Orfeo nella poesia di Rainer Maria Rilke

 

  Una delle strade più intense della poesia metafisica europea è stata sicuramente percorsa da Rainer Maria Rilke, il poeta forse più egocentrico della letteratura europea del Novecento. Non casualmente infatti fu scelto da Heidegger a sostegno della sua riflessione sul carattere “eventuale” dell’opera d’arte e sul linguaggio poetico come pensiero dell’essere, dove i termini Dichten (poetare) e Denken (pensare) vengono anche messi in stretto rapporto etimologico.

  Poeta-filosofo, insomma, sicuramente per il carattere altamente concettuale della sua opera, che si innesta sulla tradizione tedesca filosofico-letteraria della Dingmystik (“mistica della cosa”) e su quella della filosofia della vita con Nietzsche, Simmel, Bergson. A Nietzsche in particolare farà capo anche con l’elaborazione di una precisa metafisica dell’immanenza. Ogni trascendenza viene qui abolita a favore di una grande unità coincidente con la dimensione interiore, intesa come autentico luogo dell’essere. Sempre con Nietzsche infine vede nell’arte la sola vera attività metafisica dell’uomo.2

  Le implicazioni della sua poesia sono a dir poco molteplici, al punto da dar vita a una quantità torrenziale di contributi critici, a volte non sempre di sicura attendibilità, soprattutto quando indugiano su un ritratto serafico del poeta o semplificano la sua opera con acritiche caratterizzazioni religiose. Senza poter pensare di ripercorrere in minima parte la storia della critica rilkiana e tanto meno di illustrare esaurientemente la complessa poetica del nostro autore, vorremmo limitarci ad una breve riflessione su quello che può dirsi il valore della “misura” nel cuore dell’opera più matura di Rilke, quella che fa capo all’esperienza udinese e ai Sonetti a Orfeo.

 

Secondo Furio Jesi, che è stato in Italia tra i più acuti studiosi della sua opera, Rilke rientra nel vasto filone di pensiero che, dalla fine del secolo scorso, torna al mito passando per un umanesimo che fa della morte l’elemento portante. Infatti, i simboli che egli adopera «posseggono la natura delle genuine epifanie del mito, cui si potrebbero attribuire mille significati senza mai giungere alla verità».3 Tuttavia, pur non indicando nessuna trascendenza, restano simboli perché rimandano alla morte. Così Rilke si trova accomunato a quegli artisti «che avvertono la necessità di evocare entità ‘riposanti in se stesse’, prive di significato che trascenda la loro parvenza, e simboliche in quanto implicanti un rinvio a se stesse e insieme al nulla». 4 Proprio guardando a questo nulla, alla morte, Rilke si taglia una “misura”, un paradossale equilibrio, in cui la parola poetica si carica di proprietà salvifiche e redentrici nell’unico compito che le compete: l’esercizio della virtù come preparazione alla morte, il solo umanesimo di cui si senta capace.

Come si articola però questa paradossale fiducia nella parola, paradossale proprio perché connessa al sentimento del limite della parola stessa?

 

  «Non vi stupì sulle attiche stele la cautela / del gesto umano? (…) Ricordate le mani, / come posano senza peso, benché nei torsi sia il vigore. / Questi maestri della misura sapevano: noi arriviamo fin qui, / questo è nostro, di toccarci così; più forte / premono su noi gli dei. Ma questa è cosa degli dei». (da Elegie udinesi, II, vv. 66-73)

 

  Le stele attiche furono probabilmente quelle che lo colpirono in un suo giovanile viaggio in Italia. Gli uomini in esse raffigurati sanno cosa appartiene a loro e cosa no, sanno cioè che possono toccare il modo solo umano: “così” e non più. Gli dei hanno una misura che resta inaccessibile.

  Il modo “solo umano” appartiene anche alle parole. Ma questo limite viene assunto da Rilke come spazio di fecondità: “questo è nostro”. In un certo senso il poeta vorrebbe superare la sfiducia, nata con l’epoca moderna, nelle possibilità espressive della parola. Al riguardo Claudio Magris ha scritto: «Il mondo moderno non conosce l’identità di essere e parola, sulla quale in origine si fonda ogni conoscenza ed anche ogni religione e poesia: la rete di somiglianze e di analogie che permetteva di afferrare l’essere nella parola si è allentata e sciolta, abbandonando le cose a un’enigmatica e insondabile essenza e le parole a un’orgogliosa, tautologica funzione di mero autoriferimento».5 Con l’idea di un’autosufficienza radicale della parola poetica Rilke non fuoriesce da tale percorso, dato che autosufficienza e sradicamento della parola dall’essere vanno di pari passo. Tuttavia, nella sua ansia metafisica, tenta una posizione che in un certo modo già fu di Dante. La poesia del Paradiso è infatti tutta nella tensione di spingere il linguaggio fino alle estreme possibilità per tacere solo di fronte all’indicibile trascendente, dove il limite non inficia comunque una validità peculiare del linguaggio. Ma mentre per Dante la parola era valida proprio nei confronti di tutta la realtà terrena, ossia dell’essere su cui si esercita l’esperibilità umana e trovava il suo confine solo al cospetto del divino oltremondano, per Rilke il limite su cui il linguaggio si arresta non è più nel trascendente, al quale non dà credito, ma è immanente a tutto il reale. Egli non può più essere Dante e il suo rapporto con la parola, che vuol dire l’essere, non può che vivere del paradosso. È quindi già nella realtà che si fa esperienza del “fin qui”.

 

Questa sua idea di “misura”, Si può supporre, gli avrebbe permesso di non ridursi al silenzio come Rimbaud. Ma proprio tale idea testimonia quanto Rilke sentisse pericolosamente vicino l’approdo di Rimbaud. Operare quindi nel senso di un paradossale valore del linguaggio gli sembrò l’unica strada possibile. Se la parola è gesto umano della “misura” calato nella realtà fattuale, il “fin qui” e non oltre è vittoria sul silenzio metafisico ma anche sua affermazione.

Il mito che nell’opera rilkiana esemplifica la duplice valenza del linguaggio è quello di Orfeo, dio della parola ma anche dio del silenzio. Egli canta e ascolta, ascolta prima di cantare, è insomma il dio della “misura”. Per tale motivo egli è colui che si colloca tra Dioniso e Apollo provocandone la sintesi: tra il dio pre-logico, pre-linguistico dell’origine e il dio artefice della parola e della ragione, della proporzione simmetrica e solare. Orfeo è perciò l’ambito in cui le cose esistono per essere immesse nell’eterno flusso di metamorfosi (Dioniso) attraverso l’uso adeguato della parola poetica (Apollo). È con tale figura che Rilke intende identificarsi, egli vuole essere come Orfeo.

 

  «E quasi fanciulla era. Da questa /unita felicità di canto e lira nacque, / (…) e nel mio orecchio un letto fece. // E in me dormì. Tutto fu il suo dormire. / (…) Dormiva il mondo. O dio del canto, come / l’hai tu compiuta, che non desiderò / prima essere desta?» (da Sonetti a Orfeo I,2, vv. 1-11).

Il mondo orfico è nella sua essenza un mondo dell’orecchio e il dio che ascolta partecipa al sonno dell’origine per tradurlo in canto. Questa intuizione sulla natura della poesia aveva fatto breccia nell’immaginazione di Rilke già dai tempi della scuola. L’occasione fu l’approccio, durante le lezioni di fisica, con il fonografo. Anni dopo il poeta tedesco ebbe modo di ritornare sullì’episodio in occasione dei corsi di anatomia all’Ecole des Beaux Arts, durante i quali la sua fantasia fu sollecitata dalla sutura coronale del cranio. Ne nacquq un breve saggio dal titolo Urgerausch (Rumore primigenio, 1919), nel quale la sutura coronale viene per analogia accostata alla «linea fitta e sinuosa che la punta di un fonografo inscrive sul cilindro in movimento dell’apparecchio incisore. Che accadrebbe se ingannassimo quella punta e, invece di ricondurla lungo la propria traccia, la conducessimo per una via che non è la traduzione grafica di un suono, ma di una cosa esistente di per sé (…), che fosse, per esempio, proprio la sutura coronale? Dovrebbe originarsi un suono, un seguito di suoni, una musica…».

 

In seguito, in una lettera del 1926, il poeta torna sul problema traendone ulteriori conseguenze: «Siccome l’essenza del grammofono ha origine dalla rappresentazione grafica dei suoni, perché non si dovrebbe riuscire a trasformare in fenomeni sonori linee e disegni di origine elementare che si trovano nella natura? La linea, per esempio, così singolare della sutura coronale, convertita in dimensioni di profondità, non dovrebbe infatti diffondere una specie di ‘musica’? E non sarebbe una cosa inaudita (…) convertire in suoni le innumerevoli cifre della creazione, che nelle loro strane curve e variazioni durano nello scheletro, nelle pietre…, in mille luoghi? L’incrinatura nel legno, l’andamento di un insetto: il nostro occhio è esercitato a seguirli e a coglierli. Quale dono per il nostro udito, se si riuscisse a trasformare questo

zig-zag (…) in avvenimenti auditivi!».

 

Orfeo, ponendosi con l’ascolto al livello del mondo pre-logico, cifrato della natura, trasforma in fenomeni sonori gli innumerevoli segni di cui la realtà è costituita e li convoglia in un canto di natura celebratrice e metamorfica. Inoltre, nella sua essenza di «nume dell’unificazione», si oppone alla natura umana strutturalmente divisa, priva di levità, viziata dalla voluttà di possesso. Egli infine non è tanto un essere che si esprime in canto, ma è il canto per eccellenza: «Il canto che tu insegni non è brama, / non è aspirazione che uno infine appaga. / Cantare è essere. Facile al dio. / Ma noi quando siamo?» (da Sonetti…, I, 3, vv. 4-8). Al di fuori del canto della poesia dunque non esisterebbe essere, non solo duraturo, ma vero. Noi non siamo: solo Orfeo, il poeta che traduce il mondo in canto, che ne trarrebbe perciò il senso più vero, è.

 

Con la parola poetica, così come viene intesa in tale contesto, la parola stessa riacquisterebbe una sua positiva tangibilità. La poesia dei Sonetti doveva incarnare, nel disegno rilkiano, il compimento di quel che era stato preannunciato nella Elegia IX:«Anche il viandante dal pendio della cresta del monte / non porta a valle una manciata di terra, a tutti indicibile, ma /porta una parola conquistata, pura, la genziana / gialla e blu. Forse noi siamo qui per dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutta, finestra, - / (…) ma per dire, comprendi, / oh per dire così, come neppure le cose stesse / hanno mai pensato nell’intimo di essere.» (da Elegie…, IX, vv. 28-35). In questo dire umano si condensa tutto il compito dell’uomo rilkianamente inteso: «Qui è il tempo del  dicibile, qui la sua patria.”»(ivi, v. 42).

 

Ritorna tutta l’emblematicità delle stele attiche: è la misura umana, che può e infine deve nominare quel che le è stato affidato. Solo in ciò starebbe la sua grandezza, la sua dignità: «E queste cose, che vivono / del passare, comprendono che tu le celebri; effimere, / ci affidano un’istanza salvifica, a noi, i più effimeri. / Vogliono che le trasmutiamo nell’invisibile cuore / in – o, infinito – in noi! Chiunque siamo alla fine.» (ivi, vv. 62-6).

  Giustamente, “quel che sta a cuore a Rilke è il recupero, all’interno della sua perfetta immanenza, di una ‘durata’ (…) dell’uomo.8 L’uomo diviene spazio del paradosso; legato strutturalmente alla finitezza, può costituire il punto limite in cui si attua la convergenza tra il dicibile e l’indicibile, il visibile e l’invisibile. Idea di lunga tradizione, a pensarci bene, ben sintetizzata nell’immagine dell’uomo come un indivisibile di corpo e anima. E in effetti Rilke non disdegna di riferirsi al pensiero cristiano usandone figure (San Francesco, gli angeli) e concetti (il “cuore”, la “povertà”, l’ “ascesi”, l’ “interiorità”) che in esso si sono caricati di un’intensa stratificazione semantica. Tuttavia il suo uso va in direzione totalmente anticristiana e sostanzialmente gnostica.

Con questi presupposti il tardo Rilke entra sempre più nell’ambito della poesia “cifrata”. Come Orfeo egli vuol tradurre il suono la vita dell’universo e innalzare la parola al punto in cui si infrange nell’ineffabile. Tutta la produzione francese degli ultimi anni possiede questa caratteristica: poesia dell’intangibile, dell’immaginario, dell’impalpabilità ontologica. Esito contraddittorio, direbbe chi ingenuamente volesse cogliere in una poesia che dice di avere come scopo l’essere, solo la tangibilità, la positiva affermazione dell’essere stesso. Non avrebbe infatti compreso la “misura” rilkiana e la natura dell’immanenza, che sottopone l’essere a un radicale processo di scarnificazione. Quando si fa dell’essere un termine isolato, qualcosa che non abbia relazione con niente che sia altro da lui, è inevitabile che la ricerca di cosa l’essere è finisca in ciò che l’essere non è. L’essere sarebbe quell’unicum originario nella cui immanenza il nulla fa da necessario contraltare all’essenza.

 

Quindi il francese. Lingua presa in prestito, “altra” dalla lingua madre: per il poeta diventa l’ideale mezzo espressivo per l’inespressivo, per far coesistere la forma con l’informe. Accostandosi a Valéry, affascinato dal presentimento dell’ineffabilità contenuto nella sua ricerca di equilibrio geometrico, Rilke pubblica una traduzione delle sue poesie nel 1925. È il primo passo verso la produzione autonoma in lingua francese, la cui prima pubblicazione è del 1926, l’anno della sua morte.

  Molte di queste poesie esplicitano il nesso vita-assenza, gravità e assoluta leggerezza, terra-cielo; la poesia che segue è emblematica di questo gioco estremo di rapporti, costituendo così un perfetto esempio di poesia astratta e cifrata. «Palma, dolce letto gualcito / dove stelle assopite / lasciarono dei solchi / alzandosi al cielo. // (…) Oh letti, le mie mani,  / abbandonati e freddi, / lievi di un peso assente / di quegli astri di rame».10 La semplice palma di una mano, con le sue linee, diventa il luogo privilegiato per lo scambio di tensioni opposte, al punto da subire un processo di riduzione da cui si sottrae solo la trama dei solchi, cifra dello spazio che si apre al nulla: «Come ancora ravvisare / cosa fu la dolce vita? / Basta, forse, contemplare / nelle palme l’infinita // rete incisa delle linee / (…) mano ormai fatta di niente.»11.

 

Due altri cicli di poesie francesi saranno dedicati invece alle figure della rosa e della finestra. È evidente che si tratta proprio di quel genere di simboli cui accennavamo all’inizio: immagini che riposano in se stesse, che non rimandano ad altro da sé ma che tuttavia rimandano all’assenza, al nulla, alla morte. Con l’immagine della rosa, ad esempio, il poeta finì per tematizzare l’intensità emotiva di chi si rivolge al centro opaco, all’origine posta dentro e di là dalla vita, talmente originario nella sua immanenza da essere inseparabile dal nulla. Egli la volle addirittura sulla sua tomba nel cimitero di Raron: «Rosa, o pura contraddizione, piacere / di essere il sonno di nessuno sotto tante palpebre».

  La rosa traduce nell’invisibile attraverso petali che si mutano in palpebre, figurando quel sonno che appartiene alla profondità della vita, già indicato come orfico. Ma il sonno è “di nessuno”. Si tratta di chi è già passato nell’invisibile e che pertanto non esiste più secondo Rilke come soggetto, non esiste più neanche come persona: è ormai puro atto contraddittorio, dell’essere che si spinge nel nulla e lì consiste.

  Anche la finestra appartiene a quella dimensione in cui le cose esistono solo in quanto fulcro di tensioni e rapporti. Per questo il poeta la eleva a figura dell’equilibrio geometrico, assumendo così la caratteristica di mediazione tra il limitato e l’illimitato: «Non sei la nostra geometria, finestra, / semplicissima forma / che limiti leggera / la nostra vita enorme?».

  Nella nostra letteratura l’influsso di Rilke è generalmente mediato, non palese, e si confonde con la lezione neoromantica e del simbolismo. A voler ritrovare una qualche corrispondenza, dobbiamo indicare il filone orfico-ermetico, con i nomi di Campana, Onori, Luzi. Ma le differenze sono superiori alle possibili analogie. Difficilmente troviamo nei nostri autori, anche quelli più “metafisici”, la tensione monastica di Rilke e il suo rigore gnostico. Solo con Luzi forse si può riconoscere una medesima tendenza ad una visione onnicomprensiva del reale, una comune  drammatica ansia di totalità imprescindibile da un’intensa vita interiore. Ma la loro fratellanza è su opposte barriere: sorgivamente creaturale, quella di Luzi, in aperta direzione della trascendenza.

 

1 Per la Dingmystik, la cosa, fuggita in una remotissima sfera, custodirebbe il segreto della divinità. Il suo silenzio è il silenzio del divino di fronte alla presunzione e al dominio umani. Le cose parleranno all’uomo, esperimendo così la loro essenza divina, solo quando l’uomo si porrà nei loro confronti in atteggiamento umile. Questa tradizione, che non si comprende senza la mistica eckartiana, include, oltre Rilke, Dürer, Goethe, Winkelmann, Stifter, Mörike, Maeterlink, Hofmannsthal

2 «L’arte – e non la morale (…) è la vera attività metafisica dell’uomo; (…) solo come fenomeno estetico l’esistenza del mondo è giustificata.» – Nietzsche, La nascita della tragedia Milano 1987, p. 9. Rilke aveva conosciuto l’opera di Nietzsche grazie a Lou Andreas Salomé. Infatti, la Nascita della tragedia fu da lui studiata a fondo e postillata in uno scritto del marzo 1900.

3 F. Jesi, Letteratura e mito, Torino 1968, pag. 17.

4 ivi, pag. 18

5 C. Magris, L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino 1984, pag. 184.

6 R. M. Rilke, Rumore primigenio in Del paesaggio e altri scritti, Milano 1949, pag. 130

7 Lettera a Dieter Bassermann del 5 aprile 1926 in R. M. Rilke, Lettera da Muzot, Milano 1947.

A. Destri, Le “Duineser Elegien” e la poesia di R. M. Rilke,  Roma, 1970 pag. 58.    

9 Cfr. R. Guardini, R. M. Rilke. Le Elegie udinesi come interpretazione dell’esistenza, Brescia 1974.

10 R. M. Rilke, Poesie francesi: Verzieri. Le quartine vasellane, Milano 1948, pag. 14.

11 Ivi, pag. 52.

12 Ivi, pag 80.

 

 

 

La scomparsa dell’interlocutore

Nel suo libro di memorie, Nadezda, la moglie del poeta russo Osip Mandel’stam, mette sulla carta alcune riflessioni del marito straordinariamente importanti per la poesia del Novecento. Parlando di alcune poesie del marito, scrive che «Mandel’stam il quale non aveva mai mosso un passo per venire incontro ai suoi lettori, che non si preoccupava mai d’essere capito, considerando ogni suo ascoltatore e interlocutore alla sua stessa altezza e che perciò non diluiva e non semplificava i suoi pensieri, ha reso proprio questi versi accessibili a tutti, facili, aperti».

Il problema posto da Mandel’stam con grande chiarezza e perspicuità è il seguente: ogni grande poesia conquisterà i propri lettori nell’avvenire e il poeta non si deve affaticare a ricercare una facile riconoscibilità ed un facile applauso presso i contemporanei. E in un saggio giovanile intitolato «Sull’interlocutore» (pubblicato in traduzione italiana sul n. 1 di «Poiesis», 1993), il poeta russo indicava nell’interlocutore il problema centrale della poesia del Novecento. La poesia moderna aveva, per il poeta russo, perduto il proprio «interlocutore» (concetto da non identificare e appiattire con quello di «pubblico»), e questa perdita avrebbe condotto la poesia moderna nel vicolo cieco della «scatola acustica», nel «laboratorio per impagliature» della tarda poesia del «simbolismo». Rivolgendosi alla «scatola acustica» dell’ascoltatore o del lettore per edificarlo, sedurlo, corteggiarlo con la narcisistica esposizione della propria musicalità, la voce del poeta simbolista nasce, per Mandel’stam, già sedotta, radicalmente impotente ad esprimere il «messaggio» ultimativo che i tempi richiedevano al poeta. Per il poeta russo la scomparsa dell’interlocutore coinvolge il problema della destinazione finale della poesia; per il poeta acmeista non c’è destinazione senza destinatario, come non v’è destinatario senza interlocutore, essendo questi l’obiettivo ultimo, e quindi più importante, del proprio lavoro di poeta.

Questo nesso problematico che il poeta russo coglie con grandissima chiarezza già negli anni Dieci, è di grandissima importanza per cogliere gli snodi fondamentali della poesia del Novecento. E comunque, un esito significativo della crisi dell’interlocutore è dato appunto da un certo tipo di arte, diremmo noi oggi, autoreferenziale, ovvero, che si rivolge alla «scatola acustica» del fruitore o del lettore. Non si capisce nulla della poesia di Mandel’stam se non si tiene ben fermo il criterio orientativo della sua poesia: la ricerca di un «nuovo» interlocutore e di un «nuovo» «sistema architettonico». Ecco qui spiegato il grande interesse che sul poeta russo esercitò l’architettura, da quella semplice ed elementare dell’alveare delle api, fino alla complessità delle facciate neoclassiche di San Pietroburgo, fino allo studio della stratificazione tettonica dei «sassi» trovati a Koktebel, sulle rive del mar Nero, nei tardi anni Trenta, che gli dischiuderanno i segreti della «costruzione» della Commedia dantesca.

La ricerca di una nuova configurazione del sistema simbolico coincide con la presa d’atto della scomparsa del mondo in cui il poeta era ancora inserito in una società e la comunicabilità del suo «messaggio» non era affatto posta in predicato. Insomma, alla fin fine un problema apparentemente secondario ed astruso come quello dell’«interlocutore» coinvolge e trascina con sé quello ben più complicato della nuova configurazione del sistema simbolico.

È sintomatico che, dall’altra parte dell’Atlantico, un poeta tormentato ed intellettuale come Auden ci abbia lasciato una profonda meditazione sulla «crisi» dei valori del nostro tempo con il proposito di un’arte che sconfigga l’angoscia e la dissoluzione morale della nuova civiltà di massa. Il poeta americano comprende come l’artista simbolista sia impotente a percepire e rappresentare il reale nella sua nuova configurazione; la ricerca di un «nuovo» pubblico per la propria poesia coincide con l’abbandono di una poesia che si risolva, mallarmeanamente, in gioco fonico, in seduzione musicale. L’ultima fase del simbolismo viene da Auden ripudiata proprio per il suo affidarsi unicamente alla magia della parola poetica. I procedimenti simbolici interni vengono esorcizzati a strumenti retorici consapevoli in vista di una «clarté» cartesiana, per una «nuova» comprensibilità di una poesia impegnata sul piano dei valori, una poesia concreta ed oggettiva. Nel 1938 Auden scrive nella Introduzione a «The Oxford Book of Light Verse»: «Egli (l’artista) vuol dire la verità, ma vuole anche divertire, e il tipo di verità che egli dice (…) dipende in parte dallo stato della intera società (…) Più una società è instabile, e più l’artista è distaccato da essa, più chiara è la sua visione, ma più difficile è per lui comunicarla agli altri. Nei più grandi periodi della letteratura inglese, come l’elisabettiano, la tensione era al suo apice. L’artista era ancora sufficientemente inserito nella vita della sua epoca da sentirsi accomunato al proprio pubblico, e allo stesso tempo la società era in stato sufficientemente fluido, perché le convinzioni generali potessero gravare sulla visione dell’artista».

Dietro e sotto la sicurezza del tegumento formale dei suoi versi viene dissimulata la forma-merce dell’opera d’arte e la nuova configurazione di massa del pubblico.

 

Quando Auden scrive: «Here am I, here are you: / But what does it mean? What are we going to do?», intende appunto la crisi di identità del poeta e del pubblico. Il problema dell’«interlocutore» è nella presa d’atto, semplice e disarmante, «che cosa stiamo facendo?». A chi scrive il poeta? «Io» e «Tu» sono l’uno di fronte all’altro, irriconoscibili, separati dalla impossibilità di una comprensione reciproca. E qui sorge il problema che assillerà Auden lungo tutta la sua esistenza: quale poesia scrivere? È ancora possibile scrivere poesia? Chi è il destinatario della mia poesia?

 

Private faces in public placet

Are wiser and nicer

Than public faces in private places

 

(Facce private in luoghi pubblici / Sono più saggi e gradevoli / di face pubbliche in luoghi private), scriverà in una dedica in versi a Stephen Spender. Auden risolverà la questione a modo suo, scrivendo per un largo pubblico, in termini però intelligibili soltanto ad uno più ristretto, in modo tale che quest’ultimo possa riconoscere «private faces in public places», piuttosto che scegliere la via contraria rischiando così di appiattire il pubblico ristretto sul livello della media comprensione del pubblico più vasto.

«The Orators» si può e si deve leggere seguendo questa impostazione problematica: ora il poema è intessuto di una miriade di allusioni cifrate, ora, invece, il poeta si inoltra nella illustrazione della crisi della propria epoca. Analogamente, in «Address for a Prize-Day» il poeta americano formula il tema dell’intera opera: «What do you think about England, this country of ours where nobody is well?». «You» intende alludere ai giovani delle «public schools»; viene impiegato il linguaggio di questi giovani messo in satira, con esiti demistificanti. Il «Tu» è un tu collettivo, l’«interlocutore» è il destinatario finale: la condanna della propria epoca.

 

 

 

 

Giuseppe Pedota

APPUNTI SULLA POESIA DI TOMMASO PIGNATELLI

 

Nel 1994 Tommaso Pignatelli pubblica Pe cupià ‘o chiaro ed è subito un caso letterario. Ma l’attenzione sulla poesia di Pignatelli è dovuta a “lo pseudonimo di una delle figure più eminenti del Parlamento italiano” o per motivi di piaggeria culturale di fronte ad una delle maggiori personalità dell’ex Partito comunista italiano? Il prefatore del volume, Lara Maffìa, si chiede: “Quanto contribuirono gli avalli di Tullio De Mauro e di Natalino Sapegno a portare alla ribalta un volume scritto in napoletano più o meno antico? Si pensi che la RAI intervistò a più riprese il presunto autore, che “Panorama” tornò sull’argomento nel fascicolo del 27 febbraio 1997 con Stefano Brusadelli, che Domenico Adriano dedicò al volume una pagina di “Avvenimenti”, che “Il Giornale” diede ampia notizia dell’uscita dell’opera…”. Interviste all’autore furono pubblicate su “La Stampa”, “Poesia”, “Poiesis” e critici come Arnaldo Colasanti, Luigi Reina, Amendola, Dante Maffìa, Franco Loi, Giose Rimanelli, Giorgio Linguaglossa e molti altri si sono occupati della sua poesia, senza contare delle testimonianze e delle recensioni a firma di Giovanni Tesio, Franco Brevini, Giacinto Spagnoletti, Cesare Segre, Maria Corti, Alfredo Stussi, Gianfranco Folena, Andrea Zanzotto, Pietro Gibellini etc.. 

Non c’è dubbio che Tommaso Pignatelli è un poeta che ha percorso la traiettoria parabolica di quella generazione che ha tentato di cambiare il mondo. Che era convinta di cambiare il mondo. In qualche modo, nella sua poesia vengono a coniugarsi l’impulso insurrezionale e il senso di colpa per la “macchia” di officiare la liturgia del rito poetico, vi si rintracciano le rifrazioni di una storia di chi ha vissuto con il pessimismo della ragione e l’ottimismo della razionalità gli eventi culturali dell’epoca della guerra fredda, e non è un caso che la sua poesia sia venuta alla luce parallelamente alla fine di quella guerra e alla dissoluzione dell’Utopia che aveva alimentato le energie e le passioni degli intellettuali che si rifacevano al partito comunista italiano (noto, tra l’altro, che il libro è dedicato “a Palmiro e a Enrico”). Uno degli appunti che questa poesia sembra muovere alla cultura poetica del dopoguerra è la insufficiente enucleazione di una filosofia dell’arte fondata sull’ontologia dell’essere (sociale); la carente indagine del problema dell’isomorfismo tra Essere e Lingua; la mancata riflessione intorno al problema della “verità”, e quindi intorno al problema di una poesia supremamente oggettiva; l’insufficiente approfondimento del carattere di epocalità dell’arte e della sua funzione gnoseologica; l’insufficiente approfondimento del problema dell’oggetto dell’arte, e quindi di quale fetta di reale sia oggetto di trasfigurazione nella rappresentazione artistica. Pignatelli sembra aver nutrito avversione per le politiche culturali che nei decenni trascorsi hanno tenuto a battesimo le poetiche dell’effetto, la poetica del kitsch, la poetica degli choc, per tutte quelle posizioni che hanno nutrito irrisione verso la metafora e che hanno negato la funzione e il valore di comunicazione dell’arte. Pignatelli è ben consapevole che una vera poesia non  si può costruire senza puntare i riflettori della coscienza estetica sul problema dell’attualità, della contemporaneità senza identità che contraddistingue il tardo moderno. Il titolo dell’ultima opera: Palluttìa l’abbeccedario - Rotola il sillabario - (Roma, Lepisma 2004), e i versi posti in premessa al volume “E chèllete songo vinto ca spèrcia,/ afa, sunnamiènti de ccòse” (Le parole sono vento che passa,/ Riverbero, illusioni delle cose), sono significativi della consapevolezza della situazione di estrema fragilità della poesia nella nostra epoca, a cui si è tentato di trovare un rimedio con un incremento della “tecnica” nell’ambito della composizione, spostando l’attenzione sugli aspetti tecnologici dei linguaggi artistici. Pignatelli ha sempre nutrito estrema sfiducia verso quelle impostazioni che hanno eletto la rappresentazione dei conflitti tra i linguaggi quale via privilegiata dell’arte poetica, verso quel pensiero estetico che ha perorato la pluralità dei codici e l’impossibilità di mantenere un codice unitario. La scelta di Tommaso Pignatelli di impiegare una lingua partenopea, che presenta al contempo caratteri arcaici ed ipermoderni, è una implicita confutazione di quella parte della cultura estetica del Novecento che ha sostenuto la impossibilità di attenersi ad un codice unitario. L’assioma di Angelo Guglielmi secondo cui “L’opera assume un’apparenza necessaria di oscurità nella misura in cui l’interprete non ne ha più le chiavi, e si trova perciò davanti a problemi di decodificazione di una lingua che deve apprendere”,* viene totalmente capovolto: il linguaggio del poeta napoletano presenta connotati di trasparenza, la colloquialità di cui è intessuta questa lingua punta decisamente sulla trasparenza tra Essere e Lingua. In questa impostazione di Pignatelli non v’è spazio alcuno per l’indicibile o per oscurità linguistiche. Perché il soggetto è, wittgensteinianamente, “il limite del mondo”. E quindi porre la questione del “limite” altro non è che un modo per porre la questione del soggetto al centro della Lingua, reintrodurre una nuova centralità della poesia. Pignatelli parte dall’assunto di Wittgenstein secondo cui “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”; nell’ambito di questa riconquistata centralità della poesia ne deduce che i limiti del linguaggio sono i limiti ontologici del particolare essere-nel-mondo di ogni ente linguistico, e quindi che la lingua è un campo di sorprese, come il mondo è un campo di sorprese che il soggetto linguistico ha la possibilità di interrogare, ma non a dismisura, ma unicamente entro il ristretto cerchio del proprio essere-nel-mondo. Insomma, per Pignatelli il soggetto poetante non ha la licenza di ampliare a dismisura il proprio campo di intervento sui linguaggi senza cadere nel rapsodismo e nello sperimentalismo arbitrario.

Il linguaggio poetico è per Pignatelli un ponte che ci ricollega all’Essere, che drammaticamente tende ad eclissarsi in un interminabile indebolimento. E’ una legge ontologica che la poesia del Moderno sia la rappresentazione di questo indebolimento, perché ha interiorizzato la potenza dell’indebolimento dell’Essere. In questa accezione la sua oscurità è parte integrante della sua trasparenza, anzi è una diversa modalità della sua configurazione formale, tanto che ogni grande poesia è nient’altro che il suo assetto linguistico, e che nell’orbita della sua linguisticità è contenuto il cosiddetto “codice”. Poiché gli idoli sono morti, viva gli idoli.

 

Ccà l’aròie so tutti morti

e addonca c’è asiggènza d’àuto fracèto,

àuto che lo scarpesamiénto barocco.

Ch’edè lo mare? Nisciùno s’allicorda;

‘e stelle se scordano currentemente.

 

Io vuoglio rummané luntàne de cenìmmuli ‘o viento.

 

 

Qui gli idoli sono tutti morti

e dunque occorre altro linguaggio,

altro che lo scalpitare barocco.

Che cos’è il mare? Nessuno lo ricorda;

le stelle dimenticano facilmente.

 

Io voglio restare lontano dai mulini a vento.

 

 

* A. Guglielmi L’udienza del poeta Torino, Einaudi 1979