La Poesia Modernista Italiana

Giorgio Linguaglossa "La nuova poesia modernista italiana" (1980-2010)  Roma, Edilet, 2010 pp. 262 € 13,00

 

 

Con la categoria della «Nuova Poesia Modernista» ho inteso conglobare tutte quelle posizioni che si collocano in contiguità con il Moderno e che si richiamano al comune paradigma della tradizione novecentesca, a differenza del post-moderno, che invece tende a ripercorrere il secolo appena trascorso nei suoi punti di svolta contrassegnati dalle post-avanguardie della seconda metà del Novecento. Vero è che alcuni autori contemporanei sembrano muoversi in una sorta di via di mezzo tra queste due grandi correnti, oscillando tra l’una e l’altra, nel tentativo di conciliare stilisticamente le due tradizioni. Allo stato, non sembra più ipotizzabile un poeta-traliccio, un poeta in grado di fondare un nuovo linguaggio, e quindi un nuovo traliccio linguistico (alla maniera del Pascoli, tanto per intenderci). In questa accezione, sia il modernismo che il post-modernismo sono da intendere come filiazioni e diramazioni del grande alveo della poesia del Novecento; siamo tutti diventati epigonici, non c’è più una singola individualità poetica che sovrasti le altre, così come non c’è più una scuola di poesia che possa arrogarsi il merito di essere «in avanti». Caduta, con la fine del Novecento, la stessa accezione di avanguardia, come l’abbiamo conosciuta, è da pensare che una “nuova” avanguardia, di là da venire, se mai verrà, sarà del tutto diversa da quelle che abbiamo frequentato e conosciuto. Può sembrare paradossale, ma è lecito pensare che una veramente nuova avanguardia non potrebbe che scegliere il silenzio compiuto, piuttosto che la parola, non potrebbe che auto-suicidarsi nell’atto stesso del suo insediamento. 

 

Insomma,  quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1947)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La Bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 - Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista come Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo  è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal  1947 al 1953, esce nel1955, alla quale fa seguito Nozze romane e; nel 1976, il suo lavoro più impegnativo: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964)  fino a La libellula (1985); il suo è un personalissimo itinerario che non rientra né nella tradizione né nell’antitradizione.  La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Un tirocinio ascetico la cui spia è costituita da uno stile intellettuale-personale con predilezione per gli attanti astratti (la Rosselli), una predilezione per gli attanti concreti (la Merini), e per il vissuto-concreto (la Busacca), spinge questa poesia verso una spiaggia limitrofa e liminare a quella del tardo Novecento sempre più stretta dentro la forbice: sperimentalismo-orfismo. Direi che il punto di forza della linea modernista risiede appunto in quella sua estraneità alla forbice imposta dalla ideologia stilistica dominante. 

 

La forma della «rappresentazione» di questa poesia, il suo peculiare tratto stilistico, il tragitto eccentrico, a forma di serpente che si morde la coda, è qui un rispecchiamento del legame «desiderante» della relazione che identifica l’oggetto da conoscere e lo definisce in oggetto posseduto. Gli atti «desideranti» (intenzionali) del soggetto esperiente definiscono l’oggetto in quanto conosciuto e, quindi, posseduto. Di fronte al suo «oggetto» questa poesia sta in relazione di «desiderio» e di «possesso», oscilla tra desiderio e possesso; è un sapere dominato dalla nostalgia e dalla rivendicazione per il mondo un tempo posseduto e riconosciuto. È perfino ovvio asserire che soltanto il riconoscibile entra in questa poesia, con il suo statuto e il suo vestito linguistico, mentre l’irriconoscibile è ancora di là da venire, resta irriconosciuto, irrisolto e, quindi, non pronunziato linguisticamente. La formalizzazione linguistica non può che procedere attraverso il «conosciuto», il «noto». Questo complesso procedere rivela l’aspetto stilistico (intimamente antinomico) di una poesia attestata tra il desiderio e la rivendicazione di un mondo «altro», tra la vocazione e la provocazione, tra il lato riflessivo e il lato cognitivo dell’intenzione poetica. Di fatto, non si dà intenzione poetica senza una macchina desiderante dell’oggetto (con il suo statuto linguistico e stilistico). La poesia che si fa strada consolidandosi appresso alla propria ossatura linguistica allude al tragitto percorso dalla contemplazione alla rivendicazione. Sembra una tautologia: la Poesia Modernista degli anni Settanta resta impigliata dentro l’ossatura del paradigma novecentesco: ma non quello maggioritario,  eletto a «canone» (attraverso le primarie e le secondarie delle istituzioni stilistiche egemoni), ma quello laterale, e ben più importante, che attraversa la lezione di Franco Fortini passando per la poesia di un Angelo Maria Ripellino, fino a giungere ai giorni nostri. 

 

La contro rivoluzione al linguaggio poetico sclerotizzato del post-orfismo e del post-sperimentalismo è impersonata dal destino di un poeta scomparso all’età di 36 anni: Salvatore Toma. Il suo Canzoniere della morte (edito con venti anni di ritardo nel 1999), ci consegna il testamento di una diversità irriducibile vergato con il linguaggio più antiletterario immaginabile. Una vera e propria liquidazione di tutti i manierismi e di tutte le oreficerie, le supponenze, le vacuità dei linguaggi letterari maggioritari. Affine al poeta pugliese è il tragitto del lucano Giuseppe Pedota con la riproposizione di un personalissimo discorso lirico (Acronico 2005, che raccoglie scritti di trenta anni prima) che sfrigola e stride con l’impossibilità di operare per una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica: propriamente, nella post-poesia.

Una direzione «in diagonale» è invece quella  del piemontese Roberto Bertoldo, il quale si muoverà alla ricerca di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo (salvando di questo il suo contenuto di verità), con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione, già dalla metà degli anni Ottanta emergono Sigillo (1985) di Giovanna Sicari e, all'inizio degli anni Novanta, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna e Altre storie per album di Giorgia Stecher (1996).

Nella poesia di Roberto Bertoldo vi sono dei cunicoli sotterranei tra i diversi gradi di esperienza che l’oggetto linguistico rivela, v’è un continuum (topologico e metaforico), salti semantici e metaforici, si rinviene una retorizzazione di stampo modernista (né in posizione di punta né in posizione di retroguardia), una «lontananza» dall’oggetto da sedimentare nell’impianto stilistico. L’io percipiente contempla e, contemplando, reclama l’oggetto del suo desiderio. La riproposizione della centralità del  soggetto percipiente è qui un passo obbligato: la condanna degli «oggetti» e della «Storia». Bertoldo individua una via di uscita dalla frammentazione dell’«oggetto» e dalla dissoluzione del «soggetto» attraverso la metafora: due discontinuità che si sommano, anzi, si sovrappongono. E si elidono. La continuità della percezione si converte in interferenza, intermittenza, simbiosi anche stilistica che si risolve nella «cicatrice» della metafora. Poesia che tenta la costruzione di un argine al problema del «vedere», anzi, della «cecità» propria del minimalismo (tutto incentrato sulla riproposizione della centralità di un «io ingenuo» e acritico che economizza nell’atto del vedere e travasa il problema nell’atto del commentario agli eventi della cronaca).

Nell’ambito del «cultismo decorativo» va ascritta una certa poesia, esemplare il caso di Francesco Nappo i cui libri pubblicati nel 2008 sono stati scritti negli anni Novanta: Genere e Requie materna ora in Poesie 1979-2007 edito da Quodlibet (2008); lo sperimentare arcaico di Nappo si incontra con un dettato linguistico culto-ultroneo-intellettuale che ne fa una operazione sopraindividuale e sovrastorica, direi sovra stilistica (un ipercritico idioletto ragguagliabile al parametro piccolo-borghese della poesia italiana maggioritaria).  

Nella poesia del terzo periodo di Cesare Viviani troviamo una deriva narrativa, la tematica-base del nostro tempo post-utopico: la mancanza di radici del soggetto nell’epoca della globalizzazione e della post-massa va di pari passo con uno stile de-territorializzato. Viviani scrive una sorta di narrazione in versi in progress che unisce la riflessione astratta, la riflessione saggistica e un modo di scrivere «orale»: nel 2000 esce Silenzio dell'universo, seguiranno Passanti (2002), La forma della vita (2005), Credere all'invisibile (2009).

Segnalo infine due poeti significativi della Generazione degli anni Dieci: Letizia Leone con L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013)Marco Onofrio con Ora è altrove (2013) e Ai bordi di un quadrato senza lati (2015); entrambi si muovono in direzione di un modernismo che tenta di liberarsi delle ipoteche stilistiche tardo novecentesche alla ricerca di un linguaggio che si mantenga (pur in equilibrio precario e antinomico), in contatto con la lingua di relazione.

 

Ciò che emerge da questi brevi cenni è che è necessario che la poesia rompa le righe del politically correct, che occorre deragliare da un certo impiego (ormai consunto) di un certo «quotidiano» e di un certo linguaggio «mitopoietico» divenuto ancillare e tautologico. È venuto il tempo di ripensare la storia della poesia italiana del secondo Novecento, individuare una diversa lettura in diagonale della poesia del Novecento, in mancanza di questa ricerca sarà difficile scrivere la poesia del futuro. 

 

Emerge subito un problema: che non si dà soluzione stilistica alla de-territorializzazione del linguaggio poetico che si è avuto nel tardo Novecento, il problema è più ampio. In verità, i linguaggi poetici dell’epoca mediatica possono al massimo prendere in prestito la de-territorializzazione (dall’empiria dei linguaggi mediatici) per una infarinatura della modernizzazione linguistica; non riescono a trovare la soluzione stilistica ad un problema che stilistico non è. In altre parole, il linguaggio cosmopolitico con cui la quasi totalità della poesia contemporanea viene scritta, è un linguaggio de-nuclearizzato e de-vitalizzato (a prescindere dal pedale alto o basso che esso impiega, qui non si tratta di andare in bicicletta), un linguaggio che insegue (inconsapevolmente) la brevità e la sintesi dello spot pubblicitario, una sorta di traduzione in linguaggio lineare del linguaggio televisivo-mediatico (questo sì sinestesico!). Al parametro del linguaggio universale indotto dal villaggio mediatico, la poesia contemporanea si ribella (anzi si maschera) adottando una stilizzazione iperletteraria, accentuando gli aspetti pre-sperimentali e pre-critici e una «chiusura» marcatamente «intima», «squisita», «effabile», «affabile» etc.. 

Sorge una domanda, apparentemente ingenua: quali sono le esperienze significative (gli oggetti concreti) che la poesia deve prendere in considerazione? Inoltre, la mancanza di un «luogo», di una polis, quali conseguenze hanno (e avranno) sull’avvenire e il presente della poesia? Di qui il bisogno di rispondere a queste domande, di ricostruire delle parentele e dei legami parentali con altri poeti della contemporaneità, quasi che la consanguineità potesse sopperire alla mancanza di sangue. Così, sottratta al «luogo», la migliore poesia contemporanea tenta di ricostruire e riallacciare i rapporti con la grande tradizione del Novecento. È questa la sua problematica mission. 

 

Quello che rimane oggi, a distanza di quasi cinquanta anni, della poesia con impianto narrativo-autobiografico, una volta caduta l’impalcatura ideologica dell’epoca pre-modernistica, si rivela essere una colloquialità atopica e post-utopica, una intimità autotelica infirmata e riformulata, uno spostamento-spaesamento dell’«io» egolalico. La poesia dialogo con l’interlocutore è diventata problematica, è diventata un rimuginare sulla problematicità di un dialogo interrotto e non più recuperabile. Il ricorso alla metafora è, in questa poesia, un vestito linguistico (che tende a nascondere o rivelare il contenuto di verità?). Ma è ancora possibile rappresentare un «contenuto di verità»?

 

Come ha scritto Luigi Reina nel risvolto di copertina del mio libro, La nuova poesia modernista italiana (1980-2010) : «Se il linguaggio della post-avanguardia entrava in rotta di collisione con i linguaggi della scienza e della modernità, la Nuova Poesia Modernista prende atto della crisi irreversibile di ogni linguaggio fondato sulla “differenza”, sullo “scarto”, sullo “statuto ambiguo”; e prende atto della mancanza di un fondamento su cui sia possibile poggiare la costruzione poematica. La Nuova Poesia Modernista è il tipico e più maturo esempio di una poesia sopravvissuta dopo la bancarotta dell’ontologia, tra  Heidegger e Wittgenstein. L’ontologia negativa di Heidegger, per il quale «Essere è ciò che non si dice», tendeva a spostare l’asse del logos poetico novecentesco più sul non-detto, sui silenzi tra le parole, ed infine, sul silenzio tout court. Il nichilismo era il precipizio entro il quale precipitava e periclitava tutta l’ontologia heideggeriana. Per contro, il linguaggio poetico novecentesco minacciava di periclitare, sull’orlo del nichilismo, nel compiuto silenzio della poesia post-celaniana. L’impossibilità di approdare ad una conclusione, in Heidegger, è totale: il pensatore è poeta, il silenzio è l’essenza del linguaggio, esso è il luogo atto a esprimere l’essenziale come non-dire». 

 

(2011)