la Colasson si colloca a grande distanza dalla poesia rappresentazionale fondata sulla centralità dell’io panopticon.

Di fronte al problema ventilato da lombradelleparole.wordpress.com «La fine della poesia e il compito del pensiero poetante», e «Quale poesia scrivere dopo la fine della metafisica?», la Colasson con i versi di In caduta libera si muove verso una poesia fortemente distopica, con un linguaggio distopico e frammentato in linea con i principi della nuova ontologia estetica che condenserei così: un polimorfismo nutrito di stile nominale, asimmetrie, dissimmetrie, entanglement con una nitida percezione del vuoto che si apre dopo la fine di ogni verso, come di ininterrotti abissi, spazi bianchi, spazi di non nominazione, horror vacui di contro alla ossessione del pieno della poesia rappresentazionale ed epigonale di questi ultimi decenni, una sorta di invariante petrarchesca.

Nella poesia della Colasson il retro-linguismo interagisce con tutti gli altri linguaggi: pittura, musica, immagini fotografiche, danza, voce… in un peculiarissimo stile entanglement.

1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 113

*

Ad un interlocutore che mi aveva inviato una serie di immagini «artistiche», ho posto la seguente domanda:

Cosa e come sarebbe la Gioconda oggi? Oggi, dopo la fine della rappresentazione? Ecco la risposta del 2005 di

 

 

Lucio Mayoor Tosi

 

Giorgio Linguaglossa

Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, 2005

 

caro Gino Rago,

hai messo un punto di chiarezza sul polittico, sulla sua funzione nella forma-poesia e sul significato «politico» di una tale forma. Il «polittico» mostra, indirettamente, la «opacità» della poesia di accademia. Confrontiamo un polittico con una poesia della tradizione e il risultato non potrà che essere eloquente.

Il punto centrale del libro di Giorgio Agamben, Ontologia e politica, a cura di Valeria Bonacci, Quodlibet, 2019, pp. 576 €. 26,00, verte sulla «impossibilità di parlare».

Che cosa significa «impossibilità di parlare»? Significa, secondo Agamben, che il linguaggio è qualcosa che eccede costantemente i soggetti che lo parlano: gli esseri umani nascono in-fanti (non-parlanti), e devono poi apprendere il linguaggio fino ad una certa età, un linguaggio che evidentemente non hanno creato loro ma che ereditano dalla tradizione culturale in cui sono nati. Questo significa che l’atto di dire «io», di parlare e situarsi nel linguaggio, racchiude qualcosa di paradossale. Il soggetto del linguaggio può essere tale, infatti, solo costituendosi in un’insanabile frattura: quella fra la propria (presupposta) singolarità che resta indicibile e il linguaggio che si presenta come una grammatica di regole astratte che vengono apprese con fatica.

La poesia intesa come «modello di inoperosità» da Agamben vive nella destituzione dei dispositivi del Politico. «La schiavitù di massa» si può leggere agevolmente sulle opere letterarie e di fiction di oggi in quanto queste ultime oscuramente si reggono su di quella. La luminosa «macchina antropologica», che Agamben riprende da Jesi, è l’eco dell’annichilimento dell’animale che l’uomo si porta dentro, sono esempi delle opacità con cui l’archeologia ha da confrontarsi. Possiamo concludere che il «polittico» è una tipologia di archeologia che si occupa della «opacità» della vita politica dell’uomo contemporaneo e dell’indebolimento della sua «memoria».

Il potere oggi si presenta come struttura paradigmatica che governa restando nascosta, si configura come habitat, «milieu», dove avviene la «nuda vita». In situazioni ordinarie, tale forma di potere è sul piano empirico del tutto invisibile. Il «polittico» è la sede formale in cui la invisibilità-opacità del sistema politico diventa visibile.

Per Agamben, la poesia è ciò che resta della lingua, dopo che di essa sono state disattivate le normali funzioni comunicative e informative. Pertanto, la lingua della poesia, la lingua che resta, «ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde»1. Infatti, secondo Agamben, «l’immagine di pensiero» di cui parla Benjamin sarebbe da intendersi, come l’allegoria rinascimentale, un mistero «in cui ciò che non può essere esposto discorsivamente per un attimo brilla attraverso le rovine del linguaggio»2

Quato alla poesia, intesa come sopravvivenza di una «lingua morta», Agamben evidenzia il fatto che in essa si condensano «immagini mobili», ma senza vita, anche se è possibile, quasi per incanto, che il poeta le rianimi e che le renda di nuovo canto, musica e voce. Se è vero che parlare e poetare significa fare esperienza della lettera come morte della lingua e della voce, tuttavia il mitologema originale della poesia prevede proprio la memoriale conservazione della voce nella lettera 3. Il poeta, infatti, è «colui che nella parola genera la vita» e tale vita presuppone una mutazione antropologica, dal momento che essa «è sottratta tanto al vissuto dell’individuo psicosomatico che all’indicibilità biologica del genere».4

(Giorgio Linguaglossa)

1 Id., «Che cosa resta?», in http://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cosa-resta [dicembre 2018].
2 Id., La ragazza indicibile, in Giorgio Agamben, Monica Ferrando, La ragazza indicibile. Mito emistero di Kore, Milano, Electa, 2010, pp. 7-32; la citazione è a p. 25.
3 Id., Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Torino,Bollati Boringhieri, 2009, p. 16. 17 Id.,
Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 71-72.
4 Ivi, p. 88