EDITH DZIEDUSZYCKA 8 Dicembre, ore 18, PALAZZO DEI CONGRESSI di ROMA (Piazzale Kennedy)  SALA AMETISTA, PRESENTAZIONE di "TRIVELLA" Interventi di Sandro Gros-Pietro, Giorgio Linguaglossa, Pino Censi - UNA POESIA da "Trivella" (Genesi, 2105 pp. 130 € 12) "Per una poetica del Vuoto" Questa "Cosa nuova" che galleggia nel vuoto - con una nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa

 

D'origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l'Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell'organizzazione.

Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni '80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell'ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all'estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.

Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski.  L'oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti,  A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius.

Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

 

Giorgio Linguaglossa

 

Giorgio Linguaglossa: Per una poetica del Vuoto. Quella "Cosa nuova"

 

«Interno senza mobili.

Luce grigiastra.

Alle pareti di destra e di sinistra, verso il fondo, due finestrelle molto alte da terra, con le tende tirate.

In primo piano, a destra, una porta. vicino alla porta, un quadro appeso con la faccia contro il muro.

in primo piano a sinistra, ricoperti da un vecchio lenzuolo, due bidoni per la spazzatura, uno accanto all'altro.

 

Al centro, coperto da un vecchio lenzuolo, seduto su una sedia a rotelle, Hamm». 

 

È la didascalia d'inizio di Finale di partita (1957) di Beckett. In un certo senso, questo introibo può fornirci un incunabolo di ciò che ospiterà il palcoscenico, non solo per il teatro dell'avvenire ma anche per il romanzo e la poesia dell'avvenire.

 

Anche questo libro di Edith Dzieduszycka mette in scena una rappresentazione primaria, il fondamentale, ciò che è rimasto dopo il naufragio di quel Titanic che un tempo è stato l'«io» della Ragione Occidentale. E non può essere diversamente: ogni libro di poesia che si fa oggi non può che replicare il calco, lo Urbildung, la forma primaria. Oggi, un libro di poesia degno del nostro tempo non può che rappresentare qualcosa che richiami alla memoria la Struttura Assente, quello che gli esistenzialisti chiamavano negli anni Sessanta il «nulla» e che oggi alcuni filosofi preferiscono chiamare il «Vuoto». La rappresentazione primaria di Edith Dzieduszycka ospita l'azione scenica primaria: la rappresentazione della morte dell'«io», e della sua resurrezione, ma solo come involucro, surrogato, idolo, feticcio di un «io» che è scomparso. Ritorna in mente l'interpretazione adorniana secondo la quale l'opera d'arte del dopo Auschwitz,  non può far altro che dichiarare la negatività del presente, e nel trovare una sua positività proprio in questa dichiarazione sostitutiva di negatività. Qui Adorno coglie un elemento essenziale della poesia del Dopo Auschwitz: la rappresentazione del negativo come essenza della poesia moderna, infatti, 

Trivella di Edith Dzieduszycka prende atto della fine della poesia positiva, del decesso della poesia-conversazione, trova una sua ragion d'essere nello svuotarla dall'interno, innanzitutto riducendo il colloquio (la conversazione) in un monologo fine a se stesso, privato della sua funzione significante, e quindi sociale; e poi perché nel libro si mette in atto il fatto nudo e crudo della morte dell'«io», rivelandone la natura di rappresentazione teatrale, di fiction e nulla più.

 

Come un tempo si diceva, la visione del mondo della Dzieduszycka, la sua Weltanschauung, (se vogliamo apparire colti), è ben indicata dalla citazione di Emil Cioran posta in esergo del libro: «Bisognava rimanere allo stato larvale, fare a meno dell'evoluzione, rimanere incompiuto, gioire della siesta degli elementi, e consumarsi placidamente in una estasi embrionale». Il titolo della prima sezione del libro è: «Andata e ritorno». Il cerchio si è chiuso. Tutto è finito. Non è propriamente, credo, la storia dell'eterno ritorno, ma un ritorno che segna definitivamente la morte di tutto, perché nella storia del nichilismo moderno siamo arrivati a questo punto, alla morte del tutto e al ritorno nel nulla. Il luogo dell'azione è, come quello del Finale di partita, un interno spoglio, illuminato da una luce grigiastra, forse ci sono due piccole finestre poste in alto, forse è il palcoscenico stesso, forse è l'interno dell'occhio che guarda, o forse è il «palcoscenico dell'anima mia» di Palazzeschi? No, è il palcoscenico con un feretro nel mezzo, il feretro dell'«io» morto. Si tratta dunque di una meta-narrazione, poesia meta-teatrale, meta-poesia. Siamo dentro un bunker, un rifugio in mezzo alla neve che imperversa, o un rifugio antiatomico, dopo l'esplosione di una bomba nucleare. Dentro, c'è un sopravvissuto, l'«io» che è morto e che è rinato, non si sa come e non si sa perché: «In frantumi / testa / petto / corpo intero / dolore / frastuono / luci...»; «Contemplavo / qualcosa / che ero stato / che era stato mio / che assomigliava / a quel che ero stato / steso sul tappeto / insieme all'altro corpo / sconosciuto / portato lì / per essere consumato // L'altro corpo / avvinghiato / all'involucro di me / abbandonato / L'altro corpo / fremente / che lottava / si divincolava / per liberarsi dalla morsa inerte...».

 

Leggera

eterea

galleggiava

la Cosa nuova

indescrivibile

sgusciata dall'io

ormai disabitato

 

e volava

quella Cosa strana

volava...

 

Giorgio Linguaglossa

 

Dunque, ci sono «un frastuono di luci», «luci bianche», «un tappeto», una «Cosa nuova» «sgusciata dall'io», c'è una «paccottiglia derisoria / ciarpame superstizioso». C'è tutto il necessario per indicare un interno borghese con tutto il suo armamentario di delitti e di scheletri stipati negli armadi, con anche lo scheletro della cultura e delle cose «belle».

 

Ovattato

incredulo

volava

quell'Io nuovo

Forse provano simili sensazioni

incomunicabili

i cosmonauti

nello spazio

le farfalle

liberate dalla crisalide

i pesci

e i pulcini

dall'uovo

[...]

Avevo letto

di lunghi tunnel

in fondo ai quali scintillano

luci bianche

abbaglianti

Avevo sentito

di musiche celestiali

di ombre

pian piano riconoscibili

che avanzavano incontro

a chi si era smarrito

Paccottiglia derisoria

ciarpame superstizioso

che allora

tanto

mi irritavano

 

Ed ecco

proprio quelle sensazioni

stavo provando

Ero fermo

e volavo

Ero fermo

e scivolavo

lungo pareti ondeggianti

dai colori mai visti...

 

Giorgio Linguaglossa

 

È l'esistenza di un «io» che è rinato dal decesso del precedente:

 

Altro ormai era

l'Io

sfilato dal guscio

per approdare

a dimensioni sconosciute

ero diventato quello

che aveva sostituito

l'io precedente

e guardava

più in basso

la buccia vuota...

 

Una voce monologante, la voce di un «ectoplasma» che racconta una «scoperta incredibile», «Al di fuori di ogni immaginazione». Il Nuovo «Io» che vive in un mondo di altri «io» sopravvissuti ad una catastrofe, senza saperlo, senza neanche sospettarlo, che guardano al nuovo «Io» «come se fossi / un pericoloso extraterrestre». È il mondo del Dopo la terza guerra mondiale, del Dopo il conflitto atomico, del Dopo lo scontro delle civiltà. La voce monologante parla, straparla, è una voce alienata ed espropriata di se stessa, la voce di un morto vivente, di un sopravvissuto di «un pericoloso extra terrestre» che non sa che farsene di questo nuovo «io» che «galleggia» nel vuoto.

«Conversazioni colte / pettegolezzi perfidi / ampio buffet», insomma, la chiacchiera della middle class intellettualizzata. È qui che si va ad appuntare il sarcasmo e l'ironia di Edith  Dzieduszycka. La poetessa utilizza il piano basso del linguaggio, un parlato a metà tra la conversazione e la confessione, lessico sobrio, visione minimale o minima delle cose, attenzione che si posa sugli aspetti minimi delle vicende rappresentate, «tra persone ben educate» come l'attesa in un ufficio dell'anagrafe dove con 26 centesimi ci si assicura  «d'esistere in vita». Una condizione nella quale «mi manca l'orizzonte», quel malessere quieto dell'esistenza tipico delle società della affluent society, come si diceva una volta, prima dell'epoca della stagnazione e della recessione. Non c'è altro da dire per un poeta della metropoli odierna come Roma dove la Dzieduszycka vive, tutto è a posto, la borghesia colta mediatizzata vive nella «sfilata di salotti con arredi pregiati / Nulla da contestare», alla poesia non è rimasto nulla da dire. Altro che poesia civile, o impegnata, qui è la poesia che è stata fatta sloggiare dal ruolo di critica sociale nel quale un tempo si pacificava la coscienza delle anime nobili, ormai la pacificazione è entrata dentro le cose, dentro un modo di vita che non promette alternative, e alla poesia non resta altro da fare che prenderne atto.

 

Giorgio Linguaglossa

 

5

Mi hanno trasportato

in un luogo bianco

freddo

illuminato da luci

abbaglianti

e crudeli

 

Maledetti

non ho potuto fermarli

 

Si sono a tal punto

ingegnati ad ostacolare

il corso naturale delle cose

si sono accaniti

con tanta ostinazione

a risalire la foce

della mia corrente

che ci sono riusciti

 

E strappavano dalla morbida nicchia

nella quale mi stavo adagiando

i pochi filamenti che

ancora

mi mantenevano

allacciato al voltaggio di giù

per ricollegare gli ultimi elementi

ancora disgiunti

 

Si sono poi congratulati

rumorosamente

tutti intorno al mio letto

somministrandosi grandi pacche

sulle spalle

mentre stappavano

bottiglie di champagne

con un brindisi

 

Abbiamo lottato a lungo

vecchio mio

ma ti abbiamo salvato !

 

gongolavano

gonfiando il petto

E proclamavano

orgogliosamente

 

Faticoso è stato l'atterraggio

ma ce l'abbiamo fatta|

L'abbiamo ripescato per i capelli

Potrà accendere un cero

alla Madonna

e uno

più grande ancora

a noi!

 

Ma non m'importava nulla

dei racconti di quelle

- ai loro occhi -

prodezze

Anzi

 

mi facevano rabbia

Non mi avete chiesto

né il mio parere

né il mio consenso

Che d'altra parte

in quel momento

non sarei stato in grado di dare

Ed è

quell'incapacità

l'unica scusante

che riesco a concedere loro

la sola discolpa

che a malincuore

posso loro riconoscere

però non volevano ammettere

di aver agito

con una prepotenza inaudita

di essersi appropriati

di una vita

non loro

di aver oltrepassato

i limiti

 

erano invece sicuri

di stare dalla parte giusta

Sgomenti

e rabbiosi

mi hanno preso per pazzo

rimanendo di stucco quando

invece di ringraziamenti

si sono visti bersagliare d'improperi

Ma dov'era

il grande merito

che si attribuivano?

 

Pensavano forse

di essersi trasformati

negli artefici

di una resurrezione

di una ri-creazione?

Riacchiappando il bandolo

d'un misero gomitolo

che si stava esaurendo

e il cui filo era sul punto

di sfuggir loro dalle mani

per smarrirsi e sparire

nella grande matassa del mistero

 

Aver riportato indietro

uno

 

uno qualunque

contro la sua volontà

a loro sembrava

un'impresa prodigiosa

degna dei più grandi elogi

di un'eterna gratitudine

 

Invece no

 

Per me si era trattato

soltanto

di un andare

contro la corrente

dell'ineluttabile

Di una mossa prepotente

per la quale li odiavo

adesso

con tutte le mie forze

 

Perché avrei voluto

rimanere

lassù

sospeso

senza identità

senza peso

senza consistenza

senza pensieri.