Intervista a Giorgio Linguaglossa di Fulvio Castellani - sito ufficiale di Giorgio Linguaglossa scrittoreIntervista a Giorgio Linguaglossa
di Fulvio Castellani

 

 

Poeta e narratore, Giorgio Linguaglossa esercita da anni, con non minore interesse, una considerevole attività critica, tanto acuta quanto eversiva e dissacratoria; attività che ha trovato in passato il suo organo di “partito” nello storico quadrimestrale «Poiesis», da lui fondato e diretto dal 1993 al 2005, e che continua tutt’oggi attraverso collaborazioni a diverse riviste letterarie e pubblicazioni varie. Lo fa con la consapevolezza di chi ama la poesia incondizionatamente e non accetta di vederla asservita, come pure accade, a becere logiche di potere editoriale e alle mode del momento, manco fosse un prodotto soggetto a mercificazione. Di qui le sue battaglie, le sue accanite lotte, le sue «azioni di guerriglia e di disturbo delle istituzioni poetico-letterarie, delle loro retrovie come anche delle posizioni di punta delle poetiche egemoni», come scrive in un suo corposo libro dal titolo Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (coedizione Libreria Croce - Scettro del Re, Roma 2003). 

In occasione della prossima uscita del suo nuovo volume di saggi La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2009) Roma, Edilet, 2009, abbiamo pensato di raccogliere direttamente dalla sua voce cosa pensa della poesia e di altrettante interessanti questioni intorno al fare poetico. 

 

1. Cosa pensa dei filosofi, dei maghi e degli indovini? E quale influenza hanno o possono avere su chi, come Lei, scrive poesia e di poesia?

Rispondo con le parole che ho messo in bocca a Ponzio Pilato nel mio romanzo Ponzio Pilato, (Milano, Mimesis, 2009): «Mi chiedo come si possa credere ciecamente in questi racconti taumaturgici. Forse gli uomini hanno bisogno di credere nei miracoli. Nei dominati e nei dominatori c’è bisogno di credere in accadimenti prodigiosi, mirabolanti. Ciò dà fiducia, dà conforto avverso le malattie, il bisogno, l’indigenza. Considero con disprezzo la credulità popolare. Ritengo che quando un intero popolo crede nei taumaturghi e nei miracoli, allora si sta preparando l’inizio della sua rovina…».

 

2. Il girasole è simbolo di luce, di calore. Nel disordine mentale d’oggigiorno la luce, nel caso specifico la parola poetica che guarda verso l’alto e al dopo, ha ancora un senso? I motivi.

Risposta: Rispondo con un altro brano del romanzo, con le riflessioni del procuratore romano: «Quando chiudo gli occhi non so ridire quali tra i miei ricordi siano quelli relativi a fatti realmente accaduti e quelli che invece sono rappresentazioni di fatti come noi vorremmo fossero accaduti. C’è sempre qualcosa da correggere, qualcosa che vorremmo correggere del nostro passato. Nell’anno 778 si è verificata una svolta nella mia vita: prima vivevo nel regno delle certezze: Roma era la civiltà e l’Oriente era una terra da romanizzare. Oggi, dopo la revoca improvvisa del mio incarico in Giudea, sono portato a pensare che non abbiamo più un regno di certezze, un solido terreno su cui poggiare i piedi. Basta che chiuda gli occhi perché le immagini prendano vita e, con le immagini, le sensazioni, gli odori, i colori di quelle terre lontane. Mai prima di allora e né dopo di allora, ho ricevuto impressioni tanto profonde e durature, più limpide ed eloquenti, più confuse e impenetrabili. Di frequente, ciò che è limpido è anche fonte di confusione. A quell’epoca, dissimulavo ai miei occhi la confusione che regnava nella mia mente facendo sfoggio di orgogliose e inflessibili certezze. Del resto, non potevo manifestare altro che orgogliose certezze. Questo, nient’altro che questo ci si aspetta da un governatore romano. Così doveva essere. Ancora oggi, quando ripercorro il cammino che conduce dalla città alta alla città bassa, penso che tutto ciò non è avvenuto per caso. Mi posso considerare un uomo fortunato: per più di dieci anni ho governato una terra ingovernabile e, in ultima istanza, senza eccessivi spargimenti di sangue. Quanti uomini ho mandato alla crocifissione in Giudea? Ne ho perso il conto. Ma questo argomento non lo ritengo fondato ed è equivoco. In fin dei conti, che cos’è preferibile: uccidere oggi un uomo e non doverne uccidere cento domani, o il contrario? Ma oggi, dopo tanti anni, considero questo argomento del tutto fuorviante. A quel tempo pensavo che l’Occidente dovesse prevalere in virtù della sua superiorità, della razionalità delle sue leggi, per l’utilità delle sue strade, per la forza delle sue legioni; oggi, invece, sono portato a pensare che Roma non può nulla contro l’Oriente È triste confessare dinanzi alla mia coscienza quello che non oserei ammettere dinanzi a nessun altro: che  tra Roma e l’Oriente non è possibile alcuna fusione, oserei dire alcun dialogo; penso che il messaggio dell’Occidente debba necessariamente arrestarsi di fronte agli sterminati deserti d’oriente. Forse è meglio così. Oggi sono portato a pensare che la razionalità dell’Occidente distruggerebbe e corromperebbe il tessuto stesso della civiltà orientale. Io che sono stato allevato ed educato nel mito dei barbari che dovevamo affrontare sul nordest e sul sudest del limen, adesso, invece, sono portato a pensare che non riusciremo mai a civilizzare quei popoli. Forse un giorno dovremo arrenderci noi. Lo scambio reciproco ha portato all’Occidente le meraviglie dell’Oriente; parimenti, l’influsso dell’Occidente è sempre stato fatale all’Oriente (…)».

La parola poetica, come io la intendo, guarda verso la terra, è intrisa di terra. L’«alto» e il «dopo» sono dimensioni sconosciute al mio pensiero. Considero la poesia che parla di «spiritualità», una ipocrisia e una menzogna di iloti che blaterano parole «belle» per mondarsi la bocca vorace e riempirsi le tasche di denari. La parola, qualsiasi parola, e non solo quella cosiddetta poetica, deve nascere dalla terra e tornare alla terra. Deve essere terrestre, deve provenire da esperienze terrestri.

 

3. Lei ha affinato la Sua poesia leggendo poeti russi, inglesi e tedeschi e quindi si è tuffato nella letteratura italiana. Ma quali sono, e perché, i poeti ai quali sente in qualche modo di essere affine o quantomeno di dover loro qualcosa? Perché?

Risposta: Rispondo ancora con le parole di Ponzio Pilato: «Per comprendere i limiti del tuo mondo devi uscire dal tuo mondo e recarti nella lontana periferia dell’impero, dove pochi parlano la tua lingua e pochi intendono la razionalità del tuo latino. E scopri che quella lingua che tu credevi universale è invece una lingua secondaria di cui i popoli ne fanno volentieri a meno, che anzi sconoscono del tutto e la disconoscono…».

 

4. Si considera anche Lei il Maestro Li Po per avere «indicato col dito la sorgente del fiume?» E che cosa si cela dietro tale indicazione?

Risposta: In una  poesia de La Belligeranza del Tramonto (Faloppio, LietoColle, 2006) c’è il maestro Li Po che indica al suo allievo la sorgente del fiume. Il maestro non usa la parola per comunicare il suo pensiero ma soltanto i gesti. Nel gesto del dito che indica la sorgente del fiume, l’allievo capisce che deve andare e tornare a piedi fino alla sorgente del fiume; è in questo tragitto che dura dieci anni che l’allievo capisce il senso, ma non può tradurlo in parole, perché non c’è una parola che traduca l’esperienza di dieci anni di viaggio. Così il senso è fuori della parola. Il senso è fuori della lingua. Il senso della poesia è fuori della poesia.

 

5: Il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», da Lei redatto e firmato con altri poeti (Giuseppe Pedota, Lisa Stace e Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher), cosa si prefigge e come viene accolto nel contesto degli addetti ai lavori?

Risposta: Il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica» esce nel 1995 sul n. 7 di «Poiesis», ed è un tipico prodotto intellettuale di fine Novecento. Con il Manifesto (in realtà un decalogo di undici pensieri intorno all’essere nel mondo), si imboccava una strada in salita: tentare di ricostruire uno zoccolo filosofico per la nascita della «nuova poesia». Tra gli addetti ai lavori, come Lei li chiama, il Manifesto non ha avuto nessuna eco, se si eccettuano poeti come Roberto Bertoldo e Luigi Manzi, non ha fatto «scuola» o «tendenza», come l’ha fatta ad esempio il «Mitomodernismo». Ma non si intendeva né fare una scuola né costituire una tendenza. Il Manifesto è un documento teorico, e nient’altro. Ha segnato una fase di transizione tra l’estinzione delle poetiche epigoniche, sfociate nel minimalismo, e l’invasione dei linguaggi demotico-populistici (nell’accezione mediatica del termine). Il Manifesto intendeva chiudere un’epoca. E voltare pagina. Ma per poter chiudere il libro del Novecento, bisogna averlo attraversato, occorre accettare il suo legato testamentario.

(Roma, 2010)

 

6. È importante, per un poeta, essere tradotto in spagnolo, inglese e bulgaro, come nel Suo caso? E cosa pensa dell’esperanto, una lingua universale che non ha trovato, a mio avviso, l’interesse che avrebbe meritato?

Risposta: Una poesia è importante se incontra dei lettori: qui ed ora. Essere riscoperti e letti tra trecento anni come è avvenuto per Ciro di Pers è come essere morti due volte. Essere tradotti in altre lingue è importante ma è molto più importante essere compresi qui, in Italia; ritengo importante che tra i maggiori poeti contemporanei si instauri una piccola casa comune, per la sopravvivenza della poesia, e non come invece accade oggi che si lotta accanitamente per cancellare dall’esistenza la poesia di chi non appartiene al tuo feudo. Un vero poeta è sempre magnanimo, sa che se non ha altri poeti accanto a sé anche la propria poesia, come un castello di carte, al primo alito di vento verrà cancellata. Vedo, invece, che i poeti delle istituzioni si circondano di una folla di mediocri nella speranza così di poter emergere più facilmente. Ma si sbagliano. Verranno cancellati dalla Storia insieme a tutti i mediocri.

 

7. Cosa intende esattamente per «poesia ontologica», della quale si è occupato Giuseppe Pedota in un volume monografico a Lei dedicato?

Risposta: Nel Manifesto scrivevo intorno al concetto di una poesia che sappia «entrare  dentro l’oggetto». So di aver usato un’espressione che può apparire criptica e sibillina, ma intendevo qualcosa di analogo al tipo di trattamento che un poeta russo come Osip Mandel’stam ha fatto sul «discorso poetico» della poesia russa con l’impiego della «metafora tridimensionale». Importare la «metafora tridimensionale» nella poesia italiana, così, ex abrupto, era veramente una impresa ciclopica. Non mi meraviglia quindi il silenzio intorno ad una problematica che rimane sostanzialmente estranea alla tradizione poetica italiana.  Chiusi nel nostro asfittico provincialismo culturale, non parliamo più il linguaggio della grande poesia europea, me ne rendo conto. In questo senso ma solo in questo senso, sono un isolato. Direi, molto semplicemente, che «poesia ontologica» è quella che è fondata sull’ente «parola», cioè una entità non modificabile né interpolabile da parte del soggetto. Siamo qui agli antipodi rispetto alle poetiche dell’interventismo del soggetto nello spazio dei «materiali linguistici», come si diceva un tempo. Il tentativo di Giuseppe Pedota è encomiabile perché lui ha impostato la questione del discorso poetico a partire dalla de-territorializzazione del soggetto e dalla dissoluzione dell’oggetto. Il mio modesto tentativo è stato quello di dare una risposta, in sede teorica e in poesia, a una questione epocale. La mia teorizzazione e la mia poesia, come quella dei migliori miei contemporanei, tenta di stabilire un dialogo e un ponte con i lettori di oggi e del futuro, dare una speranza di leggibilità alla poesia, ricostruire un nuovo patto di onestà tra la poesia e il mondo. Insomma, ripartire dallo zero in cui è precipitata la poesia oggi in Italia. Creare una nuova cultura. Ma è ovvio che una tale impostazione travalica la mia persona e le persone fisiche di quei pochi che vogliono intendere ciò che sto dicendo. Sarà compito delle nuove generazioni occuparsi di questi problemi. Ed è altrettanto ovvio che quanto vado dicendo non interessa le istituzioni stilistiche egemoni.