Giorgio Linguaglossa
ATIREV
(Poesie 1987-2014)
(ovvero, l'anagramma della verità)
Prefazione
«Non esiste l'anagramma della Verità», dice un verso del poema. Ma «Atirev» è l'anagramma della parola «verità», ergo esiste, ma esiste come «vuoto», flatus vocis, «turpiloquio», «logorrea», «lethargia», «tetralgia» etc. Atirev è un simulacro della verità, un doppione, un simulacro di Amleto del quale ripercorre il destino. Dunque, potremmo dire che se la «verità» non esiste, non esiste neanche Atirev. L'opera di cui qui si tratta, non esiste. È questo il paradosso. Atirev è stato scritto nel 1987 e rivisto nel 2014, precede cronologicamente Blumenbilder (opera scritta tra il 1988 e il 1990 e pubblicata nel 2013), e Uccelli (1992). Cronologicamente è il primo libro, in seguito perduto tra gli scartafacci e ritrovato nel 2013, e quindi ritrascritto, o meglio, ridipinto sull'originale. Frutto precoce di una intensissima felicità espressiva che avrebbe trovato circa trenta anni più tardi una sistemazione stilistica definitiva. Il Tempo infatti entra con un ruolo attivo come un fattore artifex all'interno della costruzione di questo poema.
Atirev è l'«anagramma della verità». E la «Verità» (ovvero, Atirev) partecipa di un universo di «maschere». «L'universo è a tutta prima un perenne carnevale», recita la citazione di Ortega y Gasset posta in esergo. Di qui l'impossibilità di attingere la «verità». «Atirev» è un palindromo, una maschera che legge l'anagramma del nome «verità». Le poesie di Atirev sono scritte, come si dice, in un metro coartato, caratterizzate da una unità timbrico-metrica, o respiro fondato su due unità di respiro ritmosintattico oscillante tra il decasillabo e il dodecasillabo ipermetro, polinomi timbrici composti da unità timbriche minori. Le parole sono unità timbriche inserite nello spazio, che modificano, curvano lo spazio sonoro a secondo delle esigenze della tonalità dominante, la quale, a sua volta, è modellata e curvata dalle unità timbriche minori. Criptici ipogrammi e parossitoni nuotano sulla superficie liquidiforme della scrittura ora accelerando il ritmo ora frenandolo mediante tangenze vocaliche e omofonie di consonanze; vocalizzi assertori si alternano a incisi dubitativi, interrogativi, ottativi contribuendo a dare alla scrittura quel tipico movimento di esondazione e di ritrazione, di acuti e di anacoluti, moltiplicando le pulsioni delle forze cinetiche, sghembe e in diagonale che la attraversano. In ciò i numerosissimi parallelismi sono forze contrarie a quelle cinetiche che tendono ad ottundere il moto inflattivo dei polinomi frastici; la composizione polinomiale che ne risulta si presenta come un disequilibrio di forze in lotta con le forze equilibratrici, un poligono di forze che si muovono nello spazio:
la tethralgia sorella gemella della lethargia
è un fraseggio di foglie tra gli alberi.
Particolare attenzione è riservata alla «forma-interna» delle parole: c'è una particolare propensione per i calembours creati di preferenza con attanti astratti accomunati dalla disseminazione e ripetizione della medesima vocale, con particolare predilezione per la «i»; onda timbrico-sonora organizzata in crescendo e in diminuendo come un vero e proprio fiume sotterraneo che attraversa e mobilita la struttura sintattica:
il lapsus tradisce la convulsione del trisma
come una superficie scheggiata tradisce la perfezione del prisma.
Sofismi, tropismi trapezoidali, bizantinismi elicoidali,
dissimmetrismi di notti atrali, disfunzioni atrabiliari,
bisticci di frasari incongrui. Dopotutto
non sono ignobili i poeti che si occupano
di dismorfismi, di monemi?
La voce monologante si sostituisce al dialogo, la competenza dialogica viene ad essere rimossa dalla competenza monologica; il protagonista, preda della sua «logorrea» monologica, ci parla in una lingua espressiva, assolutamente individuale, dove la capacità locutoria è del soggetto monocratico ormai non è più in grado di legiferare alcunché: di qui i ripetuti e continui riferimento alla «logorrea» quale «piorrea» dello Spirito, ai suoi sinonimi e antonimi. Atirev è il doppio di Amleto, o meglio, un suo simulacro che riproduce il medesimo tragitto esistenziale dell'illustre predecessore, ma in un'altra dimensione, in un altro tempo-spazio; nella misura in cui la capacità dialogico-locutoria diventa impossibile, aumenta la capacità fonologico-locutoria del soggetto monocratico: intensificazioni, divagazioni, digressioni si stratificano e si sovrappongono moltiplicando l'effetto complessivo di incastro e inceppamento fonico semantico quale simulacro sonoro dell'impossibilità di una azione consapevole. Atirev è un doppio di Amleto e, allo stesso tempo, l'«anagramma della verità», cioè l'impossibilità da parte della verità di manifestarsi alla piena luce del giorno se non nella forma dell'anagramma di un simulacro. Atirev è la riprova della impossibilità dell'autenticità nel mondo falso e bugiardo degli uomini; in realtà è anch'egli un falsario: tutta la sua costruzione è metareale, una illusione, frutto della demenza di una mente malata: di qui la vastissima gamma delle metafore sulla «lethargia della mente», su «la thetralgia sorella gemella della lethargia», sull'«ammorbidimento della ghiandola pineale» su «una paraplegia della fonazione, una lethargia dell'ippocampo» e della fitta rete sinonimica incentrata sulla medesima radice semantica. In realtà Atirev, in modo conscio, evita il dialogo diretto e la comunicazione con i suoi interlocutori: infatti parla per ellissi, per sinonimie, per metafore e per metessi, per analogie e dissimmetrie etc.; tuttavia, proprio questi scarti del linguaggio hanno l'effetto indiretto di moltiplicare la potenza espressiva del discorso; non c'è scambio comunicativo come lo intendiamo nel mondo borghese amministrato privo di scambio simbolico, ma c'è colloquio secondo le leggi dello spirito il quale parla secondo le sue leggi. Come scrisse Hölderlin, «le leggi dello spirito sono metriche; e questo si percepisce nel linguaggio quando esso, irretendo lo spirito, lo obbliga, avendolo preso nelle sue reti, ad esprimere il divino». Atirev parla il divino perché ha imparato a male dire l'umano, il divino è l'umano ribaltato; egli evita accuratamente di parlare di tutto ciò che è privato, personale, tutto ciò che è accidentale, si occupa di sottili «indizi», di «sistri», di «pleonasmi», di «miasmi», di «sarcasmi», direi di tutte quelle parole che abbondano della vocale «i». Atirev è una mente lucidissima che parla dall'alto luogo della sua lucidissima «follia». Considerando i due poli che caratterizzano il comportamento di Atirev persona, è degno di nota che deissi e designazione siano i due atti che bisogna distinguere con precisione, i dimostrativi e i termini di designazione costituiscono due classi di termini che devono essere tenuti rigorosamente distinti. Siamo qui in presenza di un principio attivo simbolico che si enuncia mediante il veicolo della designazione senza referenza. Le poesie di Atirev evitano la classe grammaticale dei «commutatori» (shifters) che riferiscono l'avvenimento riportato all'atto della comunicazione e ai suoi interlocutori concreti. Gli enunciati dialogici (virgolettati e non) sono finzioni, enunciati che non si rivolgono a nessun interlocutore concreto, non intendono parlare ad alcuno. Atirev non ci parla del tempo che fa sul satellite di Giove, Procione, ma delle condizioni metereologiche del suo atto di fonazione nel tempo in cui il simulacro Atirev prende il posto di Amleto ereditandone le condizioni che lo costringono alla azione, alla vendetta.
La stoffa della materia è stata intessuta con due filamenti: la «metastasi» e la «metessi», ed entrambe partecipano della stoffa della «metafora». E qui siamo giunti al cuore stesso della concezione fisiologica della poesia di Linguaglossa:
«il paradosso, che passeggia sull'assito di questo teatro,
è l'abito della metastasi e la metessi è la sostanza delle cose»
Metessi deriva dal greco metaxy «essere tra» materia e materia, materia e spirito, spirito e spirito; è il concetto guida di ciò che «prende parte», che «sta in mezzo» nella terra «degli opposti che trovano la mediazione» nella metafora; «metastasi» deriva dal greco metà «al di là» e stasis «posizione», e indica ciò che sta oltre, che va oltre, trasporto di un modello morboso da un luogo della materia ad un altro. Così come «metafora» (metàpherein)è il veicolo figurativo, il tropo linguistico che consente questo trasbordo di un processo di materia da un luogo all'altro della materia verbale. Atirev oscilla (come Amleto), è colui che «sta a metà» tra azione e inazione, intenzione e compimento dell'azione. È egli stesso un paradosso, un ossimoro, un ente lacerato da forze che si oppongono e lo spingono in direzioni contrarie.
Atirev è un doppio, un simulacro, il suo eloquio è un doppione, un triplone, comunque uno pseudo simulacro tra gli infiniti simulacri del mondo di tutti gli infiniti mondi possibili. È questo il suo dramma: l'impossibilità di essere se stesso, di attingere l'autenticità, l'impossibilità di un atto di fonazione che sia figlio dell'autenticità di una posizione individuale. Con il che siamo in una situazione estrema, al di là dell'esistenzialismo, e forse al di là anche di una posizione ontologica. Asserzioni, interpellazioni, esclamazioni, percezioni sono in realtà enunciati finzionali, che hanno senso soltanto all'interno di un meccanismo di finzione, sono strutture fàtiche, finto-dialogiche che non vogliono comunicare con nessun personaggio (reale o fittizio); enunciati enfatici che esauriscono il loro compito comunicativo nel momento stesso in cui avviene l'enunciazione. L'enunciato è figlio del Tempo, ma al contempo, è questo il paradosso, lo Spirito vince il Tempo e lo soggioga pur se per il brevissimo momento della fonazione.
Uno psichiatra forse direbbe che Atirev è affetto da una morbosità mentale che lo porta ad architettare una mostruosa capacità geometrizzante quale spia caratteristica di un disturbo oligoencefalico nella misura in cui cresce il rifiuto della deissi e degli elementi referenziali; i monologhi di Atirev appartengono alla categoria della semiosi introversiva, un polinomio di enunciati enfatici che esauriscono in se stessi la ragione del loro significato. Ma probabilmente c'è dell'altro: è soltanto andando all'estremo delle possibilità umane che possiamo verificare la giustificazione di un tale atto. Atirev è un simulacro che segna una possibilità estrema della poiesis. È questo il punto. La «parola», che cos'è la «parola»?, è un rumore di fonemi organizzato; e il «silenzio», che cos'è il «silenzio»?, è il segmento che interrompe e intervalla la parola da un'altra parola; gli intervalli silenziosi che intervallano le parole dei monologhi di Atirev sono un vero e proprio tracciato dell'ineffabile, dell'indicibile; i codici inscritti tra le parole e all'interno delle singole parole sono l'itinerario che ci condurrà fuori del Labirinto eretto dagli umani con le parole, miliardi di parole. Atirev vuole combattere il mostro Minotauro che si cela nel Labirinto, per questo deve entrare nel labirinto delle parole di un poema incompiuto che si avvolge nelle proprie spire come le spire di un serpente si avvolgono su se stesse. Atirev combatte contro il mostro delle parole organizzate nel discorso universale del nostro tempo, il discorso dei discorsi che ottunde la parola della poiesis; Atirev mette in scena il più violento processo alle parole organizzate in discorso poetico, forse la più gigantesca delle menzogne e, proprio per questo, la più vera verità attingibile. Atirev pone in essere un discorso sulla verità che dichiara l'impossibilità di entrare dentro la verità. Atirev è «l'anagramma della verità», Atirev è la possibilità estrema che è data all'umano per sondare il discorso sulla verità. Atirev deve vendicare il delitto primordiale che l'ha generato: l'assassinio del padre, del totem; è di qui che prenderà il via la storia degli uomini. Atirev è colui che, al contrario di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli umani, uccide il padre simulato per vendicare il padre originale, quello vero, e fa dono di ciò agli uomini. Ma è un dono che aggiunge un altro delitto al delitto primordiale. Il dramma è che anche lui è una entità posticcia, un simulacro che soltanto attraverso la metastasi e la metessi, le sinonimie e le anadiplosi potrà attingere quel grado massimo di percezione della «verità» che si cela nell'anagramma del suo nome. Atirev pone in essere l'impossibilità di pronunciare un discorso sull'impossibile discorso; Atirev scopre, con raccapriccio, che non solo le parole ma anche il silenzio tra le parole è inquinato dal delitto, che il delitto lo occupa per intero, che alla traccia del delitto non c'è modo di sfuggire. All'albeggiare di tale terribile consapevolezza finisce il poema incompiuto: non è più possibile porre un termine alla poiesis, essendo essa spezzata, frantumata, inquinata dal rumore di fondo di un universo venefico e delittuoso. Il poema, che meglio sarebbe definirlo sinfonia, termina qui, nel punto della sua impossibile interruzione, quando il protagonista si accorge che:
e le parole da rigattiere del Principe del tedio
sono finite in un cesto in forma di maiale
È la fine di questo baldacchino del lutto che è il poema incompiuto, la sinfonia delle «parole da rigattiere», il dramma esauritosi «per rarefazione di attori». Come e forse più di Blumenbilder, anche Atirev è la messa in scena della parola del lutto, tematizzazione e rappresentazione prospettica del lutto della parola poetica.
Andrej Silkin
*
«Quando cerchiamo l'essere di qualcosa o la sua verità, cioè la cosa stessa e autentica di cui si tratta,
troviamo anzitutto i suoi occultamenti, le sue maschere. L'aveva già avvertito Eraclito: la realtà si compiace di nascondersi. L'universo è a tutta prima un perenne carnevale. Siamo circondati da
maschere. Gli alberi non ci lasciano vedere il bosco, le fronde non lasciano vedere l'albero, e così via.
L'essere, la cosa stessa, è per essenza l'occulto, il coperto, è il signore della maschera. L'operazione che conduce a trovarlo sotto i suoi occultamenti è chiamata "verificare" o certificare (adverar); in modo più purista: accertare (averiguar). È rendere patente l'occulto, denudarlo dei suoi veli, dis-coprirlo. E questo modo, in cui qualcosa sta davanti a noi denudato, è la sua "verità". Perciò è ridondante parlare della "nuda verità"».
(Ortega y Gasset, Apuntes sobre el pensamiento, su teurgia y demiurgia, 1941
Prologo
Entra Amleto, signori, prendete posto
nelle poltrone, di fronte agli attori del dramma;
tiriamo il sipario, che le cortine dell'ombra occupino
il proscenio e il fondale; siano condotti gli attori
per la presentazione al gentile pubblico: sfilino,
ben visibili, alla luce dei riflettori, così risibili
nei loro panni di scena.
Voi mi chiedete: «Che teatro è questo?,
quale dramma si rappresenta?»; «Onorevoli ospiti
lasciatemi dire che tutto ciò
è in sommo grado cagione di ironia e di ipocrisia:
è l'Amleto, il dramma, o la farsa, se volete,
il racconto di Amleto»; «Ma è stato già scritto!»
obietta un insulso spettatore; «Sì, è stato già scritto», rispondo,
«Qui Amleto non è Amleto ma un suo doppio, un triplo,
un quadruplo, un destinatore che
invia un messaggio ad un ignoto destinatario che
scevera sopra l'armilla del tempo che
rumoreggia e sferraglia sopra il sipario del teatro:
incastro di motori, di ruote dentate,
rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi.
Sì, la ragione si camuffa in follia
e la reggia si addobba in stalla; Yorick, il buffone del re,
ha ragione da vendere: un equilibrio precario
regge le sorti del mondo, un fantoccio
tiene le redini di Danimarca, e nessuno
distingue la saggezza dalla follia...
una maschera teatrale si insinua nei pensieri di Amleto,
ossessiva lethargia della mente,
ammorbidimento degli umori pineali, linfatismo
di un organismo debole, grasso...»
*
"... in altro modo servirò il re di Danimarca,
con altra scienza, io e lo specchio e la stella notturna;
come un maratoneta non conterò più i passi
fino al traguardo, con lo spadino cinto
alla vita... in altra guisa...
Dicono i medici ch'io sia affetto da
una forma catatonica di idiozia,
una paraplegia della fonazione, una lethargia dell'ippocampo».
«In altro modo servirò il re di Danimarca,
l'amigdala ha preso stabile dimora dietro il locus ceruleus,
guida le nostre sensazioni, impartisce impulsi.
Vostra Maestà sono qui per servirvi
il cielo di Danimarca ha il colore del linfoma,
il paradosso, che passeggia sull'assito di questo teatro,
è l'abito della metastasi e la metessi è la stoffa delle cose.
In fin dei conti, chi ha scoccato la freccia?,
io?, mio zio?, Eraclito?, Parmenide?, Zenone
che fa il calcolo infinitesimale della freccia:?
Ditemi, la freccia si avvicina o si allontana dal bersaglio?,
è reale o immaginaria?
Oh, signori, vi prego, lasciamo stare Eraclito con
la sua vile filosofia che il fiume è un altro fiume,
che panta rei e simili quisquilie;
Parmenide vaneggia sull'essere?, bene, ditemi:
chi ha distrutto Cartagine?,
com'è caduta Siracusa?, chi ha ucciso Cesare?,
chi mi risponde?, c'è una risposta?, una spiegazione?...
Apoptosi: caduta delle foglie dall'albero;
il bruco è diventato falena
il verme si trasforma in farfalla
ma, vi chiedo, la farfalla rammenta la sua vita da bruco?;
la crisalide può tornare farfalla?;
Rosencrantz e Guildenstern anch'essi vaneggiano
hanno stile e disdegno, sibille che scrivono i loro oracoli
sulle foglie degli alberi... ecco che inneggiano:
«in onore del re e della regina, per la monarchia costituzionale!...
Oh, signori, il tedio mi guasta la nobile positura,
la civetta sulla spalla e la nera calzamaglia...
anch'io vaneggio dietro i merli della torre."
*
"...narro la storia di Amleto che vive
una vita propria, fuori del dramma, di
come la lethargia lo colpì nel rigoglio
del magma e della follia simulata:
trama inscritta in uno specchio convesso
che deforma un dramma più antico:
l'assassinio di Gonzago che riproduce
con esattezza le circostanze del delitto,
del pescivendolo che copula con la baldracca
e dell'adulterio della mia regina,
del giusto Laerte, ignaro strumento
nelle mani del destino e del teschio
di Yorick il buffone del re.
Assistere alla commedia assorti, a guisa
di erranti in un bosco al chiaro di luna
nell'oscuro fogliame, fuggevoli
come ombre nel sonno.
Kindernacht. Spavento di bambini.
Ah, il teschio di Yorick e il cadavere del re
preamboli del dramma... oh, azzurri anni spirituali!,
il diletto del delitto, ordigno attillato al mio abito, e l'inferno
è sicuro... E l'ossequio dei cortigiani
blasfemi al guinzaglio di un cane vestito da re,
il pallore del mio volto sul quale affiorano nuvole,
il battimani di capestri...
Tutto è regolare, un ingranaggio infantile,
ruote dentate che mordono Issione il figlio del sole!
In fin dei conti, proveniamo tutti da un grande delitto,
teschio di Yorick buffone del re!,
tutti irretiti in un medesimo delitto,
teschio di Yorick buffone del re!"
*
"...nel folto della mia follia abitavo la luna
e il castello del re abitato da spettri.
«Realtà, che parola è questa?», agitavo
lo scettro del re, il suo mantello turchino.
«Dovresti, mi dico, innumerevoli vite vivere
e dimenticarle ed affrontare il fuoco
dell'artiglieria, elidere saggezza e follia...»;
dicono i medici «che ormai Atirev è uno spirito morto,
folle da molti anni», «che la sua logorrea
è una piorrea dello spirito», «che il suo monologo
è un dialogo impossibile».
«Davvero, chiedo a Vostra Maestà, credete questo?,
che il mantello delle parole sia un ordigno
ad orologeria?, anticaglia, paccottiglia
simmetrica al tempo?, cronicario
che ho affrontato imbustato nella
divisa di un Dragone a cavallo?...».
Come dirlo, ero nel folto della follia, abitavo dietro la luna,
uno scettro nel palazzo del re,
ero un universo di universi...
Nel sogno chiesi la camera del re
e fui introdotto nell'alcova (c'era la sua baldracca)
e lo colpii alla gola più e più volte
con il mio stiletto appuntito, e il sangue
zampillò, schizzò sulle mie mani, sul mantello,
sullo scettro, sul mio volto...
Come un plettro percorre le corde dello strumento musicale
passeggiai sul suo petto straziato, e i ratti del buio
si accucciarono accanto al cadavere.
Sul volto del mio universo eccentrico
è trascorso il diadema del re,
lo zaffiro e il giglio ho perduto
in un pozzo, né so perché."
*
"...il vizio, un sottile indizio, la voce della luna.
«Tutto è stato detto, tutto è stato scritto».
Ho udito quella voce tante volte nel sonno...
ciò che è strano: attendevo i messaggi
dei ministri, i sistri degli spettri,
calcolavo le maree lunari, gli influssi dei pianeti.
«Tutto ha un inizio, tutto ha un vizio...»
mi ripetevo nel cordoglio,
preordinavo il reato con lucida follia,
ottimizzavo il misfatto...
È facile parlare agli uccelli
è facile parlare alle orchidee
è facile parlare alle candide ninfee
la loro voce è il tormento del reame...
è facile parlare ai ratti delle tenebre
è facile parlare agli uccelli...
si posano nel giardino le metastasi e le metessi
invadono i tessuti...
Osservo la regalità svanire
la demoltiplicazione delle anadiplosi...
Con concupiscenza guardavo la gentile Ofelia,
con circospezione decifravo i segni del destino,
osservavo lo spettro di mio padre
svanire dietro gli spalti del castello, assistevo al
mio regno svanire...
I camerlenghi preparano l'inchiostro e la ceralacca
endiadi del sonno, precipitato di tropismi,
ed io osservo il nero velluto del mio abito
l'odioso ritmico parlottio dei loro conciliaboli...
Non v'è differenza con la poesia, entrambi
recano la macchia del trisma...
Voi mi chiedete: «Cos'è il trisma?»,
«È uno spasmo dei muscoli masseteri,
disturbo della fonazione, congiuntura
dei muscoli antigravitari, irrigidimento
dei muscoli della faccia e del collo...»"
*
"...la livrea è il posticcio riparo del pipistrello
la marea deriva dall'algida attrazione della luna
la logorrea del tiranno è il suo fragile delirio.
Mi hanno detto che... (chi l'ha detto?)
«Chi combatte contro il trisma non può più tacere»;
ed io rispondo: «La parola dunque a chi non può più tacere».
Al re fu prescritto di morire
ad Atirev è stato prescritto di vivere
e ridere, singhiozzare, sghignazzare...
La voce è un vizio, l'indizio di un pentagramma sconosciuto.
«Tutto ha una fine, tutto ha un inizio».
Prevalsero i tropi in superficie
e nugoli di topi...
La tethralgia sorella gemella della lethargia
è un fraseggio di foglie tra gli alberi;
al di sotto della vibratile carotide
il singulto mostra la congettura del trisma
spasmo dei muscoli mandibolari
spasticismo dei muscoli della faccia e del collo
lurido psittacismo di cortigiani;
il trisma può essere vinto, dicono, con impacchi caldi
oppure con la narcosi... E invece
il lapsus tradisce la convulsione del trisma
la perfezione del prisma.
Sofismi, tropismi trapezoidali, bizantinismi elicoidali,
dissimmetrismi di notti atrali, disfunzioni atrabiliari,
bisticci di frasari incongrui. Dopotutto,
non sono ignobili i poeti che si occupano
di dismorfismi, di monemi?;
tra il sipario e il fondale recitano gli attori
il loro desultorio copione.
Il sipario ondeggia dopo ogni scena.
«Anch'io sono un ipocrita del Macbeth!»;
la mia voce doppiata è oscena, dietro ogni maschera
c'è un cadavere, lo spadino tintinna ad ogni passo,
il trucco ad ogni sberleffo.
I commedianti recitano l'ultimo fraseggio,
le battute che Amleto ha interpolato.
Ecco l'ultimo dileggio!"
*
"...all'ombra del salice, accanto al ruscello,
piange la gentile Ofelia.
Mia madre, la fedifraga, ha già dismesso
gli abiti del lutto
e adesso indossa i sontuosi drappeggi
del suo turpe amore.
Mio zio ora è mio padre e mio padre è ombra, fumo,
e i camerlenghi adesso mostrano il loro vero volto,
sono anch'essi ombra dell'ombra,
sterco dello scettro,
e il castello di Elsinore è un bordello di ombre
che oscillano sulle paratie, tramezzi, quinte dipinte.
Tossiscono gli uccelli sugli alberi
e la candida luna corre come una megera
tra gli spalti.
«Mio onore, sono degno di fede se affermo
che la notte viaggia (oddio, viaggia?)
attorno al pianeta-bordello, se dico che
i pipistrelli con il loro sudicio gracidio
e i lèmuri con lo stridio di
chiavi nella serratura importunano la quiete
del mio sonno atrale
per rammentarmi che un orribile delitto
viaggia sul rosso tappeto dei miei appartamenti.
Perdonate, mio onore, il gelido cinismo
dei miei frasari incongrui
e se vaneggio in questa notte di spettri...»"
*
"...il gaietto, il quarzo e l'antracite brillano
di luce propria accesi dai barbagli
dei tendaggi purpurei...
il fioretto che ha bucato Polonio
mi ha lacerato la giubba e il corsetto.
«È la mia mano addestrata?, sono io il figlio dell'azzurrità
o la duplicazione dell'antracite?,
è la mia mente sgombra o vaneggia
come un vascello sciolto dagli ormeggi?».
In verità, il mio regno è addobbato con il mantello
della follia e il castello giace nel medesimo
ostello del mio volto.
«È la mia mano addestrata?, sa essa compilare
l'archetipo del delitto?, sa essa trascrivere
il secondo alfabeto?, è inerme
o possiede un Nagelstock appuntito
nascosto nel corsetto?, sa essa vibrare
come la corda di un violino?, ho dormito abbastanza?,
se sì, le tenebre e le stelle saranno
i miei luttuosi messaggeri,
sapranno guidare il mio sospetto».
Mia madre e lo zio dormono nel letto
dell'adulterio, il fido Laerte è morto per mia mano,
gli uccelli migrano nel cielo incolpevole
ed io indugio, passeggio nei corridoi
del castello al debole lume della torce;
sì, tutto converge verso l'epilogo."
*
"...c'è del metodo nella mia follia,
orribili cose nella mia mente
si assiepano, mirifiche costruzioni di orpelli ondeggiano;
viaggio di tra bagliori di specchi
nella reggia tra arazzi e pitture...
Forse, davvero, vivo all'interno di uno specchio
una sottile lamina che dissimula l'argento degli incendi.
Il lenzuolo di Danimarca copre come un sudario
la reggia del mio re...
All'interno di una partitura ho trovato
un comodo giaciglio per i miei aforismi:
prismi interstiziali, sineddoche, chiasmi, miasmi.
Sono l'incubo di uno spettro che sogna la figura
dello spettro di suo padre,
il precipitato di tropismi ineluttabili, un candido giglio
tra gli stemmi della calligrafia cuneiforme
e strabica d'un monaco cluniacense.
Davvero, mi meraviglio perfino della follia
che lievita tra i miei lobi parietali...
«Maestà, dirò, - è mia opinione che i tropismi
del destino siano larvali e fallaci ed esposti alla corruzione;
per quanto riguarda il tono di questa corte,
sappiate che lo trovo disdicevole e disgustoso:
e adesso mi ritiro nelle mie stanze di specchi e ombre.
Per ciò che concerne gli adulteri, gli incesti, i tradimenti, dirò:
tutto è già stato computato nell'ordito del delitto».
Passeggio di tra bagliori di specchi
nella reggia tra arazzi e pitture,
il lenzuolo di Danimarca copre
come un sudario la reggia del mio re."
*
"...c'era una volta un regno e nel regno un castello
e nel castello un re e una regina...
e adesso tutto si è dissolto al rullo dei tamburi
che accompagnano il feretro di mio padre
al colpo di cannone della guardia reale...
È l'annuncio di un altro lutto?, di altro disordine?.
Io convoco le ombre, assiepo spettri
e cadaveri...
c'era una volta un ragno nel mio regno ed un coltello
nel castello...
e tutto si è dissolto.
Chi è il colpevole?, chi mi ha privato della giovinezza?,
chi mi ha sottratto la filosofia?, chi mi ha spinto
sull'orlo dell'orrore?,
oh dio, sono qui nel mio sudario chiamato Danimarca!,
che bel nome Danimarca, come suona bene!,
lo metterò come un fiore in una delle mie poesie...
ma lo scettro non è il ramo di un albero,
non germoglia foglie e fiori, ma stille di sangue rappreso
che macchiano i tappeti degli alloggiamenti.
Dall'orlo del mio spadino appuntito contemplo
la mia azzurrità!, la mia solarità dissipata!...
Oh, non v 'è trucco di cartomante né destrezza di prestigiatore
che possa dissimulare il delitto...
Incredulo, osservo la ruota del destino,
il mio delirio irresistibilmente lievitare...
«Padre, dove sei?, la notte non ha fondo
ed io cammino in tondo sul crinale di un cerchio
immaginario»".
*
"...questo pallido sole che filtra
attraverso i tendaggi delle mie stanze
è soltanto l'ombra splenetica d'un astro
mercuriale, esitante tra gli influssi
dell'algido Saturno e i venefici di Marte...
Che dire?, «Yorick, voi ridete impunemente!,
e voi sinistri cortigiani vi prendete gioco delle mie ali!,
gigli, voi sospirate?, cullate pure il cadavere
della gentile Ofelia quando verrà il giardiniere
a recidere i vostri pallidi bulbi!».
Il mio crimine è avervi amata, Ofelia,
solo questo,
aver bramato l'accoppiamento...
Gigli, voi sospirate e cospirate
come gli astuti camerlenghi del nobile ostello,
loro sì, che officiano in segreto
auspici sulla tomba del re.
Voi candidi gigli che possedete scienza e bellezza
e voi spettri noctiluchi dei miei alloggiamenti
spiate dunque i miei segreti propositi!"
*
"...la luna, il tedio, il teschio,
l'oltraggio, l'illusione, l'alterco...
«Tutto ciò è bene, tutto ciò è luce».
Che strano questo mio ridere di pipistrello
che strana questa angoscia tra le costole
che strano questo eptaedro dagli angoli acuti
che mi preme il fianco,
che bizzarri questi dèmoni caudati che volteggiano...
Sono un'ombra, una maschera, un folle che vaneggia
sarcasmi e miasmi, orgasmi di pipistrelli,
scetticismo di uccelli, psittacismo di orpelli,
fruscio di dodecaedri...
Il mio riso di pipistrello dietro il sipario!
Io, il principe della nerezza che si aggira preda
della psoriasi del trisma che azzurreggia...
i tetri cortigiani ammiccano, ammiccano
ed io non posso fallire, fallire...
...un guanto sul comò accanto a un pugnale;
una toeletta sopra la quale un candelabro
spande una luce intermittente...
Riflesso nello specchio vedo il mio volto cereo imperlato
di sudore sottile, i mobili dei miei appartamenti
ricoperti di lenzuoli bianchi."
*
"...scherani, cortigiani, infidi camerlenghi,
normografi del sonno, pantografi della follia,
come potevate adire il gentile fiore del nasturzio
il debole cerilo e il canoro cardellino?;
il gannire dei gigli sordidamente esposti al vostro turpiloquio.
Quidquid et quisquis.
Un tempo amato era il mio castello...
adesso gongola una gondola, garriscono le gazze,
nitriscono i pipistrelli, i finimenti
del mantello della notte,
si moltiplicano le metonimie e le anadiplosi.
Notte atramentale. Brusio di vertebre.
Tinnire di linguaggi.
Tutto ciò è soltanto un ammicco, un rumore
di sciabole, peristalsi sabbiose, splenetismi.
Il mio dubbio: «Convolare a nozze con la gentile baldracca
che ha nome Ofelia o determinarsi al delitto
secondo il corso irreversibile degli astri?,
puoi Amleto arrestare la freccia degli eventi?»,
no mio caro Atirev, non puoi,
ricordi il teorema di Zenone?, ah, Zenone il sofista!;
possiamo noi rallentare la freccia del tempo,
il susseguirsi degli eventi?, no, mio caro Zenone,
l'azione è metafora, la scepsi metonimia,
intrighi e complotti sono l'ordine del cosmo
e scorrono disformismi, idiotismi,
tropismi paralleli."
*
"...sognare l'Italia, il suo cielo azzurro;
nutro stima per i consiglieri di corte,
banda di emuli e fàmuli, cancellieri
ipocondriaci, intonsi prelati, convitati
versati nella scienza della calunnia,
empoisonneurs!, oh, l'Italia!, le astuzie
fiorentine, i versatili baccellieri...
noi siamo degni eredi dei suoi filosofi, allegri
complici dei suoi filologi e non ce ne
adontiamo; adoro le voci in falsetto
dei cortigiani quando bisbigliano i loro
tradimenti; dove siete Rosencrantz e Guildenstern?,
dov'è la realtà, dove la finzione?,
dal volto del Principe cola un fard bianchiccio
mentre sale la pedana che conduce all'assito
dove spadaccini in livrea si esibiscono...
Voi dite che ho il timbro del vaiolo sul volto?,
il colore dei feretri assomiglia
al luttuoso disordine della mia mente...
oh, il versatile psittacismo del pappagallo
che ripete il sordido ritornello:
«Buongiorno Principe Amleto!»,
il fiorito eloquio del dolce stil novo.
Sogni, voi siate i benvenuti, e voi Yorick,
buffone del re, presto i lazzi!"
*
"...mia sorella, la civetta, svanisce,
il mio famulo, il pipistrello, urta
contro gli spalti del castello, mia madre
la notte, trascina la sua gonna striata
di ignobili stelle sopra il baldacchino
lussurioso di mio zio; l'universo,
questo complicato prisma di trapezi,
congiura verso il complotto, la dismetria
è la sua essenza, l'infinito, un doppio otto
lambito dalla tricuspide lingua
della cupidigia...
il vento piega i fiori del primo prato
ed io sorrido a ciò che è stato,
irrido dagli spalti del castello
il fantasma di mio padre, il sonno,
questa insulsa corolla di tenebre
dal bordo sfrangiato, mi redarguisce;
ora all'ombra di un tiglio vorrei dormire
e svegliarmi alla prima luce dell'alba
di soprassalto, sfiorato dalla coda d'un cardellino...
fuggimmo dalla città in fiamme
- gli ultimi bagliori dell'incendio -
e prendemmo verso il prato, aprendoci
il varco con la spada: le navi erano alla fonda.
Io, figura della duplicazione
centro delle relazioni esterne,
irrido il sonno degli ormeggi.
E tu, spirito, sei soltanto una debole forma della schiuma!
Il sorriso sale sul mio volto come un ragno."
*
"...ah, ciò ch'io sento!, lama dell'oscurità,
balenio di palpebre che si serrano,
fioretti, gingilli, plettri che eludono,
strascico di code di rondini che irridono,
atrali vestali che ci illudono...
Lodare l'arte con l'ausilio dell'ombra?,
escogitare ancora un cavillo per lo stupore?,
credersi infinitamente ciechi e poi ricredersi
perché un daimon ci chiama?, che tedio
in tutto ciò, che miseria!, perché si assottigliano
le pagine fitte della nostra calligrafia mercuriale?;
quanta indecenza c'è nella paccottiglia
quanta indecenza c'è nello stupore,
quante incombenze ha l'arte: valletti
che sciorinano i propri insulsi mottetti, thrilling
ed effetti plateali...
In verità nel delirio della poesia c'è più succo che nella prosa
e nell'ombra più sostanza che nel corpo!,
buongiorno mio nero lupo, benvenuta mia tenebra,
sapevo che sareste apparsi in questa notte di lampi;
buongiorno mio nero lupo."
*
"...soltanto policromi acronimi, acrostici
imbanditi di merletti e di trine, ipotenuse
e meduse che vagano nel mare, muse che
inorridiscono ai policromi svolazzi di Ermete.
Ermetismo: malattia infantile dell'eufuismo,
eufuismo: surrettizia elefantiasi dell'io,
io: dismorfismi del fioretto, talari abiti
del linguaggio; paggio: valletto ubiquo del sipario,
che si muove tra candelabri, scettri
ed arazzi, produttore di metrologia;
paggismo: equivalente semantico di mancipio
con in più il retaggio dell'aggio;
Priapo, da cui priapismo: patologia
del membro virile;
oltraggio: ossessione dell'età giovanile,
liturgia del dileggio, abbecedario
degli aforismi infantili;
felicità: memoria di piogge primaverili...
Sono di fronte all'anagramma della verità,
la bronzea porta del Paradiso,
sortilegio della menzogna, odo
il suo stridulo timbro nell'erba,
fioretti cinti alla vita che tinniscono...
In fin dei conti, la poesia è strangolamento,
asfissia. Nient'altro."
*
"...come un prete trascorre la sua missione
dall'altare al turibolo, dall'incenso alla mirra,
io passeggio dal lucore del proscenio
alla oscurità del postribolo...
ero nell'oscurità del vestibolo quando ignoti messaggeri
mi hanno avvisato:
«Principe, un Signore in nero ti ha cercato
tra gli spalti del castello, la stella Sirio risplendeva
lontana nel firmamento...».
Dicono gli ermeneuti che la mia logorrea
sia una proiezione della mia mente malata!,
oh, i detrattori della mia lucida follia!;
ma ecco che appare il Signore in nero:
una luttuosa mantiglia sulla nera
calzamaglia; impugna il fioretto:
che nobile eleganza!, che audace
postura assume il ripugnante spadaccino!,
adesso cala la visiera sul volto invisibile;
con la punta del mio stocco gli trafiggo
il petto inamidato, immergo ripetutamente
il ferro nel suo corsetto invulnerabile!..
La figura in calzamaglia resta imperturbabile,
osservo il bianco dei suoi occhi irridere il mio volto
dietro la maglia ferrigna della maschera."
*
"... preferisco la tesi del complotto
a quella dell'intrigo, propendo per
l'ipotesi del crimine perpetrato
scientemente, prediligo il vortice
della gratuita malvagità all'aborto
d'un mancato recapito: il delitto
è un vaso rotto che non si può più incollare;
preferisco il turpiloquio del re
al vaniloquio di Ofelia; tutto ciò è ben chiaro
al delfino di Danimarca; preferisco
poltrire con lo stiletto dietro il
sipario piuttosto che indossare
il nero mantello e il gambaletto,
anch'esso nero, di Atirev...
Preferisco esitare sull'orlo di una congettura.
Preferisco il delirio."
*
"...i miei truismi sono queruli sciocchi
ospiti che frequentano le bettole
di Elsinore: dismorfismi, dismetrismi, cinetismi...
oh, certo, Laerte è uomo d'azione,
egli avrà senza indugio già
deciso il da farsi: uomo di semplici tropismi...
La gentile baldracca di nome Ofelia è annegata
sotto il salice e il mite Polonio è caduto dal mio stiletto
come un sacco di patate mentre
mia madre e mio zio fornicavano nel letto
incestuoso che fu di mio padre!...
Oh, certo, un tempo amavo la gentile Ofelia...
ma adesso preferisco giocare al gatto con il topo
e alle trappole per il re e per la regina.
Mi diletto con i miei atroprismi interstiziali,
i miei splenetici monologhi...
Un nome, che cos'è un nome?, un nulla
che finisce nel mentre che lo pronunciamo;
e la stella?, che cos'è una stella?,
un nulla che si spegne nel mentre che brilla;
e un fiore?, che cos'è un fiore?,
un bubbone che fiorisce in un baleno; e la Musa?,
che cos'è la delicata Musa dei poeti?,
ve lo dico io: un insulto sul volto
pronunciato da infidi camerlenghi, da chi
non ha idea di che cosa sia il delitto."
*
"...v'è un corridoio che scorre nei miei appartamenti,
spiraliforme, le sue pareti arcuate fuggono
l'occhio che le insegue...
un lucore bigio piove dall'alto, avvolge l'ambulacro
con un lenzuolo bianchiccio...
splenetiche bifore dalle pareti aggettano
su altri corridoi ove fiocca dall'alto
un lucore bigio; nei penetrali la luce
assume una eloquenza verdastra,
vetrosa, le vesti appaiono logore, unte,
macchiate da un inchiostro indelebile...
alcuni di questi camminamenti conducono
agli alloggi della laida Ofelia, che un tempo ho amato
d'un amore ingenuo e scurrile, altri ambulacri
conducono negli alloggiamenti di mia madre
e del suo regale amante...
Sono sovranamente libero di perlustrare i nudi ambulacri.
È questa la mia libertà. Mi chiedo: esiste l'abisso?,
cosa pensa Amleto del mare?, esiste la felicità?...
il grido che si prolunga nell'eco
assume la posa di uno squittio di carnefice.
Lacerante, tagliente.
Il rumore dei miei passi echeggia sulla fragile
impalcatura di grani di zucchero."
*
"...tra il sipario e il fondale recitano
gli attori il loro irreale canovaccio;
il sipario ondeggia lieve ad ogni scena...
io sono un personaggio del Macbeth
che ha sbagliato dramma,
la mia voce doppiata è oscena,
irriconoscibile, dietro ogni maschera
attende il cadavere, lo spadino
tintinna ad ogni mio passo...
la mia regina dal volto obliquo
ha un chiostro di capelli corvini,
neri serpenti nuotano nel lago tranquillo
dei suoi occhi, le unghie grifagne
delle mani sottili sono carche di anelli...
il re dormiva in un frutteto quando
un serpente lo morse conducendolo
nel regno delle ombre...
da dietro un vetro ispessito lo vedo
assottigliarsi... contemplo il fioretto
che oscilla mentre gli attori recitano
il loro insulso copione, il bacio incestuoso
di mia madre al suo amante."
*
"...dietro di me dietro di te c'è un re
e una regina che insolentiscono un regno...
in alto scricchiola la colonna,
in basso una luttuosa madonna
è a cena con i vermi del lago...
Rosencrantz e Guildenstern entrano
ed escono di scena, un balletto
vorticoso degno di messaggeri regali,
dispacci di sventure annunciate...
se l'arte è lo specchio della natura
e la natura il riflesso delle tenebre,
ecco un degno oggetto per la tua arte poeta:
clownerie allo specchio, smorfie, latèbre..."
*
"...recluso nel castello inespugnabile,
confuso per il lutto inarrestabile, Amleto
indugia, lo spadino nel corsetto;
attende il caso, l'impugnalabile!
...come un uccello nictalopo entrò
nella mia fronte un nero pensiero,
volò nei corridoi dell'ippocampo,
indossò un vestito di carne e fu più vero.
...sempre tieni la lama pronta all'impiego
nascosta nel taschino interno mio sordido re;
io lo so: da esperto commediografo
guardi la mia giacca, sospetti me.
...mio immondo re, duplicato di un crimine
precedente, rapido il tuo doppio ti sfiorò
quando conversavi nella tenebra del giardino;
il destino è il rumore che passò."
*
"...il debole cerilo, la sciocca cicala,
l'insulso scricciolo, il guizzante pesciolino,
il codardo pavone che dispiega
la coda multicolore e la timida ninfa oceanina
sono in te, gentile Ofelia, vaga del Principe
della nerezza; l'inquietudine in
calzamaglia attende dietro le quinte:
il serpente che indossa la corona
di Danimarca finalmente è in gabbia...
«desta le trombe della tua ira, insolentiscilo,
feriscilo con la punta del tuo scherno,
con l'accidiosa agudeza delle tue
smaglianti metafore, Amleto,
spediscilo al creatore con un colpo di stocco,
tagliagli le giunture dei nervi con un lieve tocco
del tuo stiletto, con il tacco appuntito
di tuoi neri stivali!»"
*
"...l'inferno è la palestra degli dèi
notturno conciliabolo di ombre,
e il liuto di Orfeo non riscatta la vita...
ho visto la gentile Ofelia in una fiamma che
divorava il suo splendore, la diafana tunica
palpitava, crepitava, il fuoco
ammorbidiva il suo volto ceruleo...
qui il Signore è Lucifero avvolto nel mantello
della nerezza, nella mano destra
porta una torcia di luce, nella sinistra uno stiletto...
sussurra all'orecchio di Amleto parole
di velluto...
la suprema magistratura dell'inferno mi esorta...
non è certo il diavolo che ha bisogno
di trucchi e parrucche, è piuttosto
il mio doppio che mi conduce al guinzaglio...
non è affatto vero che il movimento conduca alla
stagflazione: a volte è la cognizione
degli uccelli, a volte l'ipotenusa
è la cornamusa del delirio
che ci induce al delitto."
*
"... lo sapevo che a girarci in tondo
saresti giunto al punto di non ritorno, Atirev;
forse avresti preferito camuffarti da Yorick
con pastrano e zimarra, piuttosto che
affrontare gli umili servigi della notte,
un atto d'imperio ad un secolo di abiezione...
a noi, nipoti di Amleto, è stato concesso
il primo esito, noi che sappiamo quanta filosofia
giaccia inevasa, non ce ne adontiamo:
un talismano e ci dichiariamo soddisfatti:
Angst zum Tode...
Non v'è differenza tra l'interno e l'esterno
d'un asilo, l'inferno è il rumore stridente
che uno sconosciuto gira nella serratura...
la paura è il sospetto di aver
dimenticato qualcosa d'importante
in una stanza d'albergo a ventimila
chilometri di distanza, in un tiretto
del secrétaire di un motel, perdere l'aplomb
perché la polizia ha scoperto il
crimine e serra l'interrogatorio sui dati,
sui particolari insignificanti che costituiscono l'esistenza...
io non seguo la frusta opinione che
una vita priva di terrore sia preferibile o,
almeno, più significativa; ritengo invece
che l'ordito dell'esistenza sia più intellegibile
così: tra le smagliature puoi scorgere più cose
anche se la trama fosse più fitta."
Atirev
Non esiste l'anagramma della Verità,
esiste il labirinto delle possibilità:
un abstract myself in an abstract ambulacrum
che irride la tomografia del reale:
la maschera, il cappuccio, il mantello
regale, lo sguardo azzurrino, lo spadino
sul crinale delle tre dimensioni
sono tutte sordide espressioni del mio trisma.
Il Palazzo del re un abstractum che
interminabilmente fluisce, bivium di
biforcazioni, albero di ramificazioni...
il destino è un giardino con i sentieri
che si biforcano: che dire?, e c'è anche
la comodità di optare per le
teleferiche che conducono alla sommità
dell'ombrello della notte.
*
"...l'accidia si nasconde dietro un trisma,
fazzoletto ricamato dal destino,
l'esistenza puoi leggerla al contrario
come una fitta serie di palindromi
oscena partitura da vetrina
osceno pentametro macchiato da sangue regale,
l'amore è un deposito di scheletri
panoplia di teschi e tibie per l'onore
degli occhi, alterco di diottrie
e di ratti; la reggia è il luogo di simmetrie
posticce e di ostaggi, raggi di nere stelle
che non brillano...
l'accidia si nasconde dentro un prisma
ordito di aforismi e di fioretti."
*
"...entro nel retroscala inseguito
da un lampo avvolto nel mio nero
velluto, accedo nel retrobottega del teatro
sudicio, sulla spalla porto un
pipistrello impagliato, in mano tengo
un filo di spago che termina con un cappio
per ghermire un lèmure, le unghie
di una tigre straziano i miei stivali di cuoio...
Sono anch'io un lèmure incarnato
anch'io ho compiuto un delitto, se reggo
lo scettro altrui è un falso, al pari
dei miei instrumentari metafisici
che impiego come spilli su una carta
geografica, mi nutro di illusioni e di
alterchi...
se entro nella notte è il belletto
da postribolo che illumina il mio volto."
*
"...voi, miei ospiti, dovunque voi siate
se l'inverno vi ha colto di sorpresa
folli di gioia, dopo una notte di deboscia
sulla strada del ritorno, se il gelo
vi sferza il volto con il suo frustino
di neve, o la nebbia vi ha accecato
lungo le pianure di Fiandra, se il vento
di Danimarca non vi ha scosso le
ampie vesti, se il vostro rispettabile
collo è ancora saldamente attaccato
alle vertebre, se l'umile destino
ha percorso soltanto un quarto del cammino
prefissato, se tutto ciò avviene
o non avviene, se i pianeti interiori
si assopiscono nel mare, se l'armonia,
vana elocutio, è disarmonia prestabilita
e la felicità un wishful thinking...
voi, miei ospiti, dovunque voi siate
se il mare non vi ha colto di sorpresa
dopo una notte di bonaccia, nudi
sulla strada del ritorno, se l'afa dell'estate
non vi soffoca con la camicia di
Nesso, se la maga Circe non vi ha
mutato in porci, se i pesci del mare
sono ancora numerosi, se il sole
sorge a oriente e tramonta ad occidente,
se ancora conoscete il significato della parola
nostalgia e il viaggio non vi ha travolti...
perché, ditemi, ascoltate il riso dei bambini
nel giardino fiorito, il canto degli uccelli
al tramonto, se ciò è in tutto simile
al clangore argentino delle spade
in combattimento, al brillìo delle corazze...
io so qual è il prezzo della felicità
so qual è il prezzo del tradimento
so qual è il prezzo della realtà...
Realtà, proiezione della mia mente malata?,
sorriso, splendore dell'estate, tropismi
di mari tropicali?"
*
"...l'irrequietezza del sipario turchino
rivela il passo esitante d'uno spadaccino
in livrea sulla pedana...
avvolto nel nero mantello attende
l'ombrello del caso, i fili transeunti
dell'impermanenza; ecco che intreccia
neri ardimenti ad esosi truismi;
nell'ordito della disarmonia prestabilita
agita il fioretto del principium individuationis,
illusoria apparenza, istruttoria della parvenza...
il nero spadaccino indossa una maschera
assiepa deduzione e induzione
astrazione e delirio, immediatezza
e duplicazione dell'illusorio
edifizi assertorii ed aporetici...
il labirinto della ragione
genera il sonno della dialettica...
distanza, tocco e ritirata; lo spadaccino
in livrea fronteggia quello in calzamaglia;
lui ha già sconfitto tutti gli sfidanti...
«una pregunta señor», si fa avanti
un pretendente plebeo, uno straccione,
impugna un fioretto e chiede tenzone:
«me gusta arañar los aires!»"
*
"...deporre il tappeto di chiodi, il cilicio,
il flagello?, sciogliere i nodi del destino
con un tradimento, un giuramento, un tormento
o semplicemente risolversi all'esilio
in un paese straniero tra straniere
genti in un idioma estraneo?; il fido
Fortebraccio è lontano, Yorick è morto
e sepolto, la laida Ofelia si trova
nella pattumiera, lo scettro della mia
regalità infirmata dorme il
sonno degli scettri: una tigre abita
il mio bifide cammino...
nell'armatura vuota di mio padre
c'è la sua mummia che lacera le mie carni...
tu sei cieco Amleto come una nottola
che svolazza alla luce della luna, abbagliato
tra gli spalti...
L'ora dell'azione giunge anzitempo
o dietro il tempo.. una rimasticatura di scherni
gli eventi, luttuosi cortigiani e inverni...
aspetto di recidere gli anelli...
lasciate che a me vengano gli scherani
ad uno ad uno li svellerò dal mondo,
in fin dei conti, il macellaio ama
l'incedere del corteo di flauti e fagotti."
*
"...non tutto è perduto nell'ordine del cosmo
non tutti i delitti sono stati orditi,
almeno non ancora; non tutte le bagasce
copulano con i pescivendoli nella piazza del pesce...
non ha forse copulato la divina Elena con
l'insulso Paride?, e i molluschi non si accoppiano
anch'essi nel profondo del mare?,
e non copula mio zio con la sua bagascia
dietro un angolo del sipario?...
ogni anello segue il suo corso, ogni castello
il suo macello, ogni pianeta ha
il suo ombrello nel cieco collo di bottiglia
dell'armilla...
ogni orbita può deragliare dal suo tragitto uniforme
ogni delitto ha il suo relitto."
*
"...ha il sapore del coito la guaina
di velluto della notte, sonagli
di metalliche medagliere, ragli
di astute preghiere, parnassiane
sonagliere che prillano dall'alcova di mia madre...
mio zio discende al soffio di sistri
e trombe regali, deturpa la mia linfatica
amigdala... noto sul suo volto algidi
aereoliti, fiammei uccelli che padroneggio,
ali di eolici lèmuri che maneggio
come la refurtiva di un ladro...
Atirev avverte: «sono il tuo baro, il sordido
complice d tuoi ordigni, dei tuoi rospi»;
del resto, la macchina del reato va oliata
con il massimo nitore come un congegno ad
orologeria, nitido meccanismo
di strigiformi infingimenti, di
adulteri e tradimenti cauterizzati
da una fiamma che non irraggia."
*
"...la cartografia delle biforcazioni
disegna un castello: un re incoronato
soggiorna nell'ampia reggia, i cardellini
cinguettano nel giardino, il lampo
dardeggia nel luogo del misfatto,
il mantello regale ondeggia, i
cortigiani occhieggiano la regalità
infirmata e Atirev attraversa
l'insistito brusio dei parlamentari...
la diottria dell'esistenza designa
un punto di cecità del movimento
degli astri, il punto in cui il mio
stiletto appuntito colpirà..."
*
"...la sudicia veste di Arlecchino
con un inchino sale sulla pedana,
sguaina la sciabola, si mette in posa
calca elastico l'assito: frusto,
sibillino, derisorio, fende lo spazio con il fioretto
e rivolge facezie all'impresario;
in calzamaglia appare lo sfidante,
elegante, si fa avante implausibile,
neri i guanti con grazia tocca la punta
del fioretto, ne prova la flessibilità,
con noncuranza, con superiorità
traccia linee e cerchi nello spazio:
tra poco il sipario si aprirà
e l'attimo brillerà di luce propria...
Arlecchino saturnino tra una stecca
e l'altra colpisce la carne viva
del duellante, un passo indietro
e due in avante; svogliato, sfrontato,
divagante si congeda dalla scena,
lascia una coda abbagliante; il pitocco
impugna ancora il fioretto, la demenza
lo possiede, il coturno ad ogni piede;
adesso siede, affaticato, dopo l'insulsa
tenzone...
avverto la meraviglia risalire il collo di
bottiglia della mia commissione: il lusso
d'un leopardo striato di giallo..."
*
"...i miei crimini li contemplo sulla
punta del fioretto quando salgo la
pedana e vibro i colpi con
l'indifferenza d'un esercizio
incruento; tento l'affondo
contro la maschera dell'avversario
in rapidissima consequenzialità;
le istruzioni della follia, che
percepisco distintamente nella
mia chiara distrazione, sono qualcosa
d'infinitamente più alto del corso
regolare degli astri; rotori,
motori, spit-fires che seguono
ciecamente il corso di orbite
ellittiche che il burattinaio supremo
ha calcolato in noiose letargiche
orbite...
in realtà, io non vedo che buio e oscurità:
scettro del re, spettro del re, azzurrità,
Amleto, avvolto nel mantello della
nerezza, spodestato dal regno, dal trono,
al terzo canto del gallo oserà..."
*
"...il prezzo di una effimera vittoria:
sul tabulato della scacchiera la
gloria dell'alfiere decapitato,
la torre in posizione avanzata al
centro della schiera dei fanti con gli
archibugi e, sulla sinistra, l'ala
della cavalleria disarcionata;
se l'arte della guerra è l'abilità dell'affondo,
come vuole la strategia militare per
disarticolare la resistenza
dell'avversario, temo di essermi
maldestramente avventurato troppo
innanzi, di aver gettato una testa
di ponte troppo avanzata verso un
fortilizio inesistente e di offrire
il fianco destro scoperto
alla cavalleria del nemico..."
*
"...Atirev studia il tragitto ornamentale
degli astri, ha un fiore azzurro sulla
nera calzamaglia, dipinge la propria
pittografia, l'algida luna è ancora
il suo pianeta preferito; il pianeta che
lo incita alla meta...
e lui lascia sedimentare nella propria criptografia
invernale gli umori incorrompibili
della sua fantastica scherma...
nell'ufficio del pergamenarius
l'ombra dell'ambulacro cade sull'indice
d'un amanuense guercio...
Atirev considera se stesso e il mondo
un futile dettaglio, un trascurabile
corollario dell'universo, una bizzarra
misteriosofia di saccenti sacerdoti..."
*
"...a volte un difetto di incisione,
un dettaglio, il conio, rivela la falsa moneta:
sul verso il ritratto del re in costume,
l'acconciatura, gli attributi della regalità;
sul retro la regina di profilo che guarda a sinistra...
il vento non penetra il metallo,
la barba del re non si muove, lo scettro sembra
irridere la regalità; la pioggia lava la moneta...
che una mano consegna all'altra
come atto di compravendita; il tedio, la lethargia...
un dèmone passeggia per le mie pareti,
lo tradisce un fremito sulfureo,
un tossicchiare melenso: è la sua
presenza che infirma il congegno
di argani e pulegge della mia ipofisi in equilibrio
bisestile, in bisezione, trinomico, triforme...
là dove risuona il rumore del mondo,
la bellezza, traccia della mutilazione,
come un lacchè fa anticamera;
la memoria è ciò che resta dello smottamento,
entropia della periferia, inflazione...
l'azione è un torcersi, embrice divelto, distrazione
di ordigni, traslato dell'inazione,
metastasi dell'inerzia, frantumi...
tuttavia, le migliori intenzioni
sono figlie della pioggia..."
*
"...quanta indecenza nell'innocenza di Ofelia!;
sì, sono altezzoso, corrugo la fronte,
guardate: che imbarazzo la mia filosofia!,
che astruseria la parola felicità;
v'è sterco nello scettro, metastasi
nella metafora, menzogna nel sortilegio;
comprendete allora il mio plettro?,
questo vile sarcofago di violini?,
dileggio, oltraggio di mandolini,
tintinnio di Glockenspiel...
Che cos'altro è l'arte?, un pensiero fiorito?,
ah, dormire sotto un pergolato di fiori,
svanire come un vento primaverile tra
i rami di un faggeto quando indora i germogli
il dolce aprile...
V'è una scienza negli astri, un sortilegio
che solo i nottambuli possono spiare."
*
"...tutto ciò non è altro che un frastuono
di cetre e di flauti, sfarfallìo di lèmuri,
sfarzo di camerlenghi, bifidi sorrisi di cortigiani,
flatulenze e infiorescenze...
del resto, l'arte è allegoria della vita,
dicono i filosofi, ed io sono prodigo
di clemenza, virtù che arride al sangue reale!;
vassallo del mio silenzio parietale,
ostaggio di questo vile ostello
adesso è di scena il mio dramma:
l'assassinio di Gonzago!;
prego signori prendete posto in
poltrona, di fronte al reale; c'è
l'intenzione che attraversa sticomitie e barriere
freccia scagliata da un arciere
che attinge il nomos, il télos, il melos;
nulla è restituito alla vita se non
come farsa, falsa duplicazione del
dramma, vetro fuso nel vetro,
finzione nel retro..."
*
"...tutto è illusorio ma tutto ha una sua logica,
desunta dal vero; (che parola odiosa!);
voi direte che l'arte è un sistema paratattico
che riflette il reale; ben detto!, forse potete
aderire a ciò, è una tesi convincente: di qua il reale
e noi di là, l'ordito è simmetrico: pilastri, lesene,
corridoi, botole, trappole, finestre...
le colonne inghirlandate della reggia
riflesso del vero reame, come l'assassinio di Gonzago
è il pallido riflesso del vero delitto!;
lussuria e lethargia solstizi del pendolo...
considero la questione da ogni lato.
Venezia, monumento di cartone fradicio,
il mio specchio è un regno palustre;
Lear, sciocco Lear!, hai sbagliato dramma,
questo è l'assassinio di Gonzago!,
prego, nella mia tenebra c'è posto!;
oh, Venezia di nuvole e cupole
con le maschere di maiolica e i lampadari
di Murano, gondole e pupille, follia
e sophia nella tua palustre laguna,
schiuma e stelle...
prego, nella mia tomba c'è posto...
gorgheggia un soprano sulla laguna...
infine, mia regina, avete letto «Il Corriere»?,
nell'articolo di spalla c'è la notizia dell'assassinio
di Gonzago ad opera dell'amante del re...
ah, l'amata Venezia profuma di sterco e di gelsomino
e l'eliotropio gira il suo volto verso il sole..."
*
"...i dettagli indicano le insegne di
un'investitura: ciò che fu verità;
il fiore azzurro ch'io reco sullo sparato
della camicia rammenta il morbo
che può attendere, la lethargia
passeggia tra gli spalti...
oh, sì, io sono il delfino di Danimarca
il principe dal fiore azzurro!, l'azzurrità
doveva essere il mio colore, così non è stato...
l'universo si espande in modo irriguardoso,
c'è qualcosa di ostico nel funerale di Gonzago,
non vedo il mio candido cigno: Ofelia, dove sei?,
l'alata flotta del re di Norvegia è lontana...
resta Amleto, il sipario, il nero lupo;
notte, tempesta di nuvole e profumi
praetesta di spazi e di topazi
di cortigiani sazi di inchini
albatri e aironi e aquiloni...
«amore, che parola è questa?, com'è ricca di veleni
questa insulsa parola!»,
cela accortezze e manierismi,
trismi e lirismi;
com'è ricco di sofismi il tuo eloquio,
Amleto!"
*
"... il metro è quella cosa che si misura con il tempo
il tempo è quella cosa che si misura con lo spazio
lo spazio è quella cosa che si misura con il metro
il metro è quella cosa che si misura con il giusto
l'amore non è quella cosa che si misura con il metro
e neanche con il giusto.
Il metro, da cui metrologia; logos, da cui logologia.
Parola, da cui parlamento, luogo dove si parla..."
*
"...vivo da trent'anni una vita schiva, lontano
dal clamore, dal clangore del mondo,
il fasto della corte di Danimarca mi è ostico:
sipari di merletti e di stiletti appuntiti...
Abito il vitreo chiarore del quarzo
nello spazio glucido dell'ambra
contiguo agli insetti e alle foglie di boschi lontani,
nei miei occhi puoi vedere scrosciare
una bufera di neve sugli zoccoli
di antiche primavere...
Ho appreso il mestiere del sonno
dal quaderno di ignoti lèmuri
ho amato la sirena senza memoria: Ofelia,
io, il nero giglio...
Intendo i tropismi del tempo, macrocosmo
privo di intelletto irridere l'ingegno
e il fasto della neve..."
*
"...Polonio qual è il tuo rovello?,
di essere il padre della baldracca Ofelia?,
di quale argomento si parla in questo teatro?,
il retro della scena appartiene ad altro sovrano...
Atirev ha scelto di legare la recalcitrante presenza
delle parole al filo sottile dell'inquietudine;
Atirev ha la certezza del clinamen della superficie:
cattività del piano inclinato;
questa lastra sottile ha altimetrie di isobare
isometrie, ipometrie e dismorfismi...
del resto, l'argomento di Zenone in pro' della tartaruga
coglie nel segno, prima o poi anch'essa
giungerà a bersaglio!,
è solo una questione di calcolo:
isometria del tragitto della freccia..."
*
"...tutto è in ordine mio Sire
il delitto è già avvenuto, Fortebraccio
è sulla via del ritorno dalla Norvegia
con una armata a cavallo, ma troppo tardi,
Polonio, con il mio aiuto, se n'è andato al diavolo
ben prima del re Claudio
l'intrepido Laerte è caduto
per il vero, sotto lo spadino di Amleto,
Gertrude ha bevuto dalla coppa avvelenata...
Si può dire che l'argomento è stato trattato e
risolto per rarefazione di attori?
E le parole da rigattiere del Principe del tedio?
Sono finite in un cesto in forma di maiale..."
Il secondino di Atirev
Sono stato per trent'anni il secondino di Atirev
ho studiato per tutti i giorni di tutti questi anni
la sua follia simulata,
ho sbirciato ogni centimetro dello schedario della polizia:
ho cercato tra le pagine dei fascicoli
le generalità e la storia del criminale,
le sue fotografie, di profilo e di fronte,
il curriculum del suo reato,
le foto dei cadaveri: la madre e lo zio, vittime
del suo furore delittuoso, ho fiutato per trent'anni
il fetore da obitorio della sua cella
ho accompagnato il condannato in manette
l'ho scortato innumerevoli volte dal palazzo di giustizia
al carcere, l'ho invitato a premere
l'indice e il pollice sul registro
dell'ufficio matricola per le impronte digitali,
gli ho sequestrato la cinta dei pantaloni, i
lacci delle scarpe, il portafogli;
tutti i giorni, a sera e al mattino, ho battuto le
inferriate della cella di Atirev: il metallo aveva un timbro cupo
come la voce di un arcangelo raffreddato,
altre volte un suono fesso, come di moneta falsa;
gli ho sequestrato fili di spago, nastri, lenzuola,
«affinché non tenti il suicidio», gli ho detto in amicizia,
...per trent'anni sono stato la guardia
del detenuto Atirev in un carcere
di massima sicurezza circondato dal mare...
Sono stato il suo secondino e il suo aguzzino,
ho eseguito la sentenza del tribunale,
era questo il mio ufficio: trent'anni
di carcere per l'assassinio di suo zio
colpevole, a suo dire, di avergli ucciso il padre
e sposato la madre. Ho messo in libertà
il pazzo sulla motovedetta che dal
penitenziario sull'isola di Pianosa
lo ha portato sulla terraferma: l'Italia,
che lui chiamava «cielo di Danimarca».
Era pazzo, completamente pazzo.