Prefazione

 

È noto che nel corso della seconda metà del Novecento la differenza tra la filosofia e la poesia, resa ancora più acuta dal regresso accusato dall’ultima, ha finito per costituire un problema. La poesia non ha più potuto pensarsi in base a un altro modello che le rendesse giustizia, ma ha dovuto subire l’oltraggio di essere, lei sì, giustiziata sull’altare del Progresso (delle forme estetiche) prima e dei linguaggi mediatici poi. Un inseguimento continuo che ha visto sempre la poesia in affannosa rincorsa del «nuovo» e dell’adeguamento al «nuovo». Siamo all’incirca alla metà degli anni Settanta, con la morte di Pasolini nel 1975 a far da spartiacque; e poi sempre con maggior nitore negli anni successivi apparirà chiaro che la poesia non aveva più  nulla di «nuovo» da dire (o meglio: non voleva dire nulla di nuovo), che si trattava di una cosa «inutile» e che il «nuovo» era stato appaltato ad altri: all’economia, alla scienza, alla produzione, alla religione magari, etc. Si era entrati in quel clima di scetticismo diffuso e generalizzato che contrassegna sempre i periodi di crisi e di trapasso. Il ’68 poi sostituì la poesia con l’impegno in politica e pose fine alla brillante avanzata della neoavanguardia. A metà degli anni Settanta la crisi era già manifesta: alla poesia non era richiesta più alcuna risposta né alcuna domanda, ed essa si accostumò mediante un proposizionalismo che stava nel mezzo tra le domande e le risposte, un discorso melassa, un discorso di intrattenimento, autoreferenziale, non più orientato verso l’oggetto ma sempre più de-orientato verso il soggetto e la sua fenomenologia. Si propaga in quegli anni alla velocità della luce una fenomenologia del «poetico» che diventerà sempre più «ottica», attenta agli aspetti psichici ed interiorizzati del «soggetto»; sorge anche un «nuovo» soggetto che legge il «nuovo» reale: ma sarà il reale semplificato e ristrutturato del minimalismo. In alcune ipotesi, l’irruzione dell’ironia metteva perfino alla berlina l’ontologia da cui proveniva, senza sapere di essere lei stessa un epifenomeno di quel fenomeno: la poesia adottava un Modello proposizionale che altro non era che una variante del Modello proposizionale voluto dalla Ragione. Le questioni filosofiche (con le annesse questioni metaforiche) venivano espunte dalla poesia come non pertinenti ed allotrie: con la conseguenza che se la filosofia era diventata nel frattempo ontologizzazione dell’ente, la poesia di tramutava in omologia, logologia, in psicologizzazione dell’ontologia, fenomenalizzazione «poetica» del «soggetto privato» nella variante psicologica dell’ontologia, di quell’ontologia che nel frattempo aveva dichiarato bancarotta. E la bancarotta dell’ontologia era ben visibile in quella invasione dell’«io» poetico falso e posticcio che imperversava. Il nuovo proposizionalismo «poetico» viene dichiarato ammissibile a seconda del criterio di verità o falsità che vige in ambito «scientifico», a seconda della sua riconoscibilità al Modello di Ragione proposizionale.

Tutto ciò non implicava affatto che la poesia si dovesse occupare necessariamente del proprio «oggetto», ciò che senza dubbio è sempre stata, ma in maniera implicita e involuta perché non si era mai posta la poesia come veicolo del domandare, ma al più come un rapporto relazionale tra la tradizione e il «nuovo», tra il mito e la modernità, tra l’io e lo specchio dell’io quasi si trattasse di polarità opposizionate che essa dovesse sublimare e cicatrizzare. La conseguenza di ciò è stato l’abbandono della poesia da parte della filosofia, la loro separazione consensuale, il declassamento di entrambe dinanzi alla concorrenza della scientifizzazione dei discorsi che, sola, era in grado di fornire risposte verificabili, e del pensiero teologico che, solo, appariva incrollabile. La metafisica veniva così rifiutata e confinata ai discorsi teologici, seguita a ruota dalla poesia la quale era stata dichiarata disutile in quanto non risolveva problemi (problem solving), ma era un semplice ornamento, un parerga in mezzo ai paralipomeni. Sorge negli anni Ottanta finanche una presunta estetica dell’illusorio e del disutile, con diffusione a macchia d’olio dello scetticismo e del riduzionismo. Solo che quella metafisica che era stata fatta sloggiare dalla porta d’ingresso rientrava dalla finestra, bussava in modo insolente e invadente chiedendo e, quasi sempre ottenendo, un diritto d’ingresso alla biglietteria del circo mediatico al quale ormai la poesia apparteneva per atto d’adozione e affiliazione. Un pensiero da elettrodomestico prendeva piede e diventava sostrato fluido e generalizzato del fare poesia mentre che questa diventava sempre più performativa, ottica, salottiera; ma era purtuttavia nella natura della poesia non lasciarsi ridurre al proposizionalismo imperante in quanto frattura dell’impensato al pensiero, segnalazione di alternative, creazione di uno spazio di senso, prosecuzione del già noto verso l’ignoto del già noto.

È in questi anni che affiora già nitido il profilo della poesia di Anna Ventura che congloba nel proprio sviluppo l’elemento «ottico» del «soggetto» con la crisi dell’ontologia, la filosofia da elettrodomestico con ciò che resta della coscienza critica del fare poetico. In tempi di riduzionismo, la Ventura prende atto che l’unico «poetico» è il «reale», e che bisogna ritornare alla epifania «reale». In questo tragitto della poesia italiana è uno dei percorsi più originali e fermi nella assunzione delle responsabilità che attengono alla poesia, se consideriamo che l’esordio di Anna Ventura è datato 1978, con la raccolta dal titolo inequivoco Brillanti di bottiglia. Un percorso politicamente non ben educato: è il modus della Ventura di fare anticamera. È come se la brillantina Linetti dell’intelligenza fosse stata profusa sui capelli spettinati della poesia di quegli anni, così vulnerata e incidentata dai singulti del post-sperimentalismo e dai singhiozzi della nascente «parola innamorata» la cui omonima Antologia cade proprio in quell’anno. La poesia di Anna Ventura  si muove senz’altro in contro tendenza: ma una massa enorme, la marea della poesia alla moda la sospinge alla deriva. È la risacca del mare magnum. È il destino che arride spesso alla poesia olistica ed elegante che non concede sconti alla demagogia. Quella cartesiana intelligenza di  spaccare il capello in quattro, quella consapevolezza nella certezza del dubbio secondo cui «la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento»* spingerà sempre più la minuscola imbarcazione della poesia di Anna Ventura, come quella pur così diversa di Giorgia Stecher e Laura Canciani, verso il mare alto di un isolamento diurno, con tanto di interdizione dai pubblici uffici ad maiora. Siamo all’interno di quella problematica che il post-sperimentalismo lascia alla poesia italiana di fine Novecento: la crescente separazione e distanza che divide la «parola» dalle «cose». Una poesia della Ventura intitolata «La parola alle cose» contenuta nella raccolta Le case di terra (1990), è emblematica della consapevolezza dell’autrice di imboccare la via che conduca al riavvicinamento della «parola alle cose»:

 

Altissima sui sugheri,

cammino per le stanze.

È estate.

Sposto un calamaio pesante,

raddrizzo un fiore

nella polla d’acqua

di un vaso di cristallo.

In questi stessi spazi,

ampliati da un ordine chirurgico,

ieri,

uno sciame di vespe mi seguiva.

Oggi tocco la realtà e le cose:

angoli e superfici tonde,

la  lucentezza degli specchi,

la scarna ruvidezza del coccio,

la porcellana bianca

del bricchetto del latte,

il tegamino d’alluminio

dei tempi della guerra

-oro e rame alla patria-. Ora

mi pare di capire

perché Morandi dipingeva da recluso,

trincerato oltre una fila

lunghissima di stanze: le cose

vogliono un grande silenzio

prima di prendere la parola.  

 

«Le cose vogliono un grande silenzio prima di prendere la parola». È la rotta che la Ventura non abbandonerà più: la sua prassi poetica si muove tra i lacerti e i rottami di quelle che una volta erano i galeoni delle «Grandi narrazioni»; si muove con decisione con la lanterna di Diogene del proprio velivolo poetico alla ricerca del «senso» delle «cose», sarà il «senso» che ci restituirà alle «cose» divenute nel frattempo irraggiungibili.

Anna Ventura viene dopo il decennio de «La parola innamorata», del post-sperimentalismo e del primo minimalismo romano-milanese (un vero e proprio diluvio di luoghi comuni e di banalismi di massa). Pone la seguente parola d’ordine: diamo finalmente «la parola alle cose», facciamo parlare le «cose» e lasciamo stare le «parole» ormai troppo inquinate dai paroliferi e dagli alfieri delle parole d’ordine dei modelli maggioritari; nella sua poesia non c’è più traccia di «mettere la vita in versi» (di un Giovanni Giudici che farà scuola e pessimi allievi), non c’è più traccia dei pasolinismi alla Gianni D’Elia (poesia di seconda e terza mano), qui non c’è traccia di fare poesia orfica (di seconda e terza mano: Alessandro Ceni e coetanei), non c’è più traccia del post-sperimentalismo autoreferenziale di un Edoardo Cacciatore e dei suoi innumerevoli imitatori, qui si va alla radice, e cioè di ridare «la parola alle cose». Mi sembra un coraggioso tentativo di fare tabula rasa di tutto ciò che la poesia di scuola ha contraffatto: uno sciame di scritture epigoniche che aveva la piccola borghesia massmediatizzata quale controvalore e controllore di quelle scritture nefaste.

Occorre distinguere la nozione sociologica di «piccola borghesia» da quella di carattere estetico di referente delle scritture poetiche destinate al consumo massmediatizzato di quella classe che nel corso del tardo Novecento e negli anni Dieci diventa una massa fluida e floreale. Dopo il Craxismo arriva la finta sinistra post-comunista del partito democratico e il fenomeno di teatro Berlusconi, e quella che era una classe ora diventa un Ceto Medio Mediatico in via di impoverimento sempre meno decisivo e importante per le sorti del Capitale finanziario.
Voglio dire: la poesia del tardo Novecento come reagisce a questa situazione?
A me sembra che ci siano state e ci siano, qua e là, delle prese di posizione da parte dei migliori poeti dinanzi a questa situazione macro culturale. La poesia di Anna Ventura è una di queste: salta il «referente» della «piccola borghesia», cioè non si rivolge più a quella piccola borghesia democristiana e cattocomunista del tempo di Giudici che nel frattempo è scomparsa, ma si rivolge ad un interlocutore impalpabile e indistinto (che non c’è e che non si sa se mai ci sarà).

Apprezzo da sempre la capacità che ha Anna Ventura di coinvolgimento emotivo degli eventi del quotidiano in una narrazione poetica uniformalizzata, periodizzata in strofe con sapienti alternanze di toni e di digressioni; la poetessa sa ottimizzare le sue capacità narrazionali con l’economia della dizione poetica in un verso lineare e continuo che si svolge come il filo del carpentiere: in direzione perpendicolare verso il centro di un discorso che si dissolve in una nebulosa, in una ragnatela di indizi e di allusioni e di perifrasi. C’è una Storia che finisce in storialità. C’è una in-direzione in questa direzionalità che non vuole portare in nessun luogo, su nessuna terraferma; c’è un teorema della direzionalità che infirma quella direzionalità che sembra costituire il nocciolo della sua poesia.

La poesia della Ventura è refrattaria allo sguardo poliziesco che vuole frugarla e perquisirla. Nelle società della post-massa la democrazia dello spirito è inversamente proporzionale alla democrazia dello sguardo: se la poesia diventa sempre più «ottica» è per pagare il pedaggio ad una diminuzione del tasso di incremento dello spirito; la poesia, per sua natura, è sempre dalla parte della democrazia dello spirito, parteggia sempre per l’oligopolio del pudore e dell’intimità di contro alla falsa pseudo democrazia di una cultura che dichiara impunemente la propria falsa coscienza.

La poesia della Ventura non ci parla mai del «dolore», che il capitale trasforma in «merce» con tanto di glamour e di réclame vintage, è istintivamente lontana dall’ideologia imbonitoria dei desiderata e del «dolore» che la contro riforma teologica di questi decenni ha inflazionato a dismisura, è distante dal glamour della poesia che si autodefinisce «povera» e si veste con un saio di francescana semplicità, prende le distanze da tutto ciò che la falsa cultura del «dolore» ci ha reso familiare e ha sollecitato a convertirsi in transfert. Nella peccaminosa società delle merci lo sguardo poliziesco fa man bassa del «dolore» come possibile utile futuro acquirente: si tratta di un trompe l’oeil, di una trappola che la poesia della Ventura si guarda bene dal reiterare (leggasi l’omonima poesia «trompe l’oeil»), ma lascia parlare le «cose» da una distanza connaturata alle «cose», quella che intercorre tra noi e le «cose». È la distanza che ci parla. E la poesia della Ventura ci parla con la naturalità di uno sguardo che avvicina le cose, ce le porge.

T.W. Adorno Minima & moralia Einaudi, Torino,1965

Commento a una poesia di Anna Ventura di Giorgio Linguaglossa

 

Di recente, mi è stato chiesto che cosa intenda per «autenticità» e «identità» in poesia. Per abbozzare una risposta dovrei scrivere un trattato, cosa impossibile ovviamente, perché non ne ho né i mezzi, né la competenza, né il tempo. Però tenterò di rispondere citando una poesia di Anna Ventura dal titolo «La parola alle cose», tratta dalla raccolta “Le case di terra” (1990). Qui c'è un personaggio, presumibilmente l'autrice, ma nella poesia moderna sappiamo che l'io dell'autore si traveste in una molteplicità di personaggi indipendenti. Quindi, qui c'è un personaggio alle prese con alcune incombenze della vita quotidiana, incombenze senza molto significato che ciascuno di noi fa di continuo in una giornata (camminare per le stanze, dare l'acqua ai fiori, etc). Ma è proprio in questo contesto non significante e non significativo che si cela (e affiora) l'epifania di una rivelazione, la magia di una esperienza significativa. Ma, come può accadere che proprio dalla nuda elencazione degli atti della vita quotidiana si riveli un momento significativo? Quale è il nesso che lega il non-significante al significativo?. Leggiamo la poesia:

 

La parola alle cose

 

Altissima sui sugheri,
cammino per le stanze.
È estate.
Sposto un calamaio pesante,
raddrizzo un fiore
nella polla d’acqua
di un vaso di cristallo.
In questi stessi spazi,
ampliati da un ordine chirurgico,
ieri,
uno sciame di vespe mi seguiva.
Oggi tocco la realtà e le cose:
angoli e superfici tonde,
la lucentezza degli specchi,
la scarna ruvidezza del coccio,
la porcellana bianca
del bricchetto del latte,
il tegamino d’alluminio
dei tempi della guerra
-oro e rame alla patria-. Ora
mi pare di capire
perché Morandi dipingeva da recluso,
trincerato oltre una fila
lunghissima di stanze: le cose
vogliono un grande silenzio
prima di prendere la parola.

 

Anna Ventura viene dopo il decennio de “La parola innamorata”, del post-sperimentalismo e del primo minimalismo romano-milanese, un vero e proprio diluvio di luoghi comuni e di truismi del ceto-massa poetico. La Ventura si pone la seguente parola d’ordine: restituiamo finalmente «la parola alle cose», facciamo parlare le «cose» e lasciamo stare le «parole» ormai troppo inquinate dai paroliferi e dagli alfieri delle parole d’ordine dei modelli maggioritari. Nella sua poesia non c’è più traccia di «mettere la vita in versi» (di un Giudici che farà scuola e pessimi allievi), non c’è più traccia di pasolinismi, di cripto analisi del corpo  (di seconda e terza mano), non c’è più traccia di poesia orfica (di seconda e terza mano), non c’è più traccia del post-sperimentalismo auto referenziale di un Edoardo Cacciatore e dei suoi innumerevoli imitatori, qui si va alla radice, e cioè dare la «parola» alle «cose». Mi sembra un coraggioso tentativo di fare tabula rasa di tutto ciò che una certa poesia «maggioritaria» e «minoritaria» aveva propugnato e dei suoi epigoni (di seconda e terza mano), fatto e contraffatto. La poesia di Anna Ventura reagisce, come può, e con i suoi mezzi allo sciame di scritture epigoniche che aveva la piccola borghesia massmediatizzata quale contro valore e controllore di quelle scritture poetiche che facevano un uso abusivo del «privato» e del «quotidiano» che tanto erano in consonanza con l'ideologia privatistica della piccola borghesia in via di definitiva conversione a quello che sarà denominato Ceto Medio Mediatico.

 

Occorre qui distinguere la nozione sociologica di «piccola borghesia intellettuale» da quella di carattere estetico di referente delle scritture poetiche destinate al consumo massmediatizzato di quella classe che nel corso del tardo Novecento e negli anni Dieci diventa una massa fluida e floreale. Dopo il Craxismo arriva la pseudo sinistra post-comunista del Partito Democratico e il fenomeno di teatro Berlusconi, e quella che era una classe intermedia tra proletariato e borghesia diventa adesso un Ceto Medio Mediatico in via di impoverimento sempre meno decisivo per le sorti del Capitale finanziario.
Voglio dire: la poesia del tardo Novecento come reagisce a questa situazione?
A me sembra che ci siano state e ci siano anche oggi, qua e là, delle reazioni da parte dei migliori poeti dinanzi a questa situazione macro culturale. La poesia di Anna Ventura è una di queste: salta il «referente» della «piccola borghesia», cioè non si rivolge più a quella piccola borghesia democristiana e cattocomunista degli anni Sessanta Settanta a cui si rivolge la poesia di un Giudici, che nel frattempo è scomparsa, ma si rivolge ad un interlocutore impalpabile e indistinto (che non c’è e che non si sa se mai ci sarà), tenta di saltare il corto circuito del Ceto Medio Mediatico. «Le cose vogliono un grande silenzio  prima di rendere la parola». Tra la «parola» e la «cosa» si stabilisce un «grande silenzio».

 

La composizione è basata su un impianto rigorosamente ipotonico, accentuazione dattilica, il metro è variabile e viene lasciato oscillare dal novenario all'endecasillabo con assenza di corrispondenze rimiche e foniche. L'impianto retorico è stato disboscato di tutto il bagaglio retorico-stilistico, ciò che resta è una colonna insonora, un'unica strofa che poggia su un basamento narrativo. Ciò che resta è l'a-capo del verso, unica marca riconoscibile che ci dice che qui siamo di fronte ad una composizione poetica, infatti la poesia potrebbe essere trascritta tutta in prosa, ma perderebbe di icasticità e di visualizzazione, caratteristiche che sono date dall'a-capo. Tutta la composizione è rivolta al lettore, vuole attirare il lettore all'interno della composizione, richiede l'intervento attivo del lettore. Il lettore è il vero protagonista di questa composizione.

 

*

 

A una prima impressione della lettura delle poesie di Anna Ventura, non so perché associo tre pittori

tra loro differenti in tantissimi tratti, eppure vincolati similarmente dal come trattano le cose e gli ambienti: l'olandese Vermeer, Utrillo e Morandi. (di certo ce ne sono altri di pittori che potrebbero riferirsi non tanto ai versi della Ventura, quanto al lindore del verso stesso, che è semplice, pulito  e questo si addice, anzi si appiccica alla domesticità, alla cameretta: non c'è bisogno di specchi per definire un tale pulitezza, anzi lo specchio ne uscirebbe sporcato a causa di tale lindezza, suo malgrado! Mi inquieta questo risparmio dei mezzi lessicali e stilistici, ma bisogna considerare che Anna Ventura si è formata in anni in cui le parole d'ordine oscillavano tra la Parola innamorata (dall'omonima antologia del 1978) alla «poesia degli oggetti», tra la scoperta del «privato» di una Patrizia Cavalli e il minimalismo ai suoi albori; la Ventura non vuole  rischiare che la sua poesia venga ad essere equivocata er un ritorno al privato o per una poesia dei luoghi familiari, si attiene alle cose, agli oggetti, agli spigoli degli oggetti, parte di lì. Non che i suoi strumenti stilistici siano minimi, molto spesso di indubbia qualità, è massima la sua attenzione al risparmio degli strumenti lessicali e stilistici, è questa la strada che percorrerà Anna Ventura dagli esordi alle oesie inedite di questi ultimi anni.

Il rischio di non volere o dovere avvertire la crisi di una certa visione delle cose poetiche, la spinge invece ad una osservazione e perlustrazione degli oggetti: a trarre una lezione dagli oggetti. Tutto è osservabile, ergo raccontabile; e osservando questo e quello e tant'altro ha l'illusione di incidere sulle cose. Una sorta di Biedermeier, in fin dei conti, da consumare nella poesia Tea Room,dove non a caso dice di "Mitteleuropa che duri"!

Non rischiano nulla i luoghi comuni di cui ci parla sono i nostri luoghi comuni, quelli della nostra civiltà del mondo deindustrializzato che va sotto il nomignolo di post-moderno, e questi luoghi comuni è pure la parola che li esprime!

L'occhio è monocorde, direi mono-ottico, appare come occhio superiore, che osserva ma non è osservato.

Si dirà che se lo fosse avremmo una poesia di più alto vigore, dove i suoi quadretti di quiete genererebbero si, non altre immagini osservate, ma visioni indotte. Pure questa poesia si oppone (come dice il prefatore, nella sua umiltà), che irrita perché disarma, alla poesia della sua epoca (anni '80 e '90), e a quella dei nostri giorni,  infarcita di sperimentalismi linguistici: significati e significanti,  contenuti strozzati e forme usate e abusate senza senso. È la rivincita della poesia della provincia italiana.

 

La poesia della Ventura è in contro tendenza ma in linea di continuità con la tradizione della poesia italiana del Novecento, la sua non è mai una descrizione asettica, ma asettico è la epoché con cui sospende il giudizio sugli eventi poi che allude sempre a un non-detto, a un non-scritto, c' una morigerata educazione parnassiana in quel nominare le cose con economia e riguardo, e terrà questo passo fino alle ultime poesie inedite... certo con strategia stilistica diversa, più attuale, ma resta una povertà di parole che rispecchia fedelmente il vuoto degli oggetti, la loro insignificanza, per questo tanto più significativi; il non volere o dover pigiare troppo sulla parola, che la si vuole intatta e non deformata. I luoghi comuni non sono soltanto gli ambienti, le cose,

le creature viventi e morte (nature morte e vive!), ma lo stesso modo di esprimersi in versi è comune, come per esempio nella poesia  La pagina bianca:

 

"seduta davanti alla finestra/della casa di campagna, la vista/aperta su un paesaggio/di colline innevate".

 

Tutta la poesia della Ventura ha questo tratto comune: sono bandite le visioni, qualsiasi lavoro sulla parola che attenti al suo significato

da tutti accettato. La parola è questa e non altro: non altro non deve essere affatto! E poi il verso citato nella prefazione di Giorgio Linguaglossa "Le cose vogliono un grande silenzio prima di prendere la parola" si allontana dall'osservazione o descrizione che sia, per divenire riflessione, indotta di certo,

che lascia al lettore il compito di continuare per proprio conto. Intanto quel "prima di prendere la parola" è roba da tribunale; che "le cose vogliono un grande silenzio" è un Morandi azzittito, quando ogni oggetto del pittore è un urlo, non qualsiasi, ma ben circostanziato al suo mondo.

Ma il punto è nel verbo usato:” vogliono”; come se le cose debbano possedere di necessità una volontà.

 

Ma sicuramente è questa la poetica della Ventura: fermarsi un atimo in silenzio prima che le cose inizino a parlare, dire ciò che si deve dire nel modo più semplice e naturale possibile, come per esempio nella poesia  Le statue, il penultimo «aveva trovato il coraggio di partire», lo può dire chiunque senza che faccia affatto poesia, è una locuzione della lingua naturale.