Giorgio Linguaglossa
SUL CONCETTO di HEIDEGGER di "EVENTO" (Ereignis), e sui concetti di Carlo Diano di "EVENTO", "NOME" e "FORMA" COME CATEGORIE CENTRALI DELLA DIMENSIONE ESTETICA
In particolare, sul problema dell’Evento occorre distinguere l’Evento accidentale (la tegola che cade sulla testa di un pedone) da un Evento non accidentale (lo scontro di due corpi nella meccanica). L’Evento dell’arte è quel particolare Evento che riunisce in sé l’elemento della accidentalità e quello della necessità. L’Arte è l’unico momento che riunisce in sé queste due condizioni dell’Essere. L’Evento è dunque un «concreto»; per Marx «Il concreto è concreto perché sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione». [K. Marx, Grundrisse p. 21]
Tutta l’ontologia di Heidegger non va oltre la posizione di Hegel per il quale «l’essere è l’immediato indeterminato». In realtà, Heidegger non compie nemmeno un passo (filosofico) in avanti rispetto alla posizione di Hegel. Essere e tempo è, da questo punto di vista, un documento ineguagliabile della crisi della visione del mondo borghese tra le due guerre.
Chiediamoci: che cos'è l'Evento? L’evento è sempre un qualcosa che accade (hic et nunc), per noi, in un punto individualizzato del tempo e dello spazio, costituisce sempre una esperienza, mai un pensato, una esperienza riferita al soggetto esperiente e all’accadimento specifico di qualcosa che accade qui e ora, per me, cioè in un presente determinato e irriducibile ad altri istanti del tempo, che la descrizione matematica del mondo tende ad espungere dal proprio orizzonte teorico.
Chiediamoci: come si forma un Evento? Un fulmine è forse un evento? Un terremoto è forse un evento? Un crollo della borsa è forse un evento? Un incidente stradale che ci costa la vita di un figlio, è un Evento? Un terremoto che avviene nell'altra parte del mondo e uccide 100.000 persone, per me è un Evento? Cosa fa sì che un Evento sia un Evento? Che cosa fa dell'«Infinito» di Leopardi un Evento per me che lo leggo? E così via...
Il filologo Carlo Diano, in un suo libro ormai introvabile, Forma ed evento del 1967, sposta il baricentro del discorso dall'Essere alla nozione di Evento (Ereignis). Già Heidegger aveva accennato alla nozione di Evento come episodio chiave che consente il disvelamento dell'esperienza autentica, ma in Carlo Diano è chiaro che il concetto di Evento assume anche una funzione spartiacque tra autentico/inautentico, tra mondo di prima e mondo di poi, tra il tempo del prima e il tempo del poi; tra ciò che è significativo (per noi) e ciò che non lo è. Si tratta di una categoria centrale anche nella dimensione estetica. Che cos'è l'Evento?:
“Evento è preso dal latino, e traduce, come spesso fa il latino, il greco tyche. Evento è perciò non quicquid èvenit, ma id quod cuique èvenit: ί έ́ά, come scrive Filemone, ricalcando Aristotele. La differenza è capitale. Che piova è qualcosa che accade, ma questo non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me. E però, se ogni evento si presenta alla coscienza come un accadimento, non ogni accadimento è un evento. … Di evento, dunque, non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto, e dall’ambito stesso di questo soggetto. … Come id quod cuique èvenit l’evento è sempre hic et nunc. Non v’è evento se non nel preciso luogo dove io sono e nell’istante in cui l’avverto. … Da quello che precede è chiaro che non sono l’hic et nunc che localizzano e temporalizzano l’evento, ma è l’evento che temporalizza il nunc e localizza l’hic. E l’hic è in conseguenza del nunc perché è come interruzione della linea indifferenziata e non avvertita della durata – e cioè dell’esistenza come esistenza vissuta – che l’evento emerge e s’impone, ed è per essa e in essa questa interruzione che l’hic è avvertito e si svela”. [C. Diano Forma ed evento]
È l'Evento il concetto centrale sul quale incentrare una riflessione sull'estetica. Evento come apertura di orizzonti possibili, interruzione della linea indifferenziata della durata. Evento come individuazione di una esperienza significativa. Evento come esperienza di un nuovo principio fondante della comunità di un popolo. Evento come principio inaugurale. Evento come accadimento principiale. Evento come esperienza linguistica significativa che avviene per il tramite dei linguaggi artistici.
L’evento opera in modo da rompere l’omogeneità dello spazio, lo ritaglia e lo differenzia, e concentra il tempo in un singolo istante. «Ogni evento - argomenta Carlo Diano - perdendo la sua accidentalità, si inserisce nella ferrea catena provvidenziale del destino, di una necessità logicamente intesa, riscontrabile ovunque e senza eccezioni, Cade così la linea di demarcazione tra l’hic et nunc e l’ubique et semper. La tyche è solo un evento isolato di cui s’ignora la causa. Ma questa indubbiamente esiste e pertanto l’evento deve avere per forza un significato». (C. Diano op. cit.)
L’evenit proviene da una periferia spazio-temporale, da una totalità cosmica alla quale, pur staccandosi da essa, rimane legato; “la prima definizione che noi abbiamo di questa periferia è l’ἄπειρον έ [apeiron periechon] che Anassimandro e i teologi greci identificavano col «divino», e da cui facevano «governare il tutto». E l’intera grecità ne mantiene il concetto”. (C. Diano op. cit.)
Attorno ad ogni singolo evento si apre l’infinità del periechon, il «senza limiti», un principio divino per i greci, immortale, la dynamis, come sinonimo di enèrgeia che assume nell’età ellenistica un senso che è proprio del «sacro».
“La reazione dell’uomo a questo emergere del tempo ed aprirsi dello spazio creatogli dentro e d’intorno dall’evento, è di dare a essi una struttura e chiudendoli dare norma all’evento. Ciò che differenzia le civiltà umane, come le singole vite, è la diversa chiusura che in esse vien data allo spazio e al tempo dell’evento, e la storia dell’umanità, come la storia di ciascuno di noi, è la storia di queste chiusure. Tempi sacri, luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che chiusure d’eventi”. (C.Diano op. cit.)
La chiusura dell'Evento è il Nome.
Per gli Stoici “il predicato è sempre un verbo, anche quando ha la forma di un nome. Socrate è virtuoso, equivale a Socrate sta esercitando la sua virtù”.
Carlo Diano nei Quaderni preparatori per Forma ed evento e Linee per una fenomenologia dell’arte (1968) ricorda che per gli stoici l'essenza della proposizione risiede nel verbo e che il nome è considerato del tutto secondario, infatti, per Aristotele «l'uomo cammina» equivale a «l'uomo è camminante». Ancora Diano:
«Nome e verbo. Difficoltà in cui si trovano i linguisti nel definirli - Con la mia teoria si spiega tutto - Il verbo è sempre τό συμπίπτον = τό συμβεβεκός - eventum – Il nome è per eccellenza la forma, la struttura – ciò che non significa senz’altro la sostanza – o la significa in senso lato - Bisogna ritornare alla logica dei sofisti fino ad Aristotele - La logica sofistica non distingue la sostanza dall’accidente – il nome dal verbo - Ogni percezione ha una sua struttura temporale – il nome e il verbo si sono confusi: l’acqua scorre è un unico fatto - separate le due dimensioni e avrete il nome e il verbo - Ma è una separazione precaria perché il loro rapporto è dinamico».
«Il mito ha sempre forma storica, ed è nei tempi in cui l'evènit del mito si rifà èvenit nel rito, che i luoghi e gli oggetti sacri sono sentiti per eccellenza augusti. Lo stesso vale per noi: nella nostra vita i luoghi hanno tutti una data, e sono reali solo in quanto e nelle dimensioni in cui quella data è attuale e presente come evento... solo lo spazio è rappresentabile»
Per liberarsi dallo stupore e dall’horror generati dal trovarsi di fronte all’infinità, al gorgo in cui tutto è possibile, al fatto di sentire, dietro la cosa come evento, l’azione di una potenza inafferrabile, l’uomo cerca di superarne l’infinità, dando a essa un Nome e specificandola. Il nome è una forma di chiusura, circoscrive la cosa e permette di individuare l'evento. Specificando la potenza che si rivela nell'evento, il nome ne supera l'infinità, rendendo così possibile all'uomo di liberarsi dallo stupore e di dare una direzione alla propria azione. Non a caso la categoria dell'Evento viene ripresa da Heidegger e posta in posizione centrale quale «struttura» del Dasein nell'In-der-Welt-sein (Essere-nel-mondo).
Il Nome è la forma eventica (l'hic et nunc) che si dà nella ripetizione (ubique et semper), come ad esempio nel rito. La ripetizione chiude la forma eventica restituendoci il Nome.
Il nome permette di riprodurre l’evento e di farlo presente (ed è per questo, sottolinea Diano, che alcuni nomi sono tabù). La ripetizione trasforma un «vissuto» in un «rappresentato»: alla fine di questo processo di trasposizione da un livello (il vissuto) all’altro (il rappresentato) la ripetizione cede il passo alla specularità che l’arresta.
L'arte come sintesi di Forma e di Evento
«Con la Forma appaiono le "cose" e lo spazio si separa dal tempo, e, come spazio visto e non più vissuto, è definito per intero dalla figura ed è interno ad essa. Per Aristotele appunto il mondo è nello spazio quanto alle sue parti, non lo è quanto al tutto. Fuori della figura non c'è spazio se non come "intervallo" rispetto a un'altra figura... A questo spazio è ridotto il tempo, definito da Aristotele come "numero del movimento secondo il prima e il poi". Ora, la forma di per se stessa è immobile... L'unico moto di cui essa è capace, è la specularità con se stessa, ma la specularità è fuori dello spazio e non è un moto: perciò non v'è neanche il tempo». [C. Diano Linee per una fenomenologia dell'arte pp. 37-8]
«E però si deve dire che tutte le arti tendono alla parola, ma la parola al silenzio. Qui è l'ultimo limite e l'estremo periechon dell'arte, che però è via e non fine, ed è sempre via, come lo è la vita, che riprende sempre e non s'arresta mai, e, toccando in ogni opera il suo culmine, lo cerca ogni volta e sempre in un'altra». [C.Diano Linee per una fenomenologia dell'arte p. 122]
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Giorgio Linguaglossa APPUNTI CRITICI SUL CONCETTO DI "EVENTO E DI FORMA" e SULLA "CHIUSURA DELLA FORMA" di Carlo Diano
estratti a cura di Giorgio Linguaglossa dal libro di Carlo Diano Linee per una fenomenologia dell'arte Neri Pozza, 1968
SUL CONCETTO DI EVENTO
Comincio dall'evento. Evento preso dal latino e traduce il greco tyche. Evento è perciò non quicquid èvenit, ma id quod cuique èvenit. Che qualcosa accada, non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me.
Di evento non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto e dall'ambito stesso di questo soggetto.
La dottrina stoica ripone l'essenza della proposizione nel verbo e considera il nome secondario - laddove per Aristotele "l'uomo cammina" è uguale a "l'uomo camminante" - ha la sua origine prima nel sentimento linguistico di Zenone che era un semita.
Come id quod cuique èvenit, l'evento è sempre hic et nunc. Un fulmine ha colpito un albero nella notte, io lo vedo al mattino: il fatto, ove sia per me un evento, non lo è se non in quanto l'evènit si fa attuale in un èvenit e l'albero non è uno dei tanti punti dello spazio ma il mio hic. (...) è chiaro che non sono l' hic et nunc che localizzano e temporalizzano l'evento, ma è l'evento che localizza l'hic e temporalizza il nunc. (...) Nella mentalità primitiva... spazio e tempo fanno uno, ed è il tempo che è primario. Il mito ha sempre forma storica, ed è nei tempi in cui l'evènit del mito si rifà èvenit nel rito, che i luoghi e gli oggetti sacri sono sentiti per eccellenza augusti. Lo stesso vale per noi: nella nostra vita i luoghi hanno tutti una data, e sono reali solo in quanto e nelle dimensioni in cui quella data è attuale e presente come evento. Solo per questo «le cose» possono essere sentite come eventi e i nomi confondersi con i verbi. Ma sul piano obbiettivo della coscienza il rapporto si rovescia, perché lo spazio è rappresentabile.
SULLA "CHIUSURA" DELLA FORMA
La reazione dell'uomo a questo emergere del tempo ed aprirsi dello spazio creatigli dentro e d'intorno dall'evento, è di dare ad essi una struttura e chiudendoli dare norma all'evento.
Forma è ciò che i greci da Omero a Plotino chiamarono eidos, ed eidos è la «cosa veduta», e assolutamente veduta. Ciò che la caratterizza è l'essere «per sé». Solo essa è per sé, e quello che è lo è in se stessa e per se stessa, ed esclude la relazione. Come tale esaurisce la sua essenza nella sua contemplabilità: tutto quello che essa è contemplabile, e ciò che in essa non è contemplabile, non è.
Ma la contemplabilità non esaurisce la loro essenza, è solo un mezzo per attingere ciò che in esse non appare, e che per sua natura esclude ogni contemplabilità e può essere solo vissuto: sono symbola e non eide, forme eventiche e non le «forme».
«Simbolo» (da symballein, «mettere insieme») è in origine la tessera ospitale, di cui ciascuno dei due ospiti conserva una parte. Separate, le due parti non significano nulla, il loro significato non l'acquistano se non nell'atto in cui vengono «messe insieme». Lo stesso vale per il mito e di tutte le forme date all'evento. Ciascuna di esse, resa separatamente, è una figura, ma il suo significato non è in quella figura, cì nell'unione con l«l'altro» che la giustifica e che essa ha la funzione di rifare presente. Se questo «altro» fosse rappresentabile, avremmo l'unione di due figure, e quindi l'allegoria. Ma il mito non è allegoria.
«L'altro» è l'evento, e cioè un èvenit, che è sempre hic et nunc e sempre è centro di un periechon infinito, e che pertanto non può essere che vissuto. (..) l'hic nasce dal nunc.
La più semplice forma di chiusura è il nome... Ma questo medesimo nome, che dà forma all'evento, permette anche di riprodurlo.
Quanto al mito, esso è insieme «al principio» del tempo e «in ogni tempo», che è come dire nel tempo del periechon. E, poiché il mito non è «reale» se non nella «ripetizione» che ne viene fatta dal rito, e il tempo del rito coincide sempre col tempo del mito, rito e mito non sono che i mezzi per riprodurre il rapporto dell' hic et nunc e dell' ubique et semper vissuto in atto nell'evento. (..) Già per gli Orfici la teogonia così detta «rapsodica» pone al principio non il Chaos, ma Chronos-Kronos, e da esso deriva il Chaos e l'Etere.
«Che cos'è il pensiero astratto?» si domandava Kierkegaard. E rispondeva: «È il pensiero in cui il pensante non c'è». E così Gentile scriveva che «gli occhi non ce li possiamo vedere che allo specchio». Né altrimenti parla Wittgenstein: «il soggetto non appartiene al 'mondo' ma è un limite del 'mondo'. Dov'è mai che nel mondo un soggetto metafisico si lascia osservare? Tu dici che è come con l'occhio e il campo visivo. Ma l'occhio non lo vedi. E nulla del campo visivo ti permette di concludere che esso è visto da un occhio»1
La forma non si deduce e non si induce: è o non è. E perciò ha valore di categoria, e l'altra è l'evento, e tra loro sono irriducibili: tutti i tentativi fatti dalla storia del pensiero per ricondurli a un unico principio, sono andati falliti, a partire da Platone, che riconfermando l'antinomia dell'àletheia e della doxa rivelata da Parmenide, ne denunciò alla fine l'impossibilità.
L'evento dissolve le «cose» e unifica tutto. Nella sfera della forma, invece, non esistono che «cose» e tutto è separato, perché «la sostanza separa». Lo spazio e il tempo nel'evento fanno uno, ed è il tempo che è primario, che solo l'evento rompe la continuità della durata e si rivela come istante... ma questa convergenza è, insieme, divergenza, poiché l'uno dei due estremi trascende l'altro, convergenza e divergenza non si dialettizzano.
Con la forma appaiono le «cose» e lo spazio si separa dal tempo.. Per Aristotele il mondo è nello spazio quanto alle sue parti, non lo è quanto al tutto. Fuori della figura non c'è spazio se non come «intervallo» rispetto a un'altra figura. A questo spaio è ridotto il tempo, definito da Aristotele come «numero del movimento secondo il prima e il poi». Ora, la forma di per se stessa è immobile: anche se occupa sempre nuove posizioni, giacché lo spazio esterno le è assolutamente irrelativo, e non è che mera possibilità.
Poiché appaia il tempo secondo il prima e il poi, è necessario che una forma, per la possibilità che ha di essere in qualunque punto dello spazio, s'incontri con un'altra forma (l'urto degli atomi di Leucippo e Democrito), ma, ogni forma essendo irrelativa all'altra... l'incontro è accidentale e il tempo è contingente. Solo questo tempo si dispone sulla linea retta, e solo esso è irreversibile (factum infectum fieri nequit), e sostanzializza l'istante.
LUCE E FORMA NELL'ESPERIENZA DEI GRECI
La forma è di per se stessa luminosa, la luminosità non essendo altro se non la visibilità che ne costituisce l'essenza. Nella tradizione poetica ed artistica greca forma e luce fanno uno, e la luce non è esterna, è interna alla forma. Ma è particolarmente sensibile al limite, che ne è la parte più precaria: è come una aureola... Numi ed eroi splendono e appaiono aureolati di luce.
L'arte dunque non è forma, ma forma ed evento in uno, e l'una essendo contemplabile e l'altro potendo essere solo vissuto, è insieme contemplata e vissuta.
L'opera d'arte è insieme nel tempo e non è nel tempo, è nello spazio e non è nello spazio, e, in quanto è nel tempo e nello spazio, è insieme nell'hic et nunc e nell'ubique et semper, e, chiunque l'abbia «fatta» e a qualunque tempo rimonti... è la «mia» e non è la mia, come fu la sua e non la sua per colui che la «fece»...
1 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus
Nella visione mitologica del mondo della Grecia antica, in principio vi è Chronos (il Tempo), in seguito sorgono Chaos, Nyx (Notte), Erebo e Tartaro; nel buio Erebo, Nyx genera un Uovo "pieno di vento"; da questo Uovo emerge Eros dalle ali d'oro; unitosi durante la notte al Chaos, Eros genera la stirpe degli "uccelli"; quindi genera Urano (Cielo) e Oceano, Gea (Terra) e gli dèi tra cui Eros, principio di armonia perché è la forza che spinge gli opposti e i diversi all'unione e all'armonia. Eros quindi, nella visione greca, è più antico di Thanatos, più antico e potente delle Moire, perché in grado di sconfiggerle.
Tale genealogia è ritenuta la più attendibile attestazione della antichità degli dèi attribuibile all'Orfismo,
«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato [...] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell'ideologia, che nasconde il fatto che non c'è più vita alcuna...» (Adorno, Dialettica dell'Illuminismo».
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Giorgio Linguaglossa SULLE CATEGORIE di CARLO DIANO DELLA «FORMA EVENTICA», LA FORMA E L'EVENTO E L'ARTE COME «MONDO INTERMEDIO» TRA LA FORMA E L'EVENTO
L’arte: mondo intermedio fra la forma e l’evento
«Di evento non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto, e dall'ambito stesso di questo soggetto. E, poiché è in codesto rapporto e da tale ambito che l'accadimento, venendo costituito in evento, si svela anche alla coscienza come vero e proprio accadimento, non solo gli accadimenti possono essere sentiti come eventi, ma anche quelle che chiamiamo "cose", e cioè le forme che l'uomo si trova davanti, nell'atto in cui egli ne avverte l'esistenza come qualcosa che sia per lui e non per se stessa. Questo spiega l'indistinzione tra nome e verbo che, secondo i glottologi, avrebbe caratterizzato lo stadio più antico del linguaggio, e che noi di fatto troviamo in molte lingua primitive, e non solo primitive. La dottrina stoica che ripone l'essenza della proposizione nel verbo e considera il nome come cosa secondaria... ha la sua prima ragione nel sentimento linguistico di Zenone e Crisippo, ch'erano due semiti». [C. Diano Forma ed evento cit. p. 73]
«Questo passaggio dall'evento alla forma eventica e da questa alla forma kat'exochèn non va però preso in assoluto, così da fare dei tre termini tre momenti distinti di un processo a direzione unica e irreversibile. Forma ed evento sono delle categorie e solo come categorie possono essere distinti. Nella realtà vissuta il loro rapporto è instabile e fluido e ad ogni istante reversibile: la medesima divinità che un istante appare come forma, nell'istante successivo è sentita come evento e si confonde col periechon. Noi non viviamo solo nell'esistenza, come credono gli esistenzialisti né solo nell'essenza, come volevano che si facesse Platone e Aristotele, ma in un'esistenza che continuamente si chiude nell'essenza e in una essenza che ad ogni istante si dirompe nel'esistenza... Il rapporto, tuttavia, tra forma ed evento non è sempre il medesimo: v'è sempre una dominante, e i gradi sono infiniti, e questo permette di isolare le civiltà nella loro struttura e di disporle in una scala: vi sono civiltà in cui la forma domina sull'evento, altre in cui l'evento domina sulla forma
Una cosa però è da tener ferma, ed è che, il passaggio dall'uno all'altro estremo essendo qualitativo, v'è un limite oltre il quale la forma kat'exochèn cessa, e tutto quel che segue ha valore funzionale e simbolico. Al medesimo limite e in senso opposto l'evento perde la sua cosmicità e si riduce a mero accidente. L'opposizione che è tra le due categorie non è soltanto logica, è reale, e questo rende drammatica la vita: il re non può dialettizzarsi col buffone e viceversa. Al limite in cui la forma ed evento separano i loro regni c'è la morte, o di una delle due categorie o dell'uomo. Di qui l'Uno di Plotino, il Brahma e il Nulla degli Indiani, il Nulla di Lao Tse» [C. Diano Forma ed evento cit. pp. 85-6]
Il tema del sacrificio e del simbolo come compresenza e tensione di opposti convergono e interagiscono nella sfera dell’arte, regno e dominio di quella che Carlo Diano chiama la «terza verità». Questa denominazione è dovuta proprio a quel suo specifico tratto distintivo che fa in modo che in essa “l’alètheia e l’epiphàneia ci siano, e siano quel che sono, ma non lo siano per intero, e insieme compongano la verità dell’arte”. Per giungere a questo risultato
«è necessario che la prima penetri anche nella sfera dell’esistenza, e precisamente di quella che l’essenza ha dall’evento, e l’esistenza essendo polare, questa accolga la specularità di quella e quella la polarità di questa. Ed è quel che avviene. Perché, se la forma nella sua specularità è statica, l’evento per la sua polarità è dinamico, e, statico e dinamico dando dinamico, la forma non può mantenersi in rapporto con l’evento se non facendosi essa stessa dinamica e comunicando a esso una parte della sua staticità. … L’esserci, di contro, nel momento istesso in cui l’ha tolta all’essere «per sé» e l’ha fatta «sua», e da «cosa» l’ha trasformata in «immagine», un’«immagine» che, per codesto esser «sua», perde anche quel tanto d’obbiettività che è propria di un’immagine, e si fa simile a «sogno», quel sogno appunto a cui, ancora a partire da Platone (Soph., 266 c), questa immagine è stata tante volte paragonata, in quel momento istesso, dunque, l’esserci, obbedendo alla polarità della sua natura, tende ad annullarla anche come immagine e come sogno, per trascenderla nel «simbolo» e, «aprendola», aver libera la via, esso che è hic et nunc ed è l’esserci del cuique, all’ubique et semper del periechon e all’estità dell’Uno, dai quali non può venir mai interamente separato».
In questo «mondo intermedio» che è l’arte, luogo della «terza verità», forma ed evento, alètheia ed epiphàneia devono sacrificare, ciascuno, una parte di sé, affidarsi alla capacità «combinatoria» del simbolo.
«L’arte dunque non è forma, ma forma ed evento in uno, e l’una essendo contemplabile e l’altro potendo essere solo vissuto, è insieme contemplata e vissuta. … L’opera d’arte è insieme nel tempo e non è nel tempo, è nello spazio e non è nello spazio, e, in quanto è nel tempo e nello spazio, è insieme nell’hic et nunc e nell’ubique et semper».
Accanto alla tradizionale concezione lineare dell’idea di tempo come Xό, nome del dio simbolo della misurazione aritmetica del tempo, che induce a percepire lo scorrere del tempo in una sola direzione, dal passato al futuro, per cui i ritmi della vita e dell’esperienza tendono a essere scanditi secondo il principio dell’alternanza tra un «prima» e un «poi», la cultura classica ci ha lasciato altre «forme del tempo». Ecco l’idea di tempo come Kό, come abilità, destrezza e capacità di cogliere al volo le occasioni che si presentano sulla scena e che sfumano rapidamente, se non le si sa afferrare. Si tratta di un concetto di tempo che presuppone l’abilità, la destrezza, la qualità di trovare il giusto momento in cui l’azione abbia successo. Posidippo definisce Kό «pandamator», colui che domina su tutto: è sulla punta dei piedi, ha doppie ali, tiene nella mano destra un rasoio, ha i capelli sulla faccia ed è calvo sulla nuca. Queste le caratteristiche che Posidippo individuava nella statua di Lisippo, che traduceva in termini iconografici l’idea del momento giusto che deve essere colto non appena si presenti l'occasione che si traduce nel Kό. Nell’Etica Nicomachea (1096a 27) Kό è la declinazione del bene del tempo proprio perché «l’agire deve allora riferirsi al Kό, al momento opportuno, cioè deve afferrare il tempo debito quando esso viene a maturazione e decidere l’azione» (p. 88).
Parlare di «tempo opportuno e debito» significa, riferirsi allo sforzo e all’obiettivo di trarre vantaggio dalle circostanze, dalle occasioni: questa espressione sta cioè a indicare la pazienza di aspettare che la situazione evolva per cogliere al volo gli sviluppi favorevoli, la capacità di trovare tutte le opportunità che possono presentarsi nelle circostanze così come si sviluppano allo scopo di trarne vantaggio. Si tratta dunque di un concetto di tempo che presuppone l’abilità di trovare e mantenere la giusta distanza tra pensiero e azione, da una parte, e realtà, dall’altra, perché si possa verificare la trasformazione. Il termine «Kό» esprime quindi una nozione di tempo qualitativa: per ogni cosa esiste un momento di compiutezza e di pienezza.
Esso indica il momento ottimale per ogni cosa, il punto culminante ma soprattutto lo spazio decisionale per un’azione che intende andare a buon fine e, dunque, raggiungere il proprio telos. Ma l’aspetto puntuale della decisione e il carattere culminante di ogni cosa non può essere disgiunto – soprattutto in campo etico – dalla misura.
Ma c’è una possibile derivazione etimologica alternativa di questa idea di tempo che ne fa emergere, con maggiore efficacia, i tratti distintivi. Si tratta dell’idea di tempo come î, un termine dell’arte della tessitura. Tessere, tempo e fato erano idee spesso collegate. Un’apertura nella trama del fato può significare un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più compatto o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l’apertura nei fili dell’ordito al momento critico, il momento giusto, perché il varco nell’ordito ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre il varco è aperto.
E c’è nella filosofia greca, un esplicito riferimento all’«intelligenza temporale», basata su una concezione del tempo che non è soltanto l'abilità di cogliere le occasioni, ma anche di un senso della permanenza e della durata nella continuità che riposa nella esperienza di ogni singolo individuo, il «tempo interno» di Sant'Agostino. Questa concezione del tempo è incentrata nel concetto che la memoria personale è unita alla «memoria collettiva». Le due dimensioni del tempo sono contraddistinte dal tempo della permanenza, dall’ , che garantisce la continuità tra le generazioni, quella che Arthur Lovejoy chiama «la grande catena dell’essere».
Ma accanto a questo eterno, immutabile, fuori del tempo ce n’è però un altro che ne permette la “durata”, la nascita, la crescita e poi la fine di ogni processo di manifestazione. Sul piano temporale ciò non può essere espresso se non come passato, presente e futuro, mentre sul piano simbolico diventa un che si fa fanciullo, poi adulto e infine vecchio. Sono propriamente queste le raffigurazioni più conosciute del dio , rappresentato come fanciullo non solo nei rituali, ma perfino nella prima concezione ellenica (Eraclito, poi Euripide).
Per Carlo Diano ogni civiltà umana è caratterizzata da una diversa chiusura dello spazio e del tempo: luoghi sacri, tabù, riti e miti non sono che forme di chiusura.
«Tutto ciò che non può essere collocato in un tale quadro viene cacciato fuori della periferia, che normalmente coincide col territorio abitato, al di là del quale è il luogo delle forze incontrollabili e spesso dei morti. Di qui l'orrore che il primitivo ha di trovarsi fuori del proprio territorio e per tutto ciò che gli viene dall'esterno... Tutte queste chiusure non sono forme? E si deve dare la preminenza ad esse o agli eventi? la risposta mi sembra agevole. Se si guarda alla loro origine, è chiaro che la preminenza spetta all'evento. Se invece si considera la loro funzione, è che è in esse e per esse che la vita è possibile, queste forme non solo sono "essenziali" al mondo dei primitivi, ma anche al nostro, e in generale a qualunque stadio di civiltà, perché è per esse che noi possiamo arrivare a dare una struttura e una direzione a quella cosa incomunicabile che è l'evento. Ma - e questo è il punto importante - non possono essere separate dagli eventi, perché il rapporto che è tra esse e gli eventi non è di un post rispetto a un prius; v'è la stessa dinamicità e reciprocità di quello che è tra l'hic et nunc e l'infinità del periechon, e che esso riflette... Una delle forme più semplici che valgono a chiudere l'evento, è il nome» (C. Diano op. cit. p.81)
Nella visione mitologica del mondo della Grecia antica, in principio vi è Chronos (il Tempo), in seguito sorgono Chaos, Nyx (Notte), Erebo e Tartaro; nel buio Erebo, Nyx genera un Uovo "pieno di vento"; da questo Uovo emerge Eros dalle ali d'oro; unitosi durante la notte al Chaos, Eros genera la stirpe degli "uccelli"; quindi genera Urano (Cielo) e Oceano, Gea (Terra) e gli dèi tra cui Eros, principio di armonia perché è la forza che spinge gli opposti e i diversi all'unione e all'armonia. Eros quindi, nella visione greca, è più antico di Thanatos, più antico e potente delle Moire, perché in grado di sconfiggerle.*
*Tale genealogia è ritenuta la più attendibile attestazione della antichità degli dèi attribuibile all'Orfismo,
Il linguaggio è prossimo all'Essere
indubbiamente, nel pensiero di Heidegger il linguaggio è prossimo all'Essere ma di un tipo di prossimità che si rivela lontanissima. Comunque stiano le cose, è la sola prossimità di cui l'uomo dispone. È questo il fulcro del pensiero di Heidegger sul linguaggio poetico e sulla poesia. La poesia non può che parlare da una immensa lontananza per poter giungere ad una vicinanza con l'Essere.
«L'uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parole, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell'ozio. In un modo o nell'altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Si dice che l'uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l'uomo, a differenza della pianta e dell'animale, è l'essere vivente capace di parola [...] L'uomo è in quanto parla [...]
Il linguaggio fa parte in ogni caso di ciò che l'uomo ritrova nella sua più immediata vicinanza. Dappertutto ci si fa incontro il linguaggio. Per questo non è meraviglia se l'uomo, non appena prende, riflettendo, visione di ciò che è, subito s'imbatte anche nel linguaggio...»*
«Il Linguaggio parla - L'uomo parla in quanto corrisponde al linguaggio. Il corrispondere è ascoltare. L'ascoltare è possibile solo in quanto legato alla Chiamata della quiete da un vincolo di appartenenza».
Il problema del linguaggio si pone in corrispondenza con il senso dell'esistere dell'esserci.
Dopo Was ist Metaphysik? (1929) la filosofia di Heidegger accentua sempre più il suo carattere kerygmatico e teologico, si annuncia come portatrice di un messaggio di redenzione. All'annuncio subentra una riflessione sul modo con cui si dà l'annuncio e sul modo con cui l'Essere parla e sul modo con cui l'uomo ascolta e «cor-risponde»; così il Linguaggio (das Worte, die Sprache, die Sage) si annuncia mediante l'evento (das Ereignis) in corrispondenza con il poetare del poeta (il Dichten, il Denken, il Danken). Tutti i grandi pensatori, chiosa Heidegger, hanno pensato e detto das Selbe (l'identico), e «ogni pensatore pensa un unico pensiero» e «ogni poeta poeta un unico pensiero».
«Ma l'Essere, che è dunque l'Essere? È se stesso... L'essere è il più lontano di ogni essente ed è tuttavia, più vicino all'uomo di ogni essente, sia questo una roccia, un animale, un'opera d'arte, una macchina, sia un angelo o Dio. L'Essere è ciò che è più vicino. e tuttavia la vicinanza rimane per l'uomo lontanissima».
Le numerose asserzioni kyerigmatiche di Heidegger gettano luce sulla matrice religiosa del suo pensiero estetico:
«noi giungiamo troppo tardi per gli Dei e troppo presto per l'Essere» e altre come «Hölderlin, rifondando l'essenza della poesia, determina e inizia una nuova età. Questa è l'età della indigenza, perché essa sta sia in una duplice mancanza e in un duplice non: nel non più degli Dei fuggiti e nel non ancora del Dio che ha da venire». E in alcuni passi posti all'inizio dello Humanismusbrief: «Il pensiero compie il rapporto dell'Essere con l'essenza dell'uomo. Esso non crea tale rapporto. Il pensiero altro non fa se non offrirlo all'Essere come ciò che a lui è dato dall'Essere. Questo offrire consiste nel fatto che l'Essere giunge al linguaggio nel pensare. Il linguaggio è la dimora dell'Essere. In questa abitazione abita l'uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa abitazione. Vegliando, essi portano a compimento il rivelarsi dell'Essere, in quanto, mediante il loro dire, portano al linguaggio e nel linguaggio custodiscono questa rivelazione».
Il Denken è Andenken (ricordo, memoria), ma anche la poesia è figlia di Mnemosyne, «la memoria, il raccolto ricordare ciò che deve essere pensato, è il fondamento e la fonte del poetare». «Il pensatore dice l'Essere. Il poeta nomina il Sacro [...] Si conosce più di una cosa sul rapporto fra filosofia e poesia. Niente sappiamo del dialogo che intercorre tra poeti e pensatori che abitano vicino su monti quanto mai separati».*
«Il linguaggio è il linguaggio. Tale affermazione non ci porta a un fondamento del linguaggio estrinseco al linguaggio, e nulla ci dice riguardo al problema se il linguaggio sia per caso il fondamento di altro da sé. L'affermazione "il linguaggio è il linguaggio" ci lascia sospesi sopra un abisso... »*
«Il linguaggio parla. Ma come parla? Dove ci è dato cogliere tale suo parlare? Innanzitutto in una parola già detta. In questa infatti il parlare si è già realizzato... In ciò che è stato detto il parlare resta custodito.
Se pertanto dobbiamo cercare il parlare del linguaggio in una parola detta, sarà bene, anziché rendere a caso una parola qualsiasi, scegliere una parola pura. Parola pura è quella in cui la pienezza del dire... si configura come una pienezza iniziante. Parola pura è la poesia [...] Ascoltiamo la parola già detta:
Una sera d'inverno (Georg Trakl)
Quando la neve cade alla finestra,
A lungo risuona la campana della sera,
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.
Alcuni nel loro errare
Giungono alla porta per oscuri sentieri
Aureo fiorisce l'albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
Silenzioso entra il viandante;
Il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.*
Giorgio Linguaglossa
* Untervegs zur Sprache 1959, trad, it. 1973 Mursia Editore