Leggiamo la conclusione del "Cantico del gallo silvestre" di Giacomo Leopardi:
«Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà neppure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi».
La frase chiave di Leopardi sulla «natura» è questa: «perpetuo circuito di produzione e distruzione». Sembra una frase di Albert Caraco. Nessuna illusione sulla bontà della «natura» nel pensiero di Leopardi della maturità ma uno sguardo oggettivo che osserva le cose nella loro aseità. La «natura» non mira alla felicità o all’infelicità degli uomini. L’uomo non è il suo fine, la «natura» non si accorge dell’uomo, va, segue le sue leggi e non si accorgerebbe nemmeno se in un colpo solo uccidesse ed estinguesse la razza umana. La «natura» è indifferente e cieca, non sa quello che fa, è innocente. Se ancora nel 1821 Leopardi accettava le leggi della natura in quanto «benignissima», nelle Operette morali la legge di «natura» è «spaventevole».
Nel “Dialogo della Natura e di un islandese” Leopardi afferma che l’ordine dell’universo è cattivo, forse per qualche creatura l’ordine può sembrare «perfettamente buono», ma è un inganno. Così commenta il filosofo e poeta recanatese: «Ammiriamo questo ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme». Il «male» nel mondo non è accidentale, non è un disordine straordinario, no, «il male è nell’ordine, e «esso ordine non potrebbe star senza il male». L’ordine dunque è fondato sul «male», il «male» è ordinario, il «male» è essenziale. Non c’è altro che «male».
Leopardi scrive queste parole sul «male» il 17 maggio 1829 a Recanati, due anni prima aveva composto il Dialogo di Plotino e di Porfirio nel quale c’è ancora una illusione sulla bontà primitiva della «natura».
Il 22 aprile 1826 scrive: «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male e ordinata dal male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male». Leopardi è un materialista che odia la materia, in essa vede annidarsi il «male», il «male» è il «tutto». Per Leopardi il «tutto» non è il «tutto», che c’è qualcosa oltre di esso: «Non v’è altro bene che il non essere… Non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose». E Dio? «L’infinita possibilità è l’unica cosa assoluta», risponde Leopardi.
Commenta Pietro Citati nel suo monumentale lavoro sul recanatese: «Leopardi non conosceva i tempi e i luoghi moderni. Aveva vissuto in un grosso paese come Recanati: aveva abitato per qualche mese a Roma e per quasi due anni a Bologna, città avvolte dal tedio pontificio: Non leggeva i giornali e i romanzi francesi, che rivelavano la straripante, quasi mostruosa, vitalità di Parigi: non avrebbe dunque dovuto comprendere il moderno: le sue idee, le sue tendenze, le sue passioni, la sua forza metamorfica. Ma, come dicono Timandro ed Eleandro, il suo cervello era «fuori moda». Questa era una delle sue più grandi facoltà: non appartenere a nessuna epoca, né a quella presente né a quella passata; non viveva nel quarto secolo prima di Cristo né nel 1750 o nel 1826. Era a casa dappertutto e da nessuna parte. La sua radicale estraneità al tempo gli permise di comprendere il diciannovesimo secolo, la società borghese e quella di massa. Se leggiamo lo Zibaldone, lampi ci richiamano di continuo alla memoria Nietzsche e Spengler, Adorno e David Riesman. Così Leopardi, il non moderno, ci sembra straordinariamente moderno, come se abitasse e guardasse e studiasse cosa avviene oggi». (p. 298 “Leopardi” Mondadori, 2010)
Resta una singolare interrogazione: perché mai Leopardi non ha mai pensato sul concetto di «Bello» nell’arte? Come mai questa lacuna? Ma è una vera lacuna del suo pensiero?, o, nel quadro del suo pensiero il «Bello» afferirebbe a quella «seconda natura» che per il recanatese costituisce la società degli uomini?, e quindi non altro sarebbe che un modus, una secondarietà della categoria centrale della «natura» intorno alla quale il suo pensiero ha incessantemente tentato una ricognizione la più esaustiva possibile in quella monumentale indagine che è lo Zibaldone.
Leopardi non si è mai posto la domanda fondamentale che per noi che veniamo Dopo il Moderno invece è essenziale: Che posto ha il «Bello» nell’impero del «male»? Che posto ha il «Bello» nel mondo dominato dalla Tecnica? Che posto ha il «Bello» nel mondo delle sorti progressive? Forse perché Leopardi già intuisce, come nessun altro intellettuale del suo tempo e di quello seguente, ciò che accadrà nella futura società dell’organizzazione amministrativa degli stati moderni, nella società della mercificazione e del mercato.
Leopardi con straordinario acume non ha mai considerato la problematica del «Bello» degna della sua attenzione. Non la considera affatto una problematica, la considera una categoria sussidiaria e secondaria, affetta, cioè, da secondarietà, e quindi epifenomenica.