Giorgio Linguaglossa

SUL CONCETTO DI "OPERA D'ARTE" NEL PENSIERO ORIGINARIO di Carlo Marx - Manoscritti economico-filosofici del 1844

 

I Manoscritti economico-filosofici del 1844 furono scritti dal Marx ventiseienne tra il marzo e il settembre di quell'anno. Essi avrebbero dovuto costituire la prima parziale esecuzione di un disegno più generale: cioè la critica dell'economia politica. Questi manoscritti rappresentano la raggiunta consapevolezza, da parte di Marx, del vizio d'origine della filosofia hegeliana: l'astrattismo. Il giovane Marx, avendo acquistata chiara consapevolezza del suo distacco da Hegel e messo da parte definitivamente il radicalismo democratico, inizia un lavoro costruttivo nel campo della critica filosofica, storica, economica e politica e, in questi saggi, comincia a delineare una compiuta teoria della società e della storia.

 

In un appunto fondamentale per l'evoluzione del pensiero estetico delle origini, Marx si sofferma sulle circostanze che fanno sì che un oggetto è nostro; ciò avverrebbe solo quando esso «è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc, in breve utilizzato». L'opera d'arte per Marx non può essere consumata in quanto opera d'arte ma solo in quanto oggetto di «utilità», cioè necessaria a soddisfare i  bisogni primari e secondari (i bisogni naturali e sociali) dell'uomo. Marx stigmatizza l'«immediato unilaterale godimento», il mero «avere» inteso quale «possesso» astratto che gli uomini hanno con l'«oggetto» dell'arte; qui interviene il concetto di «educazione estetica» dell'umanità che Marx traeva da Schiller ancora in termini illuministici e umanistici quale mera aspirazione ad una umanità futura migliorata dall'«educazione estetica». 

Marx  accenna anche alla «totalità estensiva ed intensiva» che afferisce alla «educazione estetica», categorie tutte che riecheggiano le posizioni umanistiche schilleriane, ammirevoli ma generiche e, soprattutto, con un corredo categoriale non sufficientemente dialettizzato.

 

Nel pensiero estetico delle origini di Marx, la creazione artistica è considerata  come una attività libera, una adeguata realizzazione dell'essere umano ricco di relazioni umane (anche qui ci avverte l'eco dell'umanesimo idealistico della filosofia tedesca). 

 

 

Postulando l'arte come un «fine in sé», Marx la pone come una funzione fondamentale dello sviluppo umano e della umanità dell'uomo, dunque come una attività volta alla liberazione dell'uomo dalle sue servitù e, in particolare, dalla servitù del «lavoro», da Marx inteso quale antagonista della «libertà» propria della sfera artistica. Tuttavia, pur in questa categorizzazione binomiale delle due categorie, grande merito del pensatore tedesco è l'aver rimarcato che anche l'arte è colpita dall'alienazione, anzi, nell'opera d'arte si può vedere con chiarezza la «autoalienazione dell'uomo», «l'uomo alienato». Più tardi ne l' Ideologia tedesca, l'alienazione verrà intesa «come prodotto della divisione sociale del lavoro», e l'accento verrà spostato sulle categorie della divisione sociale del lavoro che costituiscono la dimensione essenziale dell'esistenza umana: «appena il lavoro comincia ad essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere». (l'Ideologia tedesca)

 

Nel Marx dei Manoscritti del 1844 è centrale la riflessione sull'«uomo autoalienato» che si autoriproduce nel mentre che produce per la società. Nel Marx della maturità l'accentuazione andrà sul problema del «superamento dell'alienazione» (cioè la piena realizzazione della vita del genere umano) soltanto tramite una rivoluzione sociale (cioè non solo nel pensiero come in Hegel ma anche e soprattutto nella realtà dei rapporti di produzione e nella abolizione della divisione sociale del lavoro e nel ribaltamento dei rapporti stabiliti dalle forze produttive dominanti). 

 

L'autoalienazione della fruizione dell'opera d'arte è un concetto fondamentale per la costruzione di una estetica marxista o comunque critica. Non si dà mai un'opera d'arte auto evidente in sé ma per sé, si dà sempre in relazione con la fruizione autoalienata. Non si dà mai un ascolto originario che non sia attinto dalla autoalienazione del «soggetto» fuitore.

 

Ancorando l'arte al «bisogno» della «specie», Marx ontologizza l'intera sfera artistica, la pone al riparo da ogni approccio individualistico o separatistico tipico degli idealisti hegeliani, la riporta alla materia, agli oggetti del mondo materiale e la mette in relazione con l'attività umana. Pone così la diretta correlazione tra attività, praxis, ovvero, produzione, e consumo, fruizione, appropriazione dell'arte da parte degli uomini in quanto «la natura fissata nella separazione dall'uomo, (non) è niente per l'uomo». L'uomo soltanto in quanto si separa dalla «natura» diventa idoneo a sviluppare e a consumare l'arte.

 

«Invero - scrive Marx -  anche l'animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche ecc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L'animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene, mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente; quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza» (303).

 

La produzione dell'arte produce un «oggetto» soltanto quando questo «oggetto» può essere recepito dall'uomo in quanto «oggetto». 

Scrive a tal proposito Marx: «la musica stimola soltanto il senso musicale dell'uomo, e per l'orecchio non musicale, la più bella musica non ha alcun senso (non) è un oggetto, in quanto il mio oggetto può essere soltanto la conferma di una mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com'è la mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com'è la mia forza essenziale quale facoltà soggettiva per sé, andando il significato di un oggetto per me... tanto lontano quanto va il mio senso». (328-329)

 

Già Marx aveva anticipato l'impostazione della teoria della ricezione quando nella Introduzione ai «lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica», scrive che la produzione crea non solo un determinato oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per quell'oggetto: «L'oggetto artistico - e allo stesso modo ogni altro prodotto - crea un pubblico sensibile all'arte e in grado di godere della bellezza».

Questa conclusione di Marx suggerisce che - fermo restando lo specifico del «consumo» della letteratura - la produzione resta il momento fondamentale che contribuisce in modo essenziale a determinare il genere, il contenuto e il risultato del consumo. Marx sottolinea però che anche la produzione viene determinata, per converso, dal consumo: «Il prodotto si afferma e diviene prodotto solo nel consumo [...]».

 

 Il Bello non può essere disconnesso dal nesso fondamentale dell’alienazione di ogni attività umana. Ritorniamo quindi al pensiero marxiano contenuto in proposito nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Per Marx il nesso ontologico fondamentale è costituito dalla alienazione. Il rapporto che lega l’uomo all’«industria» non può essere esaminato oggettivamente se non facciamo riferimento al concetto di alienazione che investe ogni prodotto dell’attività umana produttiva, e quindi anche del prodotto cosiddetto artistico in quanto rientrante anch’esso nell’attività umana produttiva

«L’alienazione, nella sua essenza, implica che ogni sfera mi imponga una norma diversa e antitetica, una la morale, un’altra l’economia politica, perché ciascuna è una determinata alienazione dell’uomo e fissa una particolare cerchia dell’attività sostanziale estraniata e si comporta come estranea rispetto all’altra estraneazione». (338)

 

de chirico ettore e andromaca particolare

 

Il processo di disumanizzazione e alienazione dell’arte

 

«Tanto più praticamente la scienza della natura è penetrata, mediante l’industria, nella vita umana e l’ha riformata e ha preparato l’emancipazione umana dell’uomo, quanto più essa immediatamente ha dovuto completarne la disumanizzazione. La industria è il reale rapporto storico della natura, e quindi della scienza naturale, con l’uomo. Se, quindi, essa è intesa come rivelazione essoterica delle forze essenziali dell’uomo, anche la umanità della natura o la naturalità dell’uomo è intesa. E dunque le scienze naturali perderanno il loro indirizzo astrattamente materiale, o piuttosto idealistico, e diventeranno la base della scienza umana, così come sono già divenute – sebbene in figura di alienazione – la base della vita umana effettiva; e dire che v’è una base per la vita e un’altra per la scienza, questo è fin da principio una menzogna. La natura che nasce nella storia umana – nell’atto del nascere della società umana – è la natura reale dell’uomo, dunque la natura come diventa attraverso l’industria – anche se in forma alienata – è la vera natura antropologica». (Manoscritti economico-filosofici. 330-331)

Nel pensiero marxiano critico (e quindi anche l’arte in quanto produzione rientrante nel concetto di produzione alienata) sia la filosofia che le scienze naturali sono considerate dal punto di vista dell’alienazione quale nesso fondamentale di ogni attività produttiva; sia l’umanizzazione della natura sia la disumanizzazione operate tramite l’industria attecchiscono (in quanto alienate) anche alla sfera (separata) dell’arte.

 

Il pensiero marxiano sull’arte posteriore a Marx

 

Il pensiero marxiano posteriore a Marx non è mai stato capace di indagare la problematica dell’arte dal punto di vista dell’alienazione e dell’estraneazione che attecchisce il piano dell’arte in quanto attività produttiva. E questa macroscopica lacuna favorisce ancora oggi gli indirizzi positivistici che pensano l’arte in sé, come un assoluto astrattamente slegato dal nesso concreto che lo lega all’industria.

L’«industria» è la causa della crescente complessità della società umana (in quanto crea nuovi bisogni mentre soddisfa i vecchi). «La produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica» scrive Marx. In tal senso, anche il bisogno di arte è una «azione storica» e come tale storicamente condizionata e determinata. Come ha scritto Adorno (Teoria estetica), nelle società di massa anche il bisogno di arte non è poi così certo come può apparire, anzi, per il filosofo tedesco il bisogno di arte sembra essere stato abolito, o comunque sostituito con l’arte di massa, ovvero, con il kitsch.

 

Paul Valéry

 

In questo orizzonte problematico anche il «bisogno» del «Bello» non è un fatto così scontato come potrebbe apparire a prima vista, anch’esso soggiace alla alienazione fondamentale che attecchisce la produzione del «Bello». Secondo Adorno, nelle condizioni attuali delle società di massa, il «Bello» si muta in Kitsch. Detto in altri termini, l’umanizzazione dell’arte sventolata in buona fede da ardenti apologeti da tanti pulpiti si muterebbe nella disumanizzazione reale dell’attività produttiva alla quale essa soggiace.

Ritengo che la difficoltà di speculare su di una estetica critica dipenda dalla assenza di un pensiero critico che ponga al centro dell’Estetica i concetti di alienazione (Entfremdung) e di estraneazione (Entäusserung).
E qui si pone il paradosso della posizione estetica: come è possibile che una situazione alienata come quella dell’opera d’arte possa condurre, attraverso l’estraneazione (Entäusserung) propria della attività artistica, ad una messa in risalto di quella alienazione (Entfremdung) che dà piacere al fruitore? Che produce piacere?
Il paradosso della sfera dell’arte, in nuce, è tutto qui.
Per dirla con Valéry, l’arte che non pensa se stessa in rapporto all’industria «è più ottusa e meno libera».

 

citazioni tratte da K. Marx Manoscritti economico-filosofici del 1844 Einaudi 2004

 

   CENNI SUL CONCETTO DI «BELLO» di Giorgio Linguaglossa

 

Ritengo logico e comprensibile e anche encomiabile l'intento di Tomaso Kemeny di Giuseppe Conte e di altri poeti ad una aspirazione al «Bello» da parte dell'arte e della poesia (il fatto che il Bello lo si scriva con la maiuscola o con la minuscola non cambia lo stato delle cose). Sull'aspirazione ad un'arte bella e al «Bello» possiamo essere tutti d'accordo (e se c'è accordo tra tutti vuol dire che si tratta di un accordo superficiale). Ma quando passiamo dalla mera aspirazione, dalla mera intenzione, dalla mera volontà alla concreta manifestazione del «Bello», cioè alla sua «produzione», al fatto che il «Bello» è necessariamente una «attività produttiva», e come tale sottoposta alle categorie economiche, sociali, filosofiche oltre che estetiche che una tale attività comporta, qui credo che non ci sia dubbio alcuno: qui casca l'asino. È qui che sorgono i distinguo fondamentali. Con errate impostazioni categoriali si va dritti alla ipersignificazione del concetto di «Bello». 

Quando io ho parlato, in ordine al problema del «Bello», della necessità di munirsi di una «critica dell'economia estetica» in parallelo a una «critica dell'economia politica» intendevo dire che il problema del «Bello» può essere indagato solo a partire da questa duplice impostazione categoriale. Che il problema del «Bello» non può essere disgiunto dal problema del «Brutto». Che il concetto di «Bello» non può essere disgiunto dal concetto di «mondo». Io non posso aspirare al «Bello» senza pormi il problema di tutto ciò che escludo dal mio concetto di «Bello», cioè di tutto ciò che considero «Brutto». Arrischio  a dire che il Bello è un Evento che accade nel Mondo. Di più non posso dire. Ma allora il problema si sposta, e mi chiedo: che cos'è un «Evento»?, che cos'è l'orizzonte degli «eventi»?

 

Considero il concetto di «Bello» analogo al pensiero di una golden age, una speranza che fonda la speranza. Mi viene in mente la frase di Walter Benjamin: «Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».

 

Ma il «Bello» è «produzione»?, da intendere nel senso marxiano di «attività produttiva umana». Questo è un punto centrale. Se rientra a pieno titolo nel concetto di produzione, dobbiamo chiarire di che tipo di produzione si tratta, da chi viene fatta e a chi si rivolge. Se è produzione dunque è anche una merce?. Mi si dirà: sì ma non è una merce vendibile (oppure si dirà: è una non-merce, il che non contraddice affatto il concetto di merce). E allora io chiedo: ma il fatto che non sia vendibile sul mercato (e ho dei dubbi in proposito) implica anche che non si tratta di una merce?. Ma qui si pone un altro problema: ma una merce non vendibile, non scambiabile, non godibile tramite l'uso, non cessa anche di essere merce?. Vorrei qui introdurre un distinguo: il fatto che una merce (leggi la poesia) non sia vendibile né oggi né domani né dopodomani non significa che  essa non possa trovare un acquirente dopo domani o tra un anno o tra dieci anni o tra cento anni. Voglio dire che si tratta di una merce particolare che, al presente, si trova priva di acquirente ma che, cionondimeno, nessuno è in grado di escludere che non possa trovarlo nel futuro (vicino o lontano). Quindi si tratta di una merce, anche se di tipo sui generis.

 

Dunque, teniamo fermo il punto: il Bello è un oggetto (Gegenstand). Esso rientra nell'ambito della produzione (intesa come attività produttiva), ovvero, attività umana, prassi. Il fatto che ci sia una attività produttiva volta al Bello lo ritengo un pensiero da soppesare con molta cura. Che cosa significa? Che quando un poeta o uno scultore vuole creare si mette in una disposizione volta a creare il Bello? E che cosa significa ciò? Che lascio le pantofole di casa e mi metto a creare il Bello?. No, non credo che le cose stanno così. Non bisogna confondere l'aspirazione al Bello con l'ascesi del Bello, quest'ultima cosa lasciamola ai mistici e agli imbonitori.

 

Un problema sorge quando noi pensiamo al «Bello» (come fa Kemeny) come a «un lavoro spirituale astratto»; un altro problema invece sorge quando intendiamo il «Bello» (come fa Ennio Abate) come un «lavoro spirituale concreto», giacché lo «spirito» è fatto pur sempre di cose materiali, concrete, di materia, di composizione di materie etc.  Ma tutto dipende da cosa ci mettiamo dentro quella scatola chiamata «Bello». E da che cosa c'è al di fuori di quella scatola. Per un cattolico sarà bello il Padre nostro, per un musulmano sarà orribile. E allora?

 

In ultima istanza, il «Bello» può essere considerato come «un sistema di significazione che rimanda ad un mondo di relazione». Ma nella misura in cui cambia «il mondo di relazione» cambierà anche il «il sistema di significazione». Se diciamo che il Bello è fatto da rapporti sociali sedimentati e economici (Ennio Abate), non diciamo nulla che non sappiamo già. Nel Bello entra tutto ciò. Ma mi chiedo: in quale ordine di priorità?. Io direi che nel Bello tutto ciò ci entra ma solo in ultima istanza (ovvero, in seconda istanza). Per Kemeny invece il «Bello» è un ente in sé dotato (in prima istanza) di auto evidenza assoluta (cosa che invece non è per il semplice fatto che noi troviamo il Bello in mezzo a un mucchio di cose Brutte). E qui già sorge il problema di distinguere il «Bello» dal «Brutto», altro problema non da poco perché ciò che per te può essere Bello, per me può essere Brutto, e viceversa. Così torniamo al punto d'accapo, siamo davanti ad una antinomia (cioè a una contraddizione che è nel pensiero ma non nel Reale il quale non fa alcuna distinzione tra il Bello e il Brutto). Nella sua manifestazione immediata nella vita di relazione degli uomini di tutti i giorni il «Bello» è una manifestazione che sta in rapporto immediato-mediato con le facoltà ricettive degli esseri umani. E qui c'è anche un altro problema: andare a vedere che cosa è «immediato» e che cosa è «mediato» nell'ambito della posizione estetica (produzione estetica). E anche qui c'è un ulteriore problema: l'uomo non sta sempre e soltanto nel piano dell'estetico, di solito l'uomo è immerso nella vita di relazione di tutti i giorni (oggi si dice del quotidiano): mangia, beve, passeggia per strada, fa l'amore, legge il giornale, guarda la TV etc., tutte queste azioni non sono estetiche, sono semplicemente azioni del piano del «quotidiano», del piano della «vita» (come si diceva agli inizi del Novecento) che l'uomo fa nel corso della sua vita di relazione. 

 

Vorrei qui riprodurre il commento di Giorgina Busca Gernetti alla poesia "Il Minotauro" di Francesca Diano pubblicata di recente su questo blog, a mio avviso un esempio emblematico di come si possa fare poesia attraverso la «lettura» di un mito:

 

«I miti greci, come spesso anche quelli di altre civiltà, sono giunti fino a noi grazie ai vari poeti o eruditi che li hanno tramandati, talora con lievi varianti nella narrazione degli eventi. Basti pensare alle diverse versioni dell’abbandono di Arianna addormentata sull’isola di Nasso da parte di Teseo durante il ritorno da Creta ad Atene.
Su un punto, però, le narrazioni coincidono: la mostruosità del Minotauro, figlio di Pasifae, moglie del re di Creta Minosse, la quale, innamoratasi dello splendido Toro bianco donato da Poseidone allo stesso Minosse, per congiungersi a lui si camuffò da vacca. Da questo connubio disgustoso nacque il Minotauro, umanoide ma con istinti prevalentemente ferini, tanto che si cibava di carne umana.
E’ nota a tutti la vicenda in cui compaiono l’architetto Dedalo, il Labirinto nel cui centro era rinchiuso il mostro, l’eroe ateniese Teseo che voleva ucciderlo, Arianna, figlia di Minosse e sorellastra del Minotauro, che se ne innamora e lo aiuta, il “filo d’Arianna”, l’uccisione del mostro e l’uscita dal Labirinto di Teseo vincitore.
Ma quante colpe, quanti sacrilegi in questa vicenda in cui, per tradizione, il personaggio negativo è il Minotauro, mentre Teseo è l’eroe positivo che libera Atene dall’orribile tributo di giovani da offrire in pasto al Minotauro?
Pasifae era figlia di Helios, cioè Phoibos, il Sole luminoso, quindi il Minotauro era nipote di Febo-Apollo. Pasifae si congiunse con un toro: nessun commento se non che si trattava del Toro luminoso di Poseidone, quindi il Minotauro era in un certo senso nipote anche del dio del mare. Minosse era figlio di Europa e di Zeus, tramutatosi in toro per rapirla e amarla. Il Minotauro era dunque nipote anche di Zeus. Non un mostro, quindi, ma un discendente luminoso delle maggiori divinità.
Arianna aiutò il nemico Teseo tradendo il padre e concorrendo all’uccisione del fratellastro. Forse lo fece per amore, forse per altri motivi, ma il tradimento resta evidente.
Chi è, allora, il personaggio negativo, il colpevole sacrilego e chi la vittima?
*
Nella sua bella e originale poesia Francesca Diano rovescia la posizione dei personaggi. Con una pregevole struttura in forma di monologo, fa parlare quello che nella tradizione è il personaggio muto: il Minotauro.
L’uomo dalla testa di toro si chiama Asterione (luminoso figlio degli astri); ha una duplice natura, umana e divina, ma gli dèi, per nascondere la ferinità esistente anche in loro, hanno lasciato che Asterione fosse considerato un essere bestiale dagli istinti solo ferini: un mostro.
Asterione, invece, è la vera vittima degli dèi e degli uomini,
Nei versi di Francesca Diano egli mette a nudo la sua umanità e allude spesso alla luce che in lui splende persino nel nome, benché lo abbiano rinchiuso nel buio del Labirinto».

 

Per la poesia, qui:

 

http://lapresenzadierato.wordpress.com/2014/01/17/francesca-diano-il-minotauro/

 

Altro problema sorge quando noi parliamo del piano estetico (o della sfera estetica). Il piano del «Bello», l'essere umano lo raggiunge non per grazia ricevuta o per dono divino ma dopo un lungo e faticoso lavoro di acquisizione di cognizioni culturali ed esperienziali che gli consentono di assaporare il «Bello». Mi spiego: se noi mettiamo davanti ad una persona normale che non ha studiato storia dell'arte un quadro di Picasso cubista o di Jeff Koons di oggi, probabilmente quella persona non capirà niente di ciò che i quadri vogliono esprimere, li troverà brutti, insignificanti, repellenti o, semplicemente, non capirà nulla di ciò che quelle opere vogliono esprimere. Con questo voglio dire che senza una adeguata acquisizione di cultura critica, non è possibile degustare il «Bello», ovvero, il «Bello» rimarrà nascosto, non parlerà, resterà muto.

 

E qui c'è un altro problema non da poco: che cos'è la «cultura» e che cosa si intende con il termine «cultura critica», cioè quel complesso di cognizioni che fa sì che un quadro o una poesia o un romanzo che per te sono Belli, al contrario, per me sono invece Brutti. E qui si nasconde un'altra antinomia che bisogna andare ad indagare... Per la cultura dello sperimentalismo lo Zanzotto de La Beltà (1968) è considerata bella poesia, ma quando si verifica il crollo di una cultura, ecco che quelle opere che rientravano nell'orizzonte problematico di quella cultura, perdono (in tutto o in parte) il loro valore estetico, o almeno, non sono più recepite come opere «belle», o almeno, sono recepite meno «belle». Ecco che anche il Bello è dunque una categoria storica e, in quanto tale, soggetta alle oscillazioni del gusto. E così, una civiltà può nutrire culto per la forma del Bello di altre civiltà, ma ciò non come una invariante, bensì nel senso che mutando il corso del gusto muta anche la ricezione del Bello fino al punto da capovolgere la precedente assunzione di Bello. Il Bello dunque non è mai in sé ma sempre per sé e per noi. Detto in altri termini, il Bello è per un dasein, Il Bello è per l'esistenza mai per l'essenza. Quando si parla di «essenza dl Bello», si parla a vanvera, non si da mai un'essenza del bello: non c'è essenza senza esistenza.

 

Come si può vedere da questi pochi cenni, le cose non sono così scontate o così immediate. Il concetto di «Bello» è, tra tutti, quello più inquinato e contraddittorio di tutti. È un campo aperto nel quale si scontrano le correnti del gusto e gli interessi di parte. Ecco perché una teoria estetica che si occupi del problema del «Bello» non potrebbe non occuparsi anche di ciò che si contraddistingue con il termine di «Brutto». Perché, che cosa fa sì che una cosa sia «Bella» e una cosa sia «Brutta»?. Una estetica del Bello è al contempo anche una estetica del Brutto. E non potrebbe essere diversamente.

 

Giorgio Linguaglossa IL SUICIDIO DELLA FILOSOFIA. UN APPUNTO PER IL NUOVO REALISMO (NEGATIVO)

 

Il dibattito filosofico sul «new realism» è stato avviato da Maurizio Ferraris, autore del «Manifesto del nuovo realismo» (Laterza, pagine 126, € 15).

Sandro Modeo nell'articolo Il suicidio della filsofia il «new realism», contenuto ne "La Lettura" (supplemento Corriere della Sera) 1 aprile 2012, richiama la discussione innescata dal libro di Maurizio Ferraris (Manifesto del nuovo realismo) e la serie di convegni sul «new realism», e rileva come ciò potrebbe indurre qualcuno a pensare che la realtà sia finalmente (e ufficialmente) rientrata nel discorso filosofico.

 

"La sua, scrive Modeo - eclissi andrebbe ricondotta, per Ferraris, soprattutto al pensiero postmodernista, le cui buone intenzioni si sono rovesciate in altrettanti effetti-paradosso: il sogno di una società più solidale e liberata dalla «tirannia della ragione» si è tradotto nel populismo mediatico e nell’allucinazione permanente del reality; e il relativismo anti-illuminista (con la «verità» alleggerita tra virgolette ironiche) ha spianato la strada ai dogmi della Chiesa. Su questo versante socio-politico, il Manifesto ha pagine taglienti e disintossicanti. Ma quando affronta il nucleo dell’equivoco postmodernista (il credo costruttivista, per cui «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni») per introdurre un «nuovo realismo» fondato su una realtà oggettiva indipendente dagli schemi cognitivi dell’osservatore, ci si trova a disagio. Una simile prospettiva — così come quella, recentemente proposta da Umberto Eco  (nell'articolo apparso su questo blog), di un realismo «negativo», fondato su «uno zoccolo duro dell’essere» — è stata infatti disegnata molte volte prima (e meglio): soprattutto in un ambito, la biologia evoluzionistica, che dalla filosofia continua a essere ignorato e/o frainteso… Lo stesso Ferraris — che pure rivaluta l’oggettività fattuale e concettuale della scienza — tiene a smarcarsi dalla pretesa della scienza stessa a invadere terreni non suoi".

 

Modeo cita i risultati delle scienze genetiche, neurobiologiche, embriologiche, «per trovare risposte davvero innovative e convincenti su tante questioni filosofiche e socio-psicologiche; per accorgersi che non c’è nessun reingresso della realtà nel discorso filosofico, per il semplice motivo che non ne è mai uscita, e che la liquidazione del postmodernismo (presentata come un funerale) è solo la visita a una tomba da tempo ricoperta di rampicanti».

 

"In questa prospettiva - continua Modeo - il ruolo centrale viene assunto dal cervello e dal sistema nervoso: nei termini di Lorenz, «l’altra faccia dello specchio», che è però metafora suggestiva ma impropria, perché i substrati neuronali che ci permettono di accendere delle «scene» sul mondo non agiscono come superfici passive, ma come strutture attive e creative, già a livello percettivo. Lo vediamo in tutti i sistemi nervosi che hanno preceduto il nostro. Proseguendo una distinzione tra «sé» e «non sé» avviata dalle cellule — grazie alla membrana — 3 miliardi e mezzo di anni fa, l’evolversi di tali sistemi è una sequenza di «modelli interni del mondo esterno», via via più complessi secondo le variazioni climatiche, il mutare dell’ambiente, la crescente competizione tra specie: si va dai proto-sistemi nervosi di certi vermi (302 neuroni con schemi basici di orientamento) a quelli di pesci, anfibi e rettili, fino ai paleo-mammiferi (già capaci di emozioni e memoria episodica) e ai neo-mammiferi (in cui la corteccia consente di percepire la profondità e i neuroni-specchio di provare empatia).
Ma in questa successione non c’è un progresso: l’evoluzione, nonostante la sua storicità — e fatte salve le estinzioni — è sempre «contemporanea»: i batteri, da cui tutto è cominciato, ne sono i veri vincitori. In un recente, straordinario libro (Engineering Animals), i biologi Mark Denny e Alan McFadzean ricostruiscono nei dettagli non solo la genesi dell’anatomia e la bio-meccanica di decine e decine di animali (come il volo degli albatros), ma anche i meccanismi sensoriali e cognitivi, cioè proprio i loro «modelli interni del mondo esterno». Tra le tante sequenze memorabili: il gusto dei panda rossi (con recettori peculiari del dolce); l’udito «attivo» dei pipistrelli (i cui sonar leggono in anticipo i rilievi della roccia); il campo visivo «elettrico» dell’anguilla; e la fitta elaborazione che presiede all’orientamento dei piccioni, con mappe cerebrali che integrano l’attenzione al sole, alle stelle, ai poli, alle linee costiere.
La lezione è duplice. In primo luogo, elimina il problema del noumeno kantiano, la «cosa in sé» posta al di là dei sensi e della ragione: il nesso tra la realtà «là fuori» (il brulichio di atomi e molecole della materia, animata o inanimata) e quella «là dentro» o «là dietro» (il corredo neurofisiologico) è un incessante dialogo dinamico. Se i cervelli non sono specchi, non sono tuttavia nemmeno proiettori su uno schermo inerte (come vorrebbe il costruttivismo); e il loro interagire col mondo (secondo le predisposizioni delle specie e, in forma più sottile, degli individui) vanno a formare una fantasmagoria di letture del mondo, tra loro fittamente intrecciate. Nello stesso tempo, tutto questo ci ricorda che tutti noi siamo dei patchwork plasmati dal bricolage di un’evoluzione che adatta strutture remote a funzioni nuove, mescolando le specie: e anche qui, non soltanto a livello anatomico (i polmoni come sviluppo delle branchie), ma a livello di schemi percettivi ed emotivo-cognitivi: basti pensare al nostro cervello «rettiliano», al fatto che le proteine attive nelle nostre connessioni neuronali siano quelle dell’adesione cellulare di antichissime spugne, o che un gene decisivo nel predisporre al linguaggio (il Fox P2) sia stato e sia adibito — nell’uomo e in altri animali — alla funzione respiratoria, senza la cui modulazione non potremmo parlare".

 

"Per quanto possiamo spingere in avanti i nostri confini conoscitivi con astrazioni teoriche e prolungamenti tecnici dei nostri sensi (dal telescopio al microscopio) o delle nostre facoltà cognitive (il computer), la nostra raffigurazione del mondo sarà sempre condizionata e mediata dai nostri vincoli evolutivi e neurofisiologici. E lo stesso vale per le più raffinate speculazioni teologiche e filosofiche, per le possibilità dell’immaginazione, per le più azzardate elaborazioni linguistiche: tutte le nostre protesi concettuali più estreme (la Divinità e l’Infinito, l’Essere e il Nulla) si perdono come frecce scagliate nell’indeterminato, o vanno a sbattere sul mondo esterno, «là fuori», perché vanno a sbattere, simultaneamente, sui limiti del nostro cervello, «là dentro». In quest’ottica, anche la dorsale più «provocatoria» della proposta di Ferraris e del «new realism» — tenere scissa l’ontologia dall’epistemologia, il discorso sull’essere dalla teoria della conoscenza — rischia di risultare poco più di un elegante sofisma, se non un mezzo improprio per proteggere l’autonomia della filosofia dalla scienza".

 

Ora, a modesto avviso di chi scrive, per questa via la «cosa in sé» non viene affatto abolita, anzi, proprio la categoria di «realismo» ci richiama alla necessità di una «cosa in sé» che va indagata e rappresentata (in termini matematici, filosofici ed estetici). E quindi il problema concettuale si ripropone tale e quale, almeno finché continueremo a pensare il «reale» come un qualcosa che si suddivide in «interno» ed «esterno», in «soggetto» e «oggetto», in «materia» e «spirito» (concetti validissimi e utilissimi se li intendiamo quali essi sono: protesi della dimensione umana, ovvero, antropomorfizzazioni ontologiche della dimensione epistemologica), ma insufficienti a fondare una filosofia degli enti o ontologica. Ciò che va a sbattere contro i «limiti interni» del nostro cervello è analogo con ciò che va a sbattere contro le cose che stanno «là fuori» di noi; noi, il nostro cervello, è un prodotto del nostro universo tridimensionale, i nostri limiti antropomorfici e antropologici sono attigui ai limiti dell'universo tridimensionale del quale siamo modesti ospiti non saprei dire quanto desiderati.

 

Umberto Eco IL REALISMO MINIMO. IL DIBATTITO SULLA FINE DEL POSTMODERNO: NON TUTTO È INTERPRETAZIONE

da: La Repubblica  11 marzo 2012

 

Il testo di Umberto Eco che qui riproduciamo integralmente è stato scritto in occasione di un convegno a New York che si è tenuto a novembre 2011 sul tema “postmoderno e neorealismo” organizzato da Maurizio Ferraris a cui hanno partecipato filosofi e studiosi internazionali con posizioni diverse sul tema. Il testo è ora pubblicato sul numero di marzo di Alfabeta2 che da molti mesi ospita interventi su questo tema. Il testo di Eco spiega la posizione del “realismo negativo” che si può riassumere nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata.

Ho letto in vari siti di internet o in articoli di pagine culturali che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi chiedo di che si tratti, o almeno che cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta e che avevo esposte poi nel saggio Brevi cenni sull’Essere, del 1985.

 

So qualche cosa del Vetero Realismo, anche perché la mia tesi di laurea era su Tommaso d’Aquino e Tommaso era certamente un Vetero Realista o, come si direbbe oggi, un Realista Esterno: il mondo sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere. Rispetto a tale mondo Tommaso sosteneva una teoria corrispondentista della verità: noi possiamo conoscere il mondo quale è come se la nostra mente fosse uno specchio, per adaequatio rei et intellectus. Non era solo Tommaso a pensarla in tal modo e potremmo divertirci a scoprire, tra i sostenitori di una teoria corrispondentista, persino il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo per arrivare alle forme più radicalmente tarskiane di una semantica dei valori di verità.

 

In opposizione al Vetero Realismo abbiamo poi visto una serie di posizioni per cui la conoscenza non funziona più a specchio bensì per collaborazione tra soggetto conoscente e spunto di conoscenza con varie accentuazioni del ruolo dell’uno o dell’altro polo di questa dialettica, dall’idealismo magico al relativismo (benché quest’ultimo termine sia stato oggi talmente inflazionato in senso negativo che tenderei ad espungerlo dal lessico filosofico), e in ogni caso basate sul principio che nella costruzione dell’oggetto di conoscenza, l’eventuale Cosa in Sé viene sempre attinta solo per via indiretta. E intanto si delineavano forme di Realismo Temperato, dall’Olismo al Realismo Interno – almeno sino a che Putnam non aveva ancora una volta cambiato idea su questi argomenti. Ma, arrivato a questo punto, non vedo come possa articolarsi un cosiddetto Nuovo Realismo, che non rischi di rappresentare un ritorno al Vetero.

 

Nel convocarci oggi qui, ieri a New York, domani a Bonn e poi chissà dove a discutere di queste cose, Maurizio Ferraris ha fissato dei confini alla nostra discussione. Il Nuovo Realismo sarebbe un modo di reagire alla filosofia del postmodernismo.

 

Ma qui nasce il problema di cosa si voglia intendere per postmodernismo, visto che questo termine viene usato equivocamente in tre casi che hanno pochissimo in comune. Il termine nasce, credo a opera di Charles Jenks, nell’ambito delle teorie dell’architettura, dove il postmoderno costituisce una reazione al modernismo e al razionalismo architettonico, e un invito a rivisitare le forme architettoniche del passato con leggerezza e ironia (e con una nuova prevalenza del decorativo sul funzionale).

 

L’elemento ironico accomuna il postmodernismo architettonico a quello letterario, almeno come era stato teorizzato negli anni Settanta da alcuni narratori o critici americani come John Barth, Donald Barthelme e Leslie Fiedler. Il moderno ci apparirebbe come il momento a cui si perviene alla crisi descritta da Nietzsche nella Seconda Inattuale, sul danno degli studi storici. Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta. L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi.

 

Ma era arrivato il momento in cui il moderno non poteva andare oltre, perché si era ridotto al metalinguaggio che parlava dei suoi testi impossibili (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno è consistita nel riconoscere che il passato, visto che la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.

 

Se il postmoderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certamente Borges, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma la sua citazione ininterrotta.

 

Ma se questo è stato il postmodernismo in architettura, arte e letteratura, che cosa aveva o ha in comune col postmodernismo filosofico, almeno quale lo si fa nascere con Lyotard? Certamente, teorizzando la fine delle grandi narrazioni e di un concetto trascendentale di verità, si riconosce l’inizio di epoca del disincanto – e nel celebrare la perdita della totalità e dando il benvenuto al molteplice, al frammentato, al polimorfo, all’instabile, il postmodernismo filosofico mostra alcune connessioni con l’ironia metanarrativa o con la rinuncia dell’architettura a prescrivere modi di vita razionali. Ma queste analogie, questa comunità di clima culturale, non sembrano aver alcuna connessione diretta con la questione del realismo, perché si può essere polimorfi e disincantati, rinunciare ai grandi racconti per coltivare saperi locali, senza per questo mettere in dubbio un rapporto quasi vetero-realistico con le cose di cui si parla. Caso mai verrebbe messo in dubbio il sapere degli universali, non la credenza anche fortissima nella persistenza dei particolari e nella nostra capacità di conoscerli per quel che sono (e in tal senso sarei tentato di ascrivere a una temperie postmoderna anche la teoria kripkiana della designazione rigida – e infine ricordiamo che il passaggio da Tommaso a Ockham, se sancisce la rinuncia agli universali, non mette in crisi i concetti di realtà e di verità).

 

Quello che piuttosto emerge (nel cosiddetto postmodernismo filosofico), passando attraverso la decostruzione (sia quella di Derrida sia quella d’oltre oceano, che è solo un articolo prodotto dall’industria accademica americana su licenza francese) e le forme del pensiero debole, è un tratto molto riconoscibile (su cui in effetti si accentra la polemica di Ferraris), e cioè il primato ermeneutico dell’interpretazione, ovvero lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni.

 

A questa curiosa eresia avevo da gran tempo reagito, a tal segno che a una serie di miei studi degli anni Ottanta avevo dato nel 1990 il titolo I limiti dell’interpretazione, partendo dall’ovvio principio che, perché ci sia interpretazione ci deve essere qualcosa da interpretare – e se pure ogni interpretazione non fosse altro che l’interpretazione di una interpretazione precedente, ogni interpretazione precedente assumerebbe, dal momento in cui viene identificata e offerta a una nuova interpretazione, la natura di un fatto – e che in ogni caso il regressum ad infinitum dovrebbe a un certo punto arrestarsi a ciò da cui era partito e che Peirce chiamava l’Oggetto Dinamico. Ovvero ritenevo che, quand’anche conoscessimo I promessi sposi solo attraverso l’interpretazione che ne dava Moravia nell’edizione Einaudi, quando avessimo dovuto interpretare l’interpretazione di Moravia avremmo avuto davanti a noi un fatto innegabile, il testo di Moravia, punto ineliminabile di riferimento per chiunque avesse voluto, sia pure liberissimamente, interpretarlo, e dunque fatto intersoggettivamente verificabile.

 

È vero che quando si cita lo slogan per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni anche il più assatanato tra i post modernisti è pronto ad asserire che lui o lei non hanno mai negato la presenza fisica non solo dell’edizione Einaudi dei Promessi sposi, ma anche del tavolo a cui sto parlando. Il postmodernista dirà semplicemente che questo tavolo diventa oggetto di conoscenza e di discorso solo se lo si interpreta come supporto per un’operazione chirurgica, come tavolo da cucina, come cattedra, come oggetto ligneo a quattro gambe, come insieme di atomi, come forma geometrica imposta a una materia informe, persino come tavola galleggiante per salvarmi durante un naufragio. Sono sicuro che anche il postmodernista a tempo pieno la pensi così, salvo che quello che stenta ad ammettere è che non può usare questo tavolo come veicolo per viaggiare a pedali tra Torino e Agognate lungo l’autostrada per Milano. Eppure questa forte limitazione alle interpretazioni possibili del tavolo era prevista dal suo costruttore, che seguiva il progetto di qualcosa interpretabile in molti modi ma non in tutti.

 

L’argomento, che non è paradossale, bensì di assoluto buon senso, dipende dal problema delle cosiddette affordances teorizzate da Gibson (e che Luis Prieto avrebbe chiamato pertinenze), ovvero dalle proprietà che un oggetto esibisce e che lo rendono più adatto a un uso piuttosto che a un altro. Ricorderò un mio dibattito con Rorty, svoltosi a Cambridge nel 1990, a proposito dell’esistenza o meno di criteri d’interpretazione testuali. Richard Rorty – allargando il discorso dai testi ai criteri d’interpretazione delle cose che stanno nel mondo – ricordava che noi possiamo certo interpretare un cacciavite come strumento per avvitare le viti ma che sarebbe altrettanto legittimo vederlo e usarlo come strumento per aprire un pacco.

 

Nel dibattito orale Rorty alludeva al diritto che avremmo d’interpretare un cacciavite anche come qualcosa di utile per grattarci un orecchio. Nell’intervento poi consegnato da Rorty all’editore l’allusione alla grattata d’orecchio era scomparsa, perché evidentemente Rorty l’aveva intesa come semplice boutade, inserita a braccio durante l’intervento orale. Possiamo astenerci dall’attribuirgli questo esempio non più documentato ma, visto che – se non lui – qualcun altro ha usato argomenti consimili, posso ricordare la mia contro-obiezione di allora, basata proprio sulla nozione di affordance. Un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi d’entro l’orecchio, perché è appunto tagliente, e troppo lungo perché la mano possa controllarne l’azione per una operazione così delicata; per cui sarà meglio usare un bastoncino leggero che rechi in cima un batuffolo di cotone. C’è dunque qualcosa sia nella conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite che non mi permette di interpretare quest’ultimo a capriccio.

 

Rorty aveva rinunciato all’argomento dell’orecchio, ma che dire di tanto decostruzionismo che rivisita l’antico detto di Valéry per cui il n’y a pas de vrai sens d’un texte e di Stanley Fish che nel suo There a Text in This Class? Consentiva alla libera interpretazione di ogni testo?

 

Che non vi siano fatti ma solo interpretazioni viene attribuito a Nietzsche e credo che persino Nietzsche ritenesse che il cavallo che aveva baciato non lontano da qui esistesse come fatto prima che lui decidesse di farlo oggetto dei suoi eccessi affettivi. Però ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, e queste responsabilità emergono chiaramente in quel testo che è Su verità e menzogna in senso extramorale. Qui Nietzsche dice che, poiché la natura ha gettato via la chiave, l’intelletto gioca su finzioni che chiama verità, o sistema dei concetti, basato sulla legislazione del linguaggio. Noi crediamo di parlare di (e conoscere) alberi, colori, neve e fiori, ma sono metafore che non corrispondono alle essenze originarie. Ogni parola diventa concetto sbiadendo nella sua pallida universalità le differenze tra cose fondamentalmente disuguali: così pensiamo che a fronte della molteplicità delle foglie individuale esista una «foglia» primordiale «sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte – ma da mani maldestre – tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e attendibile in quanto copia fedele della forma originale».

 

L’uccello o l’insetto percepiscono il mondo in un modo diverso dal nostro, e non ha senso dire quale delle percezioni sia la più giusta, perché occorrerebbe quel criterio di «percezione esatta» che non esiste, perché «la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile». Dunque un kantismo, ma senza fondazione trascendentale.

 

A questo punto per Nietzsche la verità è solo «un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi» elaborati poeticamente, e che poi si sono irrigiditi in sapere, «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria», monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione solo come metallo, così che ci abituiamo a mentire secondo convenzione, avendo sminuito le metafore in schemi e concetti. E di lì un ordine piramidale di caste e gradi, leggi e delimitazioni, interamente costruito dal linguaggio, un immenso «colombaio romano», cimitero delle intuizioni.

 

Che questo sia un ottimo ritratto di come l’edificio del linguaggio irreggimenti il paesaggio degli enti, o forse un essere che rifiuta a essere irrigidito in sistemi categoriali, è innegabile. Ma rimangono assenti, anche dai brani che seguono, due domande: se adeguandoci alle costrizioni di questo colombaio si riesce in qualche modo a fare i conti col mondo, per esempio decidendo che avendo la febbre è più opportuno assumere aspirina che cocaina (che non sarebbe osservazione da nulla); e se non avvenga che ogni tanto il mondo ci costringa a ristrutturare il colombaio, o addirittura a sceglierne una forma alternativa (che è poi il problema della rivoluzione dei paradigmi conoscitivi). Nietzsche non sembra chiedersi se e perché e da dove un qualche giudizio fattuale possa intervenire a mettere in crisi il sistema-colombaio.

 

Ovvero, a dir la verità, egli avverte l’esistenza di costrizioni naturali e conosce un modo del cambiamento. Le costrizioni gli appaiono come «forze terribili» che premono continuamente su di noi, contrapponendo alle verità «scientifiche» altre verità di natura diversa; ma evidentemente rifiuta di riconoscerle concettualizzandole a loro volta, visto che è stato per sfuggire ad esse che ci siamo costruiti, quale difesa, l’armatura concettuale. Il cambiamento è possibile, ma non come ristrutturazione, bensì come rivoluzione poetica permanente. «Se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura». Bella coincidenza, queste righe vengono scritte due anni dopo che Rimbaud, nella lettera a Demeny, aveva proclamato che «le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens», e nello stesso periodo vedeva «A noir, corset velu de mouches éclatantes» e «O suprème Clairon plein des strideurs étranges».

 

Così infatti per Nietzsche l’arte (e con essa il mito) «confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno». Un sogno fatto di alberi che nascondo ninfe, e di dèi in forma di toro che trascinano vergini.

 

Ma qui manca la decisione finale. O si accetta che quello che ci attornia, e il modo in cui abbiamo cercato di ordinarlo, sia invivibile, e lo si rifiuta, scegliendo il sogno come fuga dalla realtà (e si cita Pascal, per cui basterebbe sognare davvero tutte le notti di essere re, per essere felice – ma è Nietzsche stesso ad ammettere che si tratterebbe d’inganno, anche se supremamente giocondo), oppure, ed è quello che la posterità nicciana ha accolto come vera lezione, l’arte può dire quello che dice perché è l’essere stesso, nella sua languida debolezza e generosità, che accetta anche questa definizione, e gode nel vedersi visto come mutevole, sognatore, estenuatamente vigoroso e vittoriosamente debole. Però, nello stesso tempo, non più come «pienezza, presenza, fondamento, ma pensato invece come frattura, assenza di fondamento, in definitiva travaglio e dolore» (e cito Vattimo, Le avventure della differenza, p. 84). L’essere allora può essere parlato solo in quanto è in declino, non s’impone ma si dilegua. Siamo allora a una «ontologia retta da categorie «deboli» (Vattimo p. 9). L’annuncio nicciano della morte di Dio altro non sarà che l’affermazione della fine della struttura stabile dell’essere (Introduzione al Pensiero debole, p. 1983: 21) L’essere si darà solo «come sospensione e come sottrarsi» (Vattimo Oltre l’interpretazione, p. 18).

 

In altre parole: una volta accettato il principio che dell’essere si parla solo in molti modi, che cosa è che ci impedisce di credere che tutte le prospettive siano buone, e che quindi non solo l’essere ci appaia come effetto di linguaggio ma sia radicalmente e altro non sia che effetto di linguaggio, e proprio di quella forma di linguaggio che si può concedere i maggiori sregolamenti, il linguaggio del mito o della poesia? L’essere allora, oltre che (come ha detto una volta Vattimo con efficace piemontesismo) «camolato», malleabile, debole, sarebbe puro flatus vocis. A questo punto esso sarebbe davvero opera dei Poeti, intesi come fantasticatori, mentitori, imitatori del nulla, capaci di porre irresponsabilmente una cervice equina su un corpo umano, e far d’ogni ente una Chimera.

 

Decisione per nulla confortante, visto che, una volta regolati i conti con l’essere ci ritroveremmo a doverli fare con il soggetto che emette questo flatus vocis (che è poi il limite di ogni idealismo magico). Qual è lo statuto ontologico di colui che dice che non vi è alcun statuto ontologico?

 

Non solo. Se è principio ermeneutico che non ci siano fatti ma solo interpretazioni, questo non esclude che ci possano essere per caso interpretazioni «cattive». Dire che non c’è figura vincente del poker che non sia costruita da una scelta del giocatore (magari incoraggiata dal caso) non significa dire che ogni figura proposta dal giocatore sia vincente. Basterebbe che al mio tris d’assi l’altro opponesse una scala reale, e la mia scommessa si sarebbe dimostrata fallace. Ci sono nella nostra partita con l’essere dei momenti in cui Qualcosa risponde con una scala reale al nostro tris d’assi?

 

Tornando al cacciavite di Rorty si noti che la mia obiezione non escludeva che un cacciavite possa permettermi infinite altre operazioni: per esempio potrei utilmente usarlo per uccidere o sfregiare qualcuno, per forzare una serratura o per fare un buco in più in una fetta di groviera. Quello che è sconsigliabile farne è usarlo per grattarmi l’orecchio. Per non dire (il che sembra ovvio ma non è) che non posso usarlo come bicchiere perché non contiene cavità che possano ospitare del liquido. Il cacciavite risponde di SI a molte delle mie interpretazioni ma a molte, e almeno ad una risponde di NO.

 

Riflettiamo su questo NO, che sta alla base di quello che chiamerò il mio Realismo Negativo. Il vero problema di ogni argomentazione «decostruttiva» del concetto classico di verità non è di dimostrare che il paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace. Su questo pare che siano d’accordo tutti, ormai. Il mondo quale ce lo rappresentiamo è certamente un effetto d’interpretazione, e sino a ieri lo interpretavamo come se i neutrini viaggiassero anch’essi alla velocità della luce e forse domani dovremo deciderci a cambiare idea mettendo in crisi una presunta costante universale. Il problema è piuttosto quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione dell’impossibile. Quale è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico (perché esistono pure persone che dopo averlo assunto si gettano dalla finestra convinti di volare, e si spiaccicano al suolo -e badiamo, contro i propri propositi e speranze), e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda?

 

Poniamo pure, con Vattimo (Oltre l’interpretazione, p.100) una differenza tra epistemologia, che è «la costruzione di corpi di sapere rigorosi e la soluzione di problemi alla luce di paradigmi che dettano le regole la verifica delle proposizioni» (e ciò sembra corrispondere al ritratto che Nietzsche dà dell’universo concettuale di una data cultura) e ermeneutica come «l’attività che si dispiega nell’incontro con orizzonti paradigmatici diversi, che non si lasciano valutare in base a una qualche conformità (a regole o, da ultimo, alla cosa), ma si danno come proposte «poetiche» di mondi altri, di istituzione di regole nuove». Quale regola nuova la Comunità deve preferire, e quale altra condannare come follia? Vi sono pur sempre, e sempre ancora, coloro che vogliono dimostrare che la terra è quadra, o che viviamo non all’esterno bensì all’interno della sua crosta, o che le statue piangono, o che si possono flettere forchette per televisione, o che la scimmia discende dall’ uomo – e ad essere flessibilmente onesti e non dogmatici bisogna pure trovare un criterio pubblico onde giudicare se le loro idee siano in qualche modo accettabili.

 

Di lì l’idea di un Realismo Negativo che si potrebbe riassumere, sia parlando di testi che di aspetti del mondo, nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette.

 

Poniamo che su quel muro sia dipinto uno splendido trompe l’oeil che rappresenta una porta aperta. Posso interpretarlo come trompe l’oeil che intende ingannarmi, come porta vera (e aperta), come rappresentazione con finalità estetiche di una porta aperta, come simbolo di ogni Varco a un Altrove, e così via, forse all’infinito. Ma se l’interpreto come vera porta aperta e cerco di attraversarla, batto il naso contro il muro. Il mio naso ferito mi dice che il fatto che cercavo di interpretare si è ribellato alla mia interpretazione.

 

Certamente la nostra rappresentazione del mondo è prospettica, legata al modo in cui siamo biologicamente, etnicamente, psicologicamente e culturalmente radicati così da non ritenere mai che le nostre risposte, anche quando appaiono tutto sommato «buone», debbano essere ritenute definitive. Ma questo frammentarsi delle interpretazioni possibili non vuole dire che everything goes.

In altre parole: esiste uno zoccolo duro dell’essere, tale che alcune cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano essere prese per buone. Chi ha mai detto che i fatti che interpreto possano pormi dei Limiti? Come posso fondare il concetto di Limite?

 

Questo potrebbe essere un semplice postulato dell’interpretazione, perché se assumessimo che delle cose si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura della loro interrogazione continua. A questo punto anche il più radicale dei relativisti potrebbe decidere di assumere l’interpretazione del più radicale dei realisti vecchio stampo, visto che ogni interpretazione vale l’altra.

 

Noi abbiamo invece la fondamentale esperienza di un Limite di fronte al quale il nostro linguaggio sfuma nel silenzio: è l’esperienza della Morte. Siccome mi avvicino al mondo sapendo che almeno un limite c’è, non posso che proseguire la mia interrogazione per vedere se, per caso, di limiti non ce ne siano altri ancora.

 

Ciò che voglio dire ora si ispira a una teoria non metafisica ma semiotico-linguistica, quella di Hjelmslev. Noi usiamo segni come espressioni per esprimere un contenuto, e questo contenuto viene ritagliato e organizzato in forme diverse da culture (e lingue) diverse. Su che cosa viene ritagliato? Su una pasta amorfa, amorfa prima che il linguaggio vi abbia operato le sue vivisezioni, che chiameremo il continuum del contenuto, tutto l’esperibile, il dicibile, il pensabile – se volete, l’orizzonte infinito di ciò che è, è stato e sarà, sia per necessità che per contingenza. Chiamiamolo pure essere o Mondo, come ciò che presiede ogni costruzione e donazione di forma operata dal linguaggio. Parrebbe che, prima che una cultura non l’abbia linguisticamente organizzato in forma del contenuto, questo continuum sia tutto e nulla, e sfugga quindi a ogni determinazione. E in tal senso Hjelmslev non avrebbe detto nulla di diverso da Nietzsche. Tuttavia ha sempre imbarazzato studiosi e traduttori il fatto che Hjelmslev chiamasse il continuo, in danese, mening, che è inevitabile tradurre con «senso» (ma non necessariamente nel senso di «significato» bensì nel senso di «direzione», nello stesso senso in cui in una città esistono sensi permessi e sensi vietati).

 

Che cosa significa che ci sia del senso, prima di ogni articolazione sensata operata dalle conoscenza umana? Hjelmslev lascia a un certo momento capire che per «senso» intende il fatto che espressioni diverse in lingue diverse come piove, il pleut, it rains, si riferiscano tutte allo stesso fenomeno. Come a dire che nel magma del continuo ci sono delle linee di resistenza e delle possibilità di flusso, come delle nervature del legno o del marmo che rendano più agevole tagliare in una direzione piuttosto che nell’altra. È come per il bue o il vitello: in civiltà diverse viene tagliato in modi diversi, per cui la sirloin steak americana non corrisponde a nessuna bistecca nostrana. Eppure sarebbe molto difficile concepire un taglio che offrisse nello stesso momento l’estremità del muso e la coda.

 

Se il continuum ha delle linee di tendenza, per impreviste e misteriose che siano, non si può dire tutto quello che si vuole. Il mondo può non avere un senso, ma ha dei sensi; forse non dei sensi obbligati, ma certo dei sensi vietati. Ci sono delle cose che non si possono dire.

 

Non importa che queste cose siano state dette un tempo. In seguito abbiamo per così dire «sbattuto la testa» contro qualche evidenza che ci ha convinto che non si poteva più dire quello che si era detto prima.

 

Naturalmente ci sono dei gradi di costrizione. Si prendano due esempi, la confutazione del sistema tolemaico e quella dell’esistenza della Terra Australis Incognita come una immensa calotta -fertilissima- che avrebbe avvolto l’emisfero sud del pianeta. Quando vigevano le due ipotesi, ora refutate, il mondo noto permetteva di essere spiegato in modo verosimile e ragionevole: la teoria tolemaica per secoli ha dato ragione di moltissimi fenomeni, e la persuasione dell’esistenza di una terra australe ha incoraggiato innumerevoli viaggi di scoperta, che di quella terra avevano persino toccato le presunte propaggini. Poi si è scoperto che il sistema copernicano (con le varie correzioni apportatevi sino a Keplero) spiegava meglio i fenomeni celesti, e che la Terra Australe in quanto calotta globale non esiste. Potremmo persino pensare che un giorno – anche se per ora la teoria eliocentrica risponde a più quesiti e ci permette più previsioni di quanto non potesse la teoria geocentrica – emerga un sistema più esplicativo che mette in crisi entrambe le teorie. Ma per ora noi dobbiamo scommettere sul sistema di Keplero, come se fosse vero, e non possiamo usare più la teoria geocentrica. Quanto alla Terra Australe, nella misura in cui dobbiamo prestar fede ai dati di una esperienza provata da migliaia di testimoni e da misurazioni scientifiche, pare assolutamente impossibile affermare che esiste un continente che copre a calotta l’emisfero sud del pianeta, a meno che non decidiamo di definire come Terra Australis l’Antartide (ma si tratterebbe di un puro gioco sui nomi).
Ci sono delle cose che non si possono dire. Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice NO. Questo NO è la cosa più vicina che si possa trovare, prima di ogni Filosofia Prima o Teologia, alla idea di Dio o di Legge. Certamente è un Dio che si presenta (se e quando si presenta) come pura Negatività, puro Limite, pura interdizione.

 

E qui debbo fare una precisazione, perché mi rendo conto che la metafora dello zoccolo duro può fare pensare che esista un nocciolo definitivo che un giorno o l’altro la scienza o la filosofia metteranno a nudo; e nello stesso tempo la metafora può fare pensare che questo zoccolo, questi limiti di cui ho parlato, siano quelli che corrispondono alle leggi naturali. Vorrei chiarire (anche a costo di ripiombare nello sconforto gli ascoltatori che per un attimo avevano creduto di ritrovare una idea consolatoria della Realtà) che la mia metafora allude a qualcosa che sta ancora al di qua delle leggi naturali, che persisterebbe anche se le leggi newtoniane si rivelassero un giorno sbagliate – ed anzi sarebbe proprio quel qualcosa che obbligherebbe la scienza a rivedere persino l’idea di leggi che parevano definitivamente adeguare la natura dell’universo. Quello che voglio dire è che noi elaboriamo leggi proprio come risposta a questa scoperta di limiti, che cosa siano questi limiti non sappiamo dire con certezza, se non appunto che sono dei «gesti di rifiuto», delle negazioni che ogni tanto incontriamo. Potremmo persino pensare che il mondo sia capriccioso, e cambi queste sue linee di tendenza – ogni giorno o ogni milione di anni. Ciò non eliminerebbe il fatto che noi le incontriamo.

 

Esiste uno Zoccolo Duro persino nel Dio delle religioni rivelate, dove Dio prescrive dei limiti persino a se stesso. C’è una bella Quaestio Quodlibetalis di San Tommaso in cui il filosofo chiede utrum Deus possit reparare virginis ruinam e cioè se Dio possa riparare al fatto che una vergine abbia perso la propria verginità. La risposta di San Tommaso è chiara: se la domanda riguarda questioni spirituali, Dio può certamente riparare al peccato commesso e restituire alla peccatrice lo stato di grazia; se riguarda questioni fisiche, Dio può con un miracolo ricostituire l’integrità fisica della fanciulla; ma se la questione è logica e cosmologica, ebbene, neppure Dio può fare che ciò che è stato non sia stato. Lascio da decidere se questa necessità sia stata posta liberamente da Dio o faccia parte della stessa natura divina. In ogni caso, dal momento che c’è, anche Dio ne è limitato.

 

Credo che ci siano dei rapporti tra questo mio modestissimo Realismo Negativo (per cui avvertiamo qualcosa fuori di noi e dalle nostre interpretazioni solo quando riceviamo un diniego) e l’idea popperiana per cui l’unica prova a cui possiamo sottoporre le nostre teorie scientifiche è quella della loro falsificabilità. Non sapremo mai definitivamente se una interpretazione è giusta ma sappiamo con certezza quando non tiene.

 

Credo di essermi attenuto a questo principio di realismo negativo sin da quando, all’inizio degli anni Sessanta, nel sostenere l’indispensabile collaborazione del fruitore a ogni testo artistico, intitolavo il mio libro Opera Aperta. Questo apparente ossimoro mirava a sostenere che l’apertura, potenzialmente infinita, si misurava di fronte all’esistenza concreta dell’opera da interpretare.

 

Che era poi da parte mia una ripresa dell’idea pareysoniana che l’interpretazione si articola sempre in una dialettica di iniziativa dell’interprete e fedeltà alla forma da interpretare.

 

Infinite sono le interpretazioni possibili del Finnegans Wake ma neppure il più selvaggio tra i decostruzionisti può dire che esso racconta la storia di una contessa russa che si uccide gettandosi sotto il treno.

 

Potrei tradurre questa mia idea di Realismo Negativo in termini peirceani. Ogni nostra interpretazione è sollecitata da un Oggetto Dinamico che noi conosceremo sempre e solo attraverso una serie di Oggetti Immediati (l’Oggetto Immediato essendo già un segno, che può essere chiarito solo da una serie successiva di Interpretanti, ciascun interpretante successivo spiegando sotto un certo profilo il precedente, in un processo di semiosi illimitata). Ma nel corso di questo processo produciamo degli Abiti, delle forme di comportamento, che ci portano ad agire sull’Oggetto Dinamico da cui eravamo partiti e a modificare la Cosa in Sé da cui eravamo partiti, offrendo un nuovo stimolo al processo della semiosi. Questi abiti possono avere o meno successo, ma quando non l’ottengono il principio del fallibilismo deve portarci a ritenere che alcune delle nostre interpretazioni non erano adeguate.

 

È sufficiente intrattenere questa idea minimale di realismo, che coincide benissimo col fatto che conosciamo i fatti solo attraverso il modo in cui li interpretiamo? Una volta Searle aveva detto che realismo significa che siamo convinti che le cose vadano in un certo modo, che forse non riusciremo mai a decidere in che modo vadano, ma che siamo sicuri che esse vadano in un certo qual modo anche se non sapremo mai quale. E questo ci basta per credere (e qui Peirce viene in soccorso a Searle) che in the long run, alla fin fine, sia pure sempre parzialmente noi possiamo portare avanti la torcia della verità.

 

La forma modesta del Realismo Negativo non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità, ovvero sapere definitivamente what is the case, ma ci incoraggia a cercare ciò che in qualche modo sta davanti a noi; e la nostra consolazione di fronte a ciò che altrimenti ci parrebbe per sempre inafferrabile consiste nel fatto che noi possiamo sempre dire, anche ora, che alcune delle nostre idee sono sbagliate perché certamente ciò che avevamo asserito non era il caso.