Giorgio Linguaglossa
248 GIORNI
Giorgio Linguaglossa
via P. Giordani, 18 – 00145 Roma
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1° giorno
L’ INCONTRO ALLA FESTA DI CAPODANNO
Così, mi sono ritrovata seduta accanto a lui, sul divano. La sua spalla premeva sulla mia spalla. Affettavo una tranquillità che non avevo. Le volute di fumo si sollevavano e volteggiavano nell’aria come pesanti, morbidi tendaggi. Un aereo luminoso tagliò silenzioso il cielo. Pensai che il ronzio dell’aereo disturbasse la mia immobilità assorta. Le note di una musica da ballo raggiungevano il mio orecchio come se avessero attraversato una spessa coltre di ovatta. Giungeva il tinnire di stoviglie del dessert e lo scalpiccio degli ospiti come quando stai al telefono e percepisci, tra le parole dell’interlocutore, il brusio di altri astanti come un rumore di fondo ineliminabile. È la fine dell’anno. Ma di quale anno? – mi chiedo - quanti anni sono passati? Ed io dove mi trovo? Chi sono queste persone che mi stanno intorno? Da dove sono venute e dove sono dirette? E domattina, che cosa farò – mi sono chiesta – quando tornerò nel mio appartamento ammobiliato? Che ore sono? Precisamente: la mezzanotte. Almeno, lo suppongo, a giudicare dal crepitare di botti e dal numero di bottiglie di spumante che vengono stappate, dalle grida eccitate dei presenti che brindano a piccoli gruppi, chi qua, chi là, secondo un clichè ormai mandato a memoria che si ripete ogni fine d’anno. Con la coda dell’occhio percepisco, attraverso la finestra a lato del divano dove sono seduta, lo scintillio dei fuochi d’artificio: gialli, rossi, verdi, cangianti… e la pioggia, monotona, intermittente, insulsa che insudicia l’asfalto delle strade, si posa sulle automobili parcheggiate, sui semafori illuminati…
Pensavo al rumore della pioggia che cadeva sull’acciottolato del giardino, al di là della finestra aperta nella notte incipiente. Un’idea assurda mi attraversò la mente e me ne meravigliai non poco: pensai di sospendere il pensiero. Pensai intensamente la sospensione del respiro. E, all’improvviso, tutti gli oggetti del salotto mi apparvero nella loro nudità, nella nuda datità della loro aseità. Loro sono là ed io sono qui – pensai – inevitabilmente, estranei.
Mi concentrai sul rumore della pioggia che cadeva perpendicolare al di là della finestra. Trassi lo specchietto dalla mia borsetta e mi guardai allo specchio per rifarmi il trucco. Mentre passavo la matita del rossetto sulle labbra mi meravigliai non poco quando mi accorsi della presenza di un pulviscolo di goccioline rarefatte tra i miei capelli, le ciglia e le sopracciglia. Mi ero incautamente affacciata alla finestra e uno spruzzo di pioggerellina sottile mi aveva bagnato il volto…
- Cade molta pioggia stasera, – disse una voce maschile che veniva dalla spessa coltre di ovatta. Pensai si trattasse della medesima persona che era seduta al mio fianco. Adesso che ci ripenso, non sono proprio sicura che sia stata la sua la voce che avevo udito. Del resto, che cosa me ne importa? Ormai quello che è stato è stato e il passato non può essere cambiato da una nostra opinione o impressione, e non può essere revocato per decreto.
- Ci sono molte cose che possono accadere, – aggiunse la voce che presumo sia stata la medesima che aveva pronunciato la frase precedente.
- Ma non tutte le cose accadono. Accadono veramente soltanto le cose che noi non vogliamo. Anzi, le cose che non vogliamo, quelle sì, irrimediabilmente, accadono.
Replicai in tono neutrale più per esercizio dialettico che per convinzione.
Questa volta, ebbi la certezza che era stata la mia voce ad aver parlato. Invece, adesso che ci ripenso, nutro dei dubbi circa la corrispondenza tra la voce maschile e la persona che mi sedeva accanto.
- Un filosofo tedesco del Novecento ha detto che il mondo è tutto ciò che accade, ma ha dimenticato un particolare: che noi non sappiamo quasi mai ciò che accade e quando accade.
La voce del mio misterioso interlocutore aveva pronunciato quelle parole con un tono affabile e accattivante. C’era un trucco in quel tono, in quella voce? La sentii insolitamente familiare, come se l’avessi conosciuta da sempre.
- Ciò che non vogliamo, ciò che non siamo, – pronunciai il famoso verso di un poeta italiano del primo Novecento in stato di apnea, come un contenuto ideativo che avesse bucato il filtro della mia coscienza vigile. Come una bolla di sapone che provenisse dal mio inconscio che, giunta in superficie, si scioglie.
Avvertivo come un ronzio nella mente. Ma adesso quel fastidiosissimo ronzio sembrava essersi assottigliato. (Ho di frequente la spiacevole sensazione che ci sia come un buco bianco nella mia mente che si porta via tutto, attraverso il quale tutte le parole e i pensieri del giorno fuggono, volano via come leggerissime ali di farfalla).
Pensavo al rumore della pioggia che cadeva perpendicolare e non mi accorsi della presenza di una mano che dal ginocchio saliva lentamente, su per le mie gambe, trotterellando sui ginocchi, fino a sfiorare il lembo degli autoreggenti. Vidi la medesima mano che mi toccava i fianchi come se fossi stata una bambola di gomma o un manichino Probabilmente – pensai – il proprietario di quella mano mi palpava per sincerarsi che io non fossi una finzione o una bambola di gomma. Un brivido mi attraversò la schiena che ebbe l’effetto di una scossa elettrica: mi risvegliai dal mio stato di apnea.
Davvero strano: ho studiato tutta la vita per diventare inerte ed elastica come una bottiglia abbandonata nel mare. Senza riuscirci. Ed invece, ecco che, all’improvviso, sono diventata una terza persona. Una terza persona che osserva il mondo con il terzo occhio, che osserva con distacco il suo corpo. Indipendente e indifferente al suo corpo. Come se quella persona non avesse niente in comune con me ma fosse un’altra donna che vive in un’altro dimensione e telefona, mangia, fa all’amore, parla con gli amici, insomma, che fa tutte le cose che fanno tutti. «Adesso sono davvero diventata un’altra donna - mi sono detta - una terza coscienza che passa il suo tempo ad osservare la coscienza della prima persona. E la controlla, la guida, la corregge…».
Le mie gambe accavallate giacevano inerti. Implacabilmente offerte allo sguardo maschile, un po’ come oggetti di oreficeria o elementi marmorei di una statua di Afrodite piuttosto che come pertinenze della mia fisicità. In verità, non mi sono mai occupata e non mi hanno mai interessato le valutazioni intorno alla lunghezza dei vestiti che indosso; non mi sono neanche mai occupata del problema della trasparenza dei miei vestiti, ho sempre considerato tutto ciò una questione assolutamente secondaria, terribilmente provinciale e corriva.
L’uomo pensò di lusingarmi con degli apprezzamenti prevedibili, direi scontati:
- Sei una donna indiscutibile, con delle gambe indiscutibilmente inoppugnabili ed eleganti… Ed io ho un debole per le donne indiscutibili…
Poi aggiunse delle connotazioni univoche a quel suo ironico fraseggiare.
- Che cosa significa per te «indiscutibile»? – gli chiesi a bruciapelo.
- Significa che la tua bellezza non si può discutere, è un dato, un evento che bisogna accettare così com’è, - mi rispose la voce alla quale avevo associato la mano che si era posata sulle mie gambe.
- Se fossi in te non correrei il rischio di perdere un’occasione così ghiotta per fare la mia conoscenza. Sai, potrei cambiare idea e andare a fumare una sigaretta - disse l’uomo con una punta di divertito humour.
Risposi automaticamente con un gelido silenzio. Ma l’uomo in tweed continuò con i suoi frizzi.
- Sai, il velodromo di Monza contiene meno curve del tuo esile vestito… ed io amo appassionatamente prendere le curve in velocità…
Il mio silenzio avrebbe dovuto scoraggiare quell’impertinente, ed invece ebbe l’effetto di accentuare la sua ostinazione. Improvvisamente, e senza alcun motivo, scoppiai in una fragorosa risata che echeggiò attraverso la cristalleria del salotto che sembrò tintinnare… i suoi occhi incontrarono i miei nel momento in cui io distoglievo lo sguardo dalla tappezzeria… mi attrasse il profondo buio delle sue pupille che apparivano sorelle siamesi della oscurità… e una gelida inquietudine cominciò a serpeggiarmi su per la schiena, un’inquietudine che allora scambiai per allegria.
- Tu vivi senza scandalo, – esordii in silenzio meravigliandomi per le mie parole.
- E tu vivi per lo scandalo, – azzardò l’uomo con il fazzoletto al collo. Quella frase così diretta mi prese alla sprovvista. Mi chiesi chi fosse quell’uomo che aveva osato colpirmi con tanta precisione. Esitai prima di replicare e alzai lo sguardo sui suoi capelli brizzolati.
- Tu vivi sul filo del rasoio, – ribadii senza scandalo, ricalcando il suo modo diretto di usare le parole ma in realtà gettando la frase lì per caso, o forse per astuzia.
- E tu vivi in bilico, come dentro l’ovatta e sull’orlo di un precipizio, – replicò il mio interlocutore. Mi sorprese l’esattezza, la puntualità di quell’osservazione. Quell’uomo brizzolato doveva possedere straordinarie capacità di osservazione e di analisi, pensai sollevando di nuovo lo sguardo verso i suoi capelli.
- Io invece, non cambierei il mio precipizio per un semplice rasoio…
Dissi queste parole con la precisa volontà di sorprenderlo, meravigliarlo magari, e divagai con altre parole che però non trovarono la via di uscita dalla mia mente. Non avevano trovato il sarto che le vestisse. Accavallai le gambe, che per me era sempre un sintomo di inquietudine, spiando nel suo volto gli effetti delle mie parole.
- Ciascuno ha il suo modo di stare sul filo del rasoio o del precipizio. È il nostro modo di essere interlocutori, si scelgono uno due oggetti, una o due metafore… e si continua per tutta l’esistenza a parafrasare quegli oggetti e quelle metafore…
L’uomo brizzolato pronunciò quelle parole come per dare un colpo di forbici a quel dialogo irrituale, lasciandomi sospesa e perplessa. Che cosa significava la parabola del rasoio e del precipizio? Mi stavo chiedendo proprio questo quando, per la prima volta, sollevai il mio sguardo sul suo volto.
Il nostro colloquio quella volta si concluse lì. Ma era stato più che sufficiente. Poi intervenne il silenzio. Mi ero accorta che quella voce aveva interrotto il colloquio con me stessa. Le mie voci di dentro avevano trovato il loro interlocutore?
VENTI ANNI DOPO
Ricordo Ely nella clinica per poveri, "Villa Sandra", venti anni più tardi. Giorni interi seduta sotto il portico, a volte tornava a casa dalla sorella che campava facendo le pulizie, e poi di nuovo in clinica; e poi l’incendio: aveva quarantotto anni, la riconobbero da una pantofola non del tutto carbonizzata. Da una pantofola! Avrebbe odiato che si sapesse che la regina delle farfalle indossasse pantofole. Passava il tempo a scrivere, da lontano, le lettere in cui poteva mettere tutto il suo mondo immaginario. Le consegnava alla direttrice per la spedizione e quella le gettava nel cestino. Ne conservo una sfuggita alla censura in cui c'era scritto, «Massimo,tesoro mio, non è stata una giornata deliziosa? Mi sono svegliata stamani e il sole era posato sul mio tavolo come un pacchetto di sigarette, così l’ho aperto e tante cose felici sono uscite svolazzando nell’aria». Me la spedì appena qualche giorno prima di entrare in clinica.
Poi più nulla, per anni; nelle cliniche si fa una passeggiata in giardino e si prendono pasticche, si viene visitati dai dottori, si indossano abiti comodi e brutti, senza piume, e non si va a feste fino all’alba, ma Ely era la regina anche delle bugie, capace di costruire ovunque un regno meraviglioso e segreto, un ballo a cui lei sola era invitata. Teneva tutti a distanza, così poteva non smettere di essere un chiaro di luna. Un giorno le scrissi questo biglietto: «tu sei stata la più bella, cara, tenera, splendida persona che abbia mai conosciuto, ma dir questo è ancora dir poco». Finalmente lontano da lei, dalla fiamma che brucia, ero tornato libero, libero e disperato.
Ernest Hemingway l'avrebbe detestata. Avevo amato quegli occhi splendenti che lei mi ficcava in faccia, l'avevo amata come la cosa più bella del mondo. Si sentiva in gara con me, avrebbe voluto ch'io diventassi il più grande scrittore del mio tempo: «Il povero romanziere mancato», come usava definirmi. Quando seppe che avevo scritto un romanzo sulla storia del nostro amore, mi scrisse. Ho un suo telegramma, non so come sfuggito alla censura di "Villa Sandra", che mi definiva «un romantico egoista». Conservo ancora tutto ciò che ho potuto trafugare dalla nostra vita in comune, quei 248 giorni del nostro amore: appunti, lettere, fotografie e note spese, scontrini del supermercato, biglietti dell'autobus, una sua spilla smaltata con dei svarowski. Un giorno mi scrisse: «È una bella storia, forse il tuo miglior romanzo, ma ti prego di togliere il mio nome, non voglio amici che pregano a voce alta sopra il mio cadavere. Tua amica per sempre, Ely». Ma non tolsi mai il suo nome. Ely era poi andata sposa a un trafficante di cocaina, fu la sua rovina. Per me è rimasta invece la sua luce azzurra, il sogno infranto della mia vita verso il quale non potevo non rivolgere il pensiero. «Quella fiamma - le scrissi un giorno - è stata la più intensa della mia vita», «quella fiamma mi ha consentito di continuare a vivere un po' anche per te». Quella fiamma ci aveva bruciato entrambi: aveva impedito a me di diventare lo scrittore delle illusioni perdute e a lei di diventare una stella del cinema. Fu lei stessa un’illusione, la più grande della mia vita. Ely la ricordo così: una continua leggerezza, bellezza e meraviglia.. anche quando quella meraviglia cadeva nella disperazione e nell’incapacità di vivere. E di amarmi. «Eppure, Ely, non daresti qualsiasi cosa, per tornare indietro, all’inizio, per essere di nuovo come allora, e avere davanti un futuro così promettente che pare impossibile non farlo andare per il verso giusto?», le scrissi una volta. Ma Ely non poteva più rispondermi, era stata ricoverata, per sua volontà, per l'ultima volta nella clinica psichiatrica, quella che andò a fuoco.
Non mi rispose, non so se per via della censura o perché preferisse il silenzio. Lo so, sono stato sciocco a scrivere quella frase. Io ormai vivevo da scapolo, da solitario, una vita normale, disperata, sempre a corto di quattrini, un po’ di fama e molto fallimento, ma tendevo ancora le braccia verso di lei, verso il ricordo dell'età dell’oro finita in un manicomio per poveri.
10° giorno
L’APPARIRE SENSIBILE DELL’IDEA
Tutto è cominciato così. L’incontro con quell’uomo brizzolato alla festa di capodanno mi aveva chiaramente fatto prendere coscienza della mia ambiguità: il mio essere duplice. Era come se una terza persona mi osservasse di continuo mentre parlavo. Una sorta di controllore della mia coscienza. E allora accavallavo le gambe. Sì, gli uomini pensavano che le volessi mettere in mostra ma io non avrei mai escogitato un pensiero così banale e utilitaristico. In realtà, sulle mie gambe il mio controllore non aveva alcun potere. Esse erano libere. Negli ultimi anni l’eros era diventato meno importante di fronte a una vocazione più alta, sempre più alta e impegnativa. Mi ero, in un certo senso, come sdoppiata: una parte di me impersonava la coscienza critica, lo stato di veglia; l’altra impersonava lo stato sonnambolico, la personalità cifrata che dimora nelle profondità e che talvolta, in modo inaspettato e improvviso, affiora alla superficie della coscienza. Penso che queste due, diciamo così, personalità siano sempre state dentro di me. Siano sempre state segretamente alleate. Entrambe hanno perseguito il medesimo disegno: costruire un nuovo personaggio, un nuovo «io». «Io»? Che parola è mai questa? Adesso, a distanza di 248 giorni, mi è tutto chiaro. Quel personaggio di quella festa di capodanno del 1998 sono ancora io? O sono diventata qualcun’altra? A quell’epoca, prima del mio amore con Massimo, mi immaginavo come una Venere d’oro che sale gli scalini che avrebbero dovuto condurre al podio della vera bellezza.
Se dovessi confessare la verità, ero terribilmente annoiata. L’interesse degli uomini mi procurava noia. Mi incuriosiva unicamente l’effetto che su di loro produceva la mia avvenenza. A quell’epoca, pensavo che il tutto confluisse inevitabilmente verso un punto: la bellezza. Ma che cosa sia la bellezza davvero nessuno lo ha saputo definire. Per Hegel la bellezza è «l’apparire sensibile dell’idea» e l’essere è «l’immediato indeterminato». Sì, forse il filosofo tedesco è andato molto vicino al bersaglio. Mi convinsi che la bellezza fosse l’apparire sensibile del mio corpo. Il mio corpo «doveva» apparire e scomparire. Scoprii così la mia debolezza: «dovevo» mostrare sempre di nuovo il mio corpo, e iniziai a fare la spogliarellista. Era il mio modo di dimorare accanto a quello che Heidegger chiama l’«essere». Credo che questo sia il segreto del fascino della bellezza: la bellezza è il nuovo sempre uguale che si manifesta e si ripete. La bellezza è l’ignoto. È il ripetersi ciclico del sempre uguale che ci rivela l’ignoto. Sì, forse nulla attira di più gli uomini quanto il desiderio dell’ignoto. Ma che cos’è l’ignoto? È il noto, il sempre uguale che si ripete, all’infinito.
Forse, soltanto i poeti hanno avuto una qualche cognizione di che cosa sia l’eros, perché il loro oggetto è sempre stato l’adorazione della bellezza: Gli altri uomini, ovvero, gli uomini normali sono soltanto dei recettori della bellezza. Subiscono gli effetti della bellezza. Sono degli schiavi della bellezza perché non possono crearla. Soltanto gli artisti sono liberi, veramente liberi perché possono creare la bellezza. Ma, in verità, essi sono ancora più schiavi della bellezza degli uomini normali.
Quando, nel gennaio del 1901, il poeta russo Aleksandr Blok incontra per la prima volta Ljuba, la ragazza dai capelli d’oro di cui si innamorerà perdutamente, la descrive così: “25 gennaio, passeggiata nella via Monetnyj. È sera. Strana sensazione. Alla fine di gennaio e all’inizio di febbraio. Lei è apparsa realmente. E quella che era un essere vivente, diviene l’Anima universale (come ho poi compreso), l’Anima separata, imprigionata, languente… Io non posso fare altro che guardarla e benedirla…”.
Così riferisce il poeta russo le impressioni che la giovane Ljuba produce nel suo animo: “L’ho incontrata, il suo aspetto esteriore, in perfetta armonia col suo aspetto soprannaturale, ha fatto sì che si levasse in me una tempesta di felicità, e mi ha fatto comprendere che quell’ombra leggera ha condotto alla guarigione la mia anima malata e già prossima alla morte…”.
Dunque, la morte. La bellezza allontana la morte. Forse, io sono stata prescelta da Lui per procrastinare la morte. E nient’altro.
Tutta la vita ho studiato per diventare inerte come il tappo di una bottiglia abbandonata nel mare rumoroso, e quieta come il sangue che zampilla dai polsi tagliati.
Ho studiato la professione dell’albero per diventare simile alla saldezza e alla ubiquità della sua anatomia. Senza successo. Durante l’adolescenza ero troppo sensitiva e sensibile. La mia predilezione per la tattilità era diventata una vera e propria ossessione, anzi una fobia. Per tutti gli anni della mia tarda pubertà e della mia tormentata adolescenza mi sentii come minacciata dal tatto. Quando stavo in compagnia di un mio coetaneo, avvertivo una forza irresistibile che mi attirava verso di lui. Lo dovevo toccare per sincerarmi della sua esistenza. Mi sentivo minacciata ed esasperata da questa esagerata propensione al tatto. Alla stessa stregua, mi sentivo costantemente esposta ai palpeggiamenti dei miei coetanei e, soprattutto, dei ragazzi più grandi i quali facevano a gara per dimostrarsi intraprendenti e sbruffoni.
Sono superstiziosa come una maga o una alchimista. Verso i dodici anni toccavo con diffidenza la materia, quasi con revulsione. Se la toccavo, istantaneamente me ne ritraevo inorridita. A tredici anni ero già una donna formata. Avevo già seni particolarmente pieni e i glutei erano completamente sviluppati.
A quel tempo ero ambiziosa come un uccello che guarda il sole, e accidiosa come nebbia nella pioggia. Cominciai a parlare da sola. Parlavo, parlavo, discorrevo con me stessa per lunghe ore di seguito. Era il mio modo di farmi coraggio per affrontare il mondo o fronteggiare la mia coscienza. Dovevo essere degna della stima di mia madre: la donna più bella del mondo. Che pensiero tragico la bellezza! Soltanto adesso comprendo fino in fondo tutta la tragicità della bellezza: «devi» essere uguale al suo modello, «devi» fronteggiare il modello, devi superare il modello.
La sera mi nascondevo tra gli spettatori del circo dove mia madre e mio padre si esibivano al trapezio. I miei genitori erano belli come angeli e saettavano e volteggiavano nell’atmosfera con una incredibile leggerezza. Sembravano sospesi nel vuoto. Oh, come invidiavo quella loro leggerezza! Mi sembravano uccelli che abitassero l’empireo. Ero convinta che dimorassero in un’altra dimensione. Più su, molto più su di quella degli altri uomini.
Non avrei mai pensato che mia madre si potesse sfracellare a terra. Non credevo fosse possibile. Ero convinta che la sua coda di cavallo fosse stata creata per librarsi nell’atmosfera! che ridicoli pensieri affollavano allora la mia mente!
La vita è come abitare un capitolo di un libro intonso. Un tomo affollato da una scrittura fitta, desueta, una calligrafia astrusa e incomprensibile, capricciosa e impredittibile che gioisce negli interstizi bianchi della pagina, vergata da un benedettino claustrale o da un monaco cluniacense disperso nell’ombra dell’abbazia del tempo.
A ragion veduta, ora posso affermare il seguente paragone: la cifra segreta della mia esistenza è stipata e nascosta in una parola, in un segno di quella bizzarra scrittura mercuriale che ritorna e si duplica in altre innumerevoli parole come un ipogramma che ripete ossessivamente la propria formula misteriosa.
Posso affermare, con cognizione di causa, che ho abitato i ghirigori di calligrammi trapezoidali, circonfusi nel biancore della pagina, tra gli ori di sottili miniature che si alternano a segni cuneiformi, astrali ed atrali. Ho abitato i penetrali d’un incunabolo nel quale – che paradosso! e che incubo! – ho l’assurdo privilegio di spiare…
Durante tutta la mia adolescenza ho invidiato la bellezza di mia madre. Fino a quando non l’ho vista precipitare a terra. Un urlo. E uno schianto terribile!
- Nell'attesa di un’occasione migliore canto in un locale, il Lady Zanzibar. Quasi ogni notte, in cambio di una cena, di un regalo o di denaro, vado a letto con uomo diverso finora ha fatto solo la comparsa in un film.
- C’è sempre un’occasione prima o poi, basta prenderla a volo – mi ha risposto Massimo modo sibillino.
*
Ely ha un viso lungo e magro, quasi sempre coperto di fondo tinta, incorniciato da capelli biondo cenere, grandi occhi verdi, le dita sporche di nicotina. Vado a vederla tutte le sere al Zanzibar. Il mio amico Raf Vallone (come lo chiamo io), uno scrittore mancato, come me, a cui gliel'ho presentata è pazzo di lei. Andiamo ad ascoltarla. Ely è portentosa, ha una voce sorprendentemente profonda e roca, strascicata, come se dovesse trascinarsi dietro una borsa piena di pietre. Canta male, senza espressione, le mani penzoloni lungo i fianchi; ma il suo pezzo forte sono le gambe. Canta e cammina su degli alti trampoli, si toglie la gonna: che gambe!, non ci sono parole: straordinarie! Eppure, proprio per questa sua aria noncurante, il sorriso provocatorio di chi se ne infischia di quello che pensa la gente, Ely ha successo. Lo spettacolo ha un grande successo. Quando Ely si toglie le auto reggenti Raf va in tilt. Siamo amici io e Raf. Così, Ely è andata a letto con Raf; l’ha fatto per compassione, ma adesso non le va più: lei va a letto con gli uomini, tutti (meglio se ricchi, e le promettono il successo al cinema). Raf ha perso la testa perché Ely si è messa con me e se ne è andato in Croazia a trascorrere una estate con due ragazzi.
- Mi sa - lei mi dice un pomeriggio mentre fuma raggomitolata sul divano - che deve essere favoloso, fare il romanziere. Un sognatore, un idealista privo di senso pratico. La gente crede di poterti fregare quando vuole, senonché poi ti metti a scrivere un libro su di loro, dimostrando che razza di porci sono, e hai un successo pazzesco e fai soldi a palate…
- Vacci piano - le rispondo - ho idea che il mio problema sia di non sognare abbastanza.
Ely è come se non avesse sentito. Esclama: - Ah, se solo potessi diventare l'amante di un uomo ricco sfondato! Farei qualsiasi cosa per diventare ricca!
- Qualsiasi cosa?
- Sì, qualsiasi cosa.
- Sì, lo so che vinceremo; sono quelli come noi che vincono - mi dice Ely ubriaca - ma non mi basta: devono scorrere gli euro come altrove scorre il sangue; - io le accarezzo un braccio per rassicurarla e le dico: - Ma certo, cara, il sangue scorrerà eccome, ma lontano dai nostri occhi, dove non lo vediamo se non in televisione. Anche i soldi scorreranno a rivoli. Il presidente l'ha promesso, è nel nostro programma politico: nei locali si continua a ballare; gli uomini si travestono; le donne si spogliano; chi si iscrive alla lista dei vincenti, chi dei perdenti; c’è chi preferisce le bionde, chi le brune, e la situazione dell’economia precipita. Un gran ballo in maschera. Bene ha fatto Raf ad andarsene con due omosessuali in Croazia… del resto la vita è un music hall… forse, sulla nostra storia, un giorno qualcuno ci scriverà sopra un romanzo, magari ci farà un film con Liza Minelli; un bel musical. Pensa: una spogliarellista e uno scrittore fallito nell’italietta di Berlusconi e della finta opposizione...
20° giorno
IO SONO MASSIMO. CHI SONO IO?
Sono nato in un punto del cosmo. Sono un disperso, un cosmonauta che oscilla sotto un cielo stellato, o azzurro, come preferite. Diciamo che io adesso mi trovo proprio in quel punto, (ma, quale punto?).
Passeggio attorno a quel punto con passo lento e compassato. Una camicia color bianco, spiegazzata, mi sventola sotto il viso. Intorno al collo c’è infilata una cravatta senza colore che penzola liberamente come un impiccato, ad ogni colpo di vento. Una giacca color grigio topo è sistemata sulle mie spalle. È stirata e profumata con del pessimo deodorante. Sulle mie guance ben rasate c’ho spruzzato un dopo barba preso al supermercato. Mi circondano altri abitanti del pianeta terra abbigliati esattamente come lo scrivente. Mi chiedete chi sono? Potrei essere un poliziotto o un assassino, o tutte e due le cose assieme, un professore universitario o un rappresentante di commercio. Tutto è chiaro e trasparente. Io sono io. Il mio sosia sono sempre io.
Quando passeggio per le strade della capitale, mi osservo attraverso il riflesso delle vetrine dei negozi. Tutto è chiaro. Manca soltanto il delitto.
Stamane mi sono alzato di buon’ora ed ho fatto il caffé. Come tutte le mattine. Ho avvertito uno schianto: l’improvviso spalancarsi di una finestra. Lo sbattere delle imposte, le tendine scosse da un vento gelido. Un’onda sembra percorrere a ritroso lo scorrimento del tempo. All’indietro, è più chiaro lo svolgimento, gli snodi degli eventi. Se non fosse per la polvere del salotto che sale a nugoli, per il tappeto sdrucito e stinto e per la luce livida che penetra dai vetri della finestra, sarei tentato di nutrire dei sospetti circa la mia esistenza.
Prima dell’incontro con Ely ho fatto un sogno che non ho subito compreso. Ma adesso è tutto chiaro.
Questo è il sogno: «C’è una città immersa in una luce diafana e spettrale. Lampi baluginano all’orizzonte che interrompono gli ultimi residui del buio. Un ponte sul fiume turbolento collega le due parti della città che giace lungo le due sponde.
Il signor “X” cammina sul ponte deserto da destra verso sinistra. Indossa un frac nero con un cappello a cilindro ed un bastone da passeggio con l’impugnatura d’argento.
Il signor “Y” cammina sul medesimo ponte da sinistra verso destra. Indossa anche lui un frac nero con un cappello a cilindro ed un bastone da passeggio con l’impugnatura d’argento.
Si incontrano esattamente a metà strada. Nel bel mezzo del ponte.
Il signor “X” guarda fisso l’interlocutore negli occhi e mormora: io provengo dal passato.
Il signor “Y” guarda fisso l’interlocutore negli occhi e mormora: io provengo dal futuro».
Sì, davvero, adesso è tutto chiaro. Se soltanto l’avessi compreso subito, la mia esistenza avrebbe preso una direzione diversa ma a quell’epoca vivevo in uno stato di apnea, in quella zona grigia e indistinta che noi chiamiamo subliminale, in quella zona grigia che sta tra il quotidiano dell’inconscio e il sublime della coscienza. Dopotutto, chi può dirlo? Chi può asserire, con cognizione di causa, di vivere in pieno nella dimensione della coscienza? È questo il limite di un intellettuale: che lui crede sempre di vivere nella dimensione della coscienza vigile, alla luce delle sue categorie logiche o illogiche, razionali o irrazionali. Ma non è vero. Così, avvenne che incontrai Ely proprio nel momento in cui avevo deciso di vivere unicamente nel «presente». Che cos’è il presente? È una specie di pianura dove si calpesta un pavimento orizzontale; che cos’è il «futuro»? È una strada in salita; e il «passato»? È una strada in discesa ripida dove tutto rotola verso il fondo…
50° giorno
IL SOGNO DI MASSIMO: NEL FONDO DELL’ABISSO
Non so come sia avvenuto. Non ricordo. Devo essere scivolato in un buco nella terra. Ero stretto tra due pareti di terra scivolosa, un conglomerato argilloso. Continuavo a scivolare nonostante che tentassi con tutte le forze di avvinghiarmi alle pareti con le unghie delle dita e con la punta degli stivali. Dopo lo spavento iniziale, sono rimasto lucido, perfettamente lucido. In quel frangente i miei pensieri dovevano viaggiare alla velocità della luce. Credo che nei pochi secondi durante i quali è avvenuta la mia caduta in quel buco maledetto, ho esaminato tutte le possibilità di fuga e di resistenza alla sorte avversa. In quei pochissimi istanti, devo aver calcolato quante possibilità mi rimanevano di restare ancora in vita, e quante possibilità avessi invece di lasciarci la pelle in quel buco maledetto. Decisi di tentare con tutte le forze di arpionarmi alle pareti argillose del budello ma lo sforzo richiesto era così ingente che in breve dovetti soprassedere. Per quanti sforzi facessi, scivolavo lentamente ma inesorabilmente. Il cono di luce in alto diventava sempre più piccolo. Si allontanava sempre di più. Sono perso – pensai – non ho scampo! Mi confortai pensando che dopotutto, in un modo o nell’altro, doveva pur finire. Mi sorprese l’estrema lucidità e l’apparente tranquillità con cui questo pensiero mi attraversò la mente. Dopo un rapido calcolo della situazione, vista la impossibilità di risalire il cunicolo, presi la decisione di lasciarmi andare nel fondo del budello. Non avevo altra via di uscita che tentare l’ignoto verso il basso. Tentare l’esplorazione del cunicolo. Chissà, forse mi avrebbe condotto all’uscita, se una uscita c’era.
Mi lasciai cadere nel fondo del cunicolo puntellandomi con le mani e i piedi alle pareti come un animale in trappola. Sì, sono un animale in trappola mi dicevo come per confortarmi, ma non sono ancora spacciato. C’era una certa esaltazione in questa asserzione, l’orgoglio di chi sa che l’ultimo atto della commedia deve ancora venire. Finché vivrò tenterò con tutte le forze di trovare una via di fuga, sono un osso duro, e lotterò fino alla fine. Questi erano i pensieri che mi frullavano per la testa. Per buffo che possa apparire, ero orgoglioso di me stesso. No, non si trattava di coraggio. Non sono mai stato estremamente coraggioso. Anzi, a volte nella mia vita avevo dimostrato di essere un vile e un codardo. Ma non è questo il punto. All’epoca, la questione era un’altra. Ma ora non sto qui a fare distinguo e a dire quisquilie. La questione era di vita e di morte e, dinanzi alla morte, anche la viltà e il coraggio in definitiva si equivalgono, sono atteggiamenti umani che non significano nulla. Rischiavo di fare la fine del topo nel buco. Questa consapevolezza alla fine mi recò sollievo, un macabro sollievo.
Scivolai lungo l’abisso non so per quanto tempo. Fu un tempo interminabilmente lungo. Fu così che quando toccai con un piede qualcosa che doveva assomigliare ad un pavimento o che doveva avere la fisionomia di qualcosa di solido, urlai di gioia: urrah! – esclamai – quasi che avessi trovato il tesoro dei pirati di Mompracem. Guardai in alto: il cono di luce era diventato piccolissimo. Appena una punta di spillo. Tutt’attorno a me vi era una tenebra assoluta. Ero in compagnia delle mie amate tenebre! – pensai non senza una punta di ironia che mi sorprese. – Dopotutto, ci sono sempre stato abituato a convivere con le tenebre delle mie pareti, e stare dirimpetto alla tenebra del mondo non mi spaventava affatto. Anzi, mi sentivo beffardamente a mio agio, come se la consapevolezza delle condizioni disperate nelle quali mi trovavo rinvigorisse il mio animo piuttosto che fiaccarlo. Avanzavo a tentoni, perlustravo con prudenza l’ambiente circostante tenendo le mani tese e saggiando con i piedi la resistenza del terreno sottostante e lo spazio circostante. Qui la faccenda si complica mi dissi come per esorcizzare il terrore. La questione era questa: non avevo affatto paura. Ero terrorizzato. Paralizzato dal terrore. Per questo i miei movimenti erano lenti e compassati. I movimenti di una tartaruga. Nonostante ciò ero lucido. Perfettamente lucido. Non è vero che il terrore ci rende confusi. Il terrore, quello vero, sgombra la mente di ogni residuo, di ogni scoria della nostra personalità. È come rimanere nudi e camminare per le strade del centro della città. Il terrore ci rende la consapevolezza della nostra vulnerabilità.
In preda a questi pensieri, mi inoltrai nei penetrali tenebrosi della grotta. Sì, dovevo esser capitato in una grotta, vasta e solida. Avvertivo la spiacevole sensazione del gelo e dell’umidità che mi penetrava nelle ossa. Per quanto tempo potrò ancora resistere? Questo pensiero mi attraversò la mente come un lampo, e aggiunse terrore al terrore. Ero un topo in trappola. E se il labirinto non avesse avuto nessuna via di uscita? Ero spacciato. Condannato a fare la fine del topo. Non c’era nessuna Arianna che teneva il filo dall’altra parte del mondo, nel mondo della luce, ed io ero piombato nell’altra metà del mondo, là dove c’è soltanto tenebra. Continuai ad avanzare tentoni. Toccavo la fredda parete vischiosa e muschiosa. A volte, nella mia frenetica e lentissima avanzata, toccavo dei corpi mollicci e gelidi. Erano dei vermi! Una specie di lombrichi lunghi e voluminosi che vivono sottoterra, lontani dal sole e dalla luce. Non provavo nemmeno schifo, il terrore mi aveva paralizzato anche i recettori dell’estetica. Tutti i miei sforzi erano concentrati nella necessità di trovare una via di scampo, non dovevo perdermi in inutili ambasce. Procedevo troppo lentamente. Dovevo assolutamente accelerare i tempi dell’esplorazione. Non c’era tempo da perdere. Dovevo affrettarmi.
Camminavo ormai da un tempo immemorabile. Non avevo più la cognizione del tempo. Poteva essere trascorso qualche minuto o qualche ora. Non ero in grado di distinguere l’entità del tempo che trascorreva. Procedevo con un sangue freddo che mi sorprese. Con la mano destra toccavo la parete algida e vischiosa. Con il braccio sinistro teso sondavo la voragine dello spazio. Da quella parte c’era lo spazio, quindi c’era la possibilità che esistesse una qualche via di fuga. Finché c’era lo spazio insondato ci sarebbe stata una qualche, seppur remota, possibilità di scampo. Procedevo come uno zombi. L’aria si faceva sempre più irrespirabile e pesante. Poi, ad un tratto, la mano sinistra tesa allo spasimo toccò qualcosa che sembrava una parete umida e gibbosa. Sì, non c’erano dubbi: era una parete argillosa. Feci un rapido calcolo: ora sia a destra che a sinistra ero circondato da pareti che correvano parallele. Mi fermai e chiusi gli occhi per tentare di percepire l’inclinazione del terreno. Sì, non c’erano dubbi, il pavimento doveva essere inclinato in modo impercettibile verso l’alto. Lo capii da un leggerissimo movimento dell’aria che penetrava attraverso gli indumenti: le molecole di aria più calde salivano verso l’alto mentre quelle fredde discendevano nel fondo della grotta. Avvertii un impercettibile alito di aria che mi sfiorava la nuca. Dovevo essere sulla buona strada, dovevo procedere con tenacia. Lassù, in alto, insieme alle stelle c’era la salvezza e, con la salvezza, una nuova vita. Sarei resuscitato da questo sarcofago. Procedevo a tentoni, ma questa volta tastando con le braccia tese le pareti che correvano parallele verso l’ignoto. Ormai avevo preso sicurezza, camminavo sul terreno sdrucciolevole con una certa agilità e speditezza. Non c’era un minuto da perdere, dovevo raccogliere tutte le forze, concentrarle all’obiettivo della salvezza. Non c’era altro da fare né altro a cui pensare. Ero io l’arbitro del mio destino, ammesso che avessi ancora un destino. Non avevo la più pallida idea di quante ore o minuti stessi arrancando lungo quella maledetta grotta. Avevo sete. Una sete malsana. Sentivo la gola che mi bruciava e un tamburo mi rullava nelle tempie in modo assordante e fragoroso. Doveva essere l’aria, sempre più povera di ossigeno e ricca di azoto. Respiravo a pieni polmoni come se stessi correndo la maratona di Atene.
Ci sono momenti in cui ti rendi conto che sei solo, immerso nel cosmo gelido ed impassibile, di fronte ad un abisso o ad una montagna inaccessibile. Ecco, in quei momenti sei solo con te stesso. È lì che devi dimostrare che sei un uomo mi dicevo come per non scoraggiarmi. Se devo crepare creperò pure come un topo ma non prima del tempo, non prima di aver dato fondo a tutte le mie forze. Se c’è una sia pur remota possibilità di farcela la devo tentare - mi dicevo – costi quel che costi. Crepare come uno scarafaggio in questo lurido buco! Era un pensiero inammissibile, impossibile per la mia intelligenza. Sono solo ma non sono né uno scarafaggio né un topo… Il pensiero corse a mio figlio. Cosa avrebbe detto mio figlio se mi avesse potuto vedere in questo momento? Ebbene, sta tranquillo, tuo padre cela farà, se c’è una possibilità ce la farà. Non c’è nulla al mondo che lo possa fermare. Sono solo in questo fetido buco del mondo e procedo quanto più velocemente, marcio addirittura con disinvoltura, allegria… Non sono ancora un sopravvissuto. Se è questa la prova a cui il destino mi deve sottoporre, una cosa è certa: non sono ancora morto.
Mi sorpresero non poco queste riflessioni. Era la prima volta che il pensiero andava a mio figlio. Nel frattempo procedevo con una speditezza che si rivelò addirittura pericolosa. Due o tre volte inciampai in qualche cosa di solido e di molliccio, in corpi sufficientemente grandi da ostruirmi il passaggio. Dovevano essere dei topi di profondità. Esseri schifosi. O grossi lombrichi che al passaggio dei miei stivali finivano inesorabilmente schiacciati. I miei compagni di viaggio, pensai non senza ingratitudine. Trassi addirittura sollievo al pensiero che non ero solo neanche a quelle profondità, nel budello maledetto, topo tra altri topi. Intanto, ebbi la netta sensazione che le pareti si restringessero, ora le potevo toccare senza più distendere le braccia a tutto campo, segno evidente che le pareti man mano che procedevo andavano restringendosi. Non ero nelle condizioni di poter stabilire l’altezza di quel budello maledetto. Sulla mia testa cadevano insistenti e fitte delle gocce di lurida acqua. Avevo il volto e i capelli completamente zuppi di quel liquido abominevole. Un paio di volte sentii sul mio capo sbattere dei corpi mollicci e viscidi che immaginai essere lombrichi caduti dall’alto della grotta. Da questi eventi calcolai l’altezza della grotta che doveva essere rilevante: non meno di dieci dodici metri.
All’improvviso, capitai nel mezzo di quello che doveva essere un crocevia, o qualcosa di simile. La grotta doveva ramificarsi in altre, diciamo così, diramazioni. Dovevo decidere se andare a destra o a sinistra. Ero ormai spossato, avvertivo tutta la stanchezza di quel procedere a tentoni su quel fondo limaccioso, in compagnia di quegli esseri notturni. Mi fermai per recuperare le forze e feci un rapido giro d’orizzonte. Dovevo esser capitato nel mezzo di una grotta sotterranea che, verosimilmente, si poteva estendere in lungo e in largo per chilometri e chilometri. Non potevo né dovevo procedere a caso. Dovevo darmi un indirizzo, una strategia. In assenza completa di luce e conoscenza dell’ambiente ero costretto a procedere a tentoni ma così facendo mi sarei condannato a consumare le forze residue in un vano quanto inutile pellegrinaggio per quei sentieri tortuosi. Dovevo pensare qualcosa. Un’idea. Mi ricordai le parole di Archimede: “datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo”. Ecco, queste parole mi diedero fiducia, mi restituirono la calma necessaria ad affrontare quella insolita situazione. Mi fermai. Rimasi immobile un tempo eternamente breve. Una pioggia sottilissima, acida e puzzolente mi colpiva in viso. L’acqua, la via dell’acqua! – gridai – Ecco la strategia. Decisi di esplorare la direzione da cui proveniva una pioggerellina che diventava sempre più fitta. Prima o poi l’acqua troverà una via di uscita e mi condurrà fuori da questo budello - pensai. - Detto fatto, mi inoltrai, senza indugio, nella direzione prescelta. A testa bassa. Percepivo distintamente quell’acqua puzzolente percuotermi il volto. Gli abiti erano completamente zuppi di quel lercio liquame, i miei stivali percuotevano il fondo limaccioso e sguazzavano nel liquido penetrando in esso sempre più profondamente. La via dell’acqua era l’unica via di fuga. Questa deduzione o intuizione così semplice mi illuminò il cervello con una forza e una violenza impressionante, con l’autoevidenza delle cose semplici e immediate. Ora, procedevo in un vero e proprio nubifragio. Una pioggerellina sempre più fitta e intensa, asfissiante. Gli stivali ormai nuotavano in una fanghiglia sempre più liquida e leggera. Maledetti! - pensai -. Acqua maledetta, grotta maledetta! Mi venne in mente un’idea terribile: e se avessi sbagliato a scegliere la via dell’acqua? Se la via dell’acqua si rivelasse un errore? Mi venne in mente il motto latino “electa una via non datur recursus ad alteram”. In tal caso sarei stato spacciato. Pensai che non c’era più tempo per recriminazioni. E poi, in definitiva, la via dell’aria era soltanto un’ipotesi fantasiosa: non sono un uccello e non avrei potuto volare, non avrei potuto perseguire fino in fondo la direzione dell’aria! – Quindi, era tutto stabilito fin dall’inizio: la via dell’acqua, che mi appariva come frutto del mio libero arbitrio, in verità era una via necessitata. Non avevo altra scelta. Ecco tutto. È tutto molto semplice. La verità è in superficie, come dice il filosofo Hegel, pensai. Brutta questione affidarsi ai filosofi. Ciò significa che è l’inizio della fine. Con la filosofia, finiremo tutti in un gran pentolone, non potei fare a meno di pensare. Mi sorprese quel pensare ancora in plurale maiestatis; quel “noi”, nelle mie condizioni, non aveva più senso. Non aveva più senso neanche pensare al singolare, figuriamoci il plurale! Io non esistevo, ero già topo di fogna, ero già puzzolente di fogna. In fin dei conti, la via dell’acqua è la via della fogna. Mi sorprese il pensiero delle stelle. Quanto erano belle le stelle non potei fare a meno di pensare. Quanto erano belle e non me ne sono mai accorto!
Preso da questi pensieri continuavo ad avanzare nella pioggia, nell’acqua che ora mi sciabordava gli stivali. Avanzavo come un robot, come avanza un carro armato in mezzo al fuoco di sbarramento nemico. Avanzavo sordo e ottuso, digrignando i denti e strizzando gli occhi ormai inutili in quella tenebra maledetta, con la forza della disperazione. Senza speranza. Senza attesa alcuna. Ma con una tenacia, una implacabile tenacia a me, fino ad allora, sconosciuta. Non avrei mai sospettato di possedere una tale forza di volontà. Mi chiesi da dove avessi preso tutte quelle energie. Ormai erano ore e ore che marciavo senza cibo né acqua, senza riposo, senza tregua. Avanzavo scalciando topi e bisce. Bestemmiando il nome di dio. Parlavo con me stesso. Mi dicevo: dio che non esisti, che non sei da nessuna parte di questo immenso indifferente universo, che te ne freghi di tutto e di tutti, di noi vermi che strisciamo sopra e sotto la terra. Ebbene, dio, io non ti pregherò neanche in punto di morte. Non avrai il piacere di cogliermi nella mia debolezza. Io ti bestemmierò fino alla fine, fino alla fine dei miei giorni. Sia maledetto il tuo nome fino alla fine dei miei giorni. Fino alla fine dei tempi. Amen.
Adesso, la pioggia è diventata un diluvio. Ormai non avverto nemmeno più il rumore assordante dell’acqua che cade dappertutto. L’acqua mi arriva alle ginocchia e procedo come un automa, con movimenti lenti e ritmati, con l’implacabile metodicità di un orologio. Non c’è niente altro tra me e l’universo che acqua e pareti argillose che si restringono impercettibilmente. Non ho mai avuto la mente così lucida. Non sono mai stato così determinato. In verità, non ho nulla da accudire: il mio futuro non esisteva già da un pezzo, il mio passato ha già cessato da un pezzo di esistere. Non avrei nulla per cui valesse la posta della mia conservazione in vita. Conservare me stesso. Perché. E per chi. Non v’è posta in palio, perché io non valgo nulla. La mia vita non è un valore né un disvalore. Ero un involucro vuoto prima e lo sono a maggior ragione adesso in questo stupido budello. Ma se non sto lottando per la mia autoconservazione, perché mai arringo con tutte le mie forze verso una luce che probabilmente non vedrò? Questo pensiero mi attraversa la mente come una lama di tortura. Ecco, ci sono arrivato: io lotto per niente! Non per il niente, che sarebbe pur qualcosa ma per niente! Ecco, quando appare il “niente” cessa di esistere anche l’essere. È come l’antimateria. Quando questa appare, scompare anche la materia. E ci troviamo soli, maledettamente soli. Siamo solo spirito nel tempo, spirito che passeggia, che sciaborda in questo lurido buco. In questa tana per topi.
Non è più un diluvio. È una lastra gelatinosa di acqua gelida che mi arriva al petto. Avverto una fortissima corrente che mi sospinge in avanti. Riesco a stento a tenermi in equilibrio. Tutto scorre. Tutto va alla malora. Acqua, terra, pioggia, spurgo, sputi di topi, escrementi di lombrichi, liquami di murene. Tutto corre nel vuoto e nel niente. Senza fisica. Senza metafisica. Senza orrore. Senza terrore. Una biscia tra le bisce. Topo tra topi. Oh, come bestemmiai il nome di dio! Nel modo più turpe e immondo. Con lazzi e frizzi. Sbeffeggiavo l’alto fattore che tutto può e nulla vuole. Ma io ora capivo, cominciavo a capire il senso di quella sua mancanza di volontà: era simile alla mia. La sua non voluntas era simile alla mia tenace ostinazione di andare fino in fondo, di conoscere l’abisso. E poi quello che c’è dopo l’abisso. E se davvero mi ci sono ficcato io in quel maledetto budello? Questo pensiero mi trafisse come una spada. Fu un sospetto atroce. Io, io, io! Ma che cos’è in fin dei conti quest’io? Nulla. Niente. Un buco vuoto pieno di acqua di spurgo. E che cos’è questo io che chiamiamo dio? Niente. Spurgo. Sputo. Sugo immondo. Finzioni di profeti e di scherani. Cosa sono le piramidi? Cos’è il Colosseo? Nulla. Niente. Ed io finirò nel nulla di questo fiume sotterraneo: il Lete dell’oblio…
L’acqua mi arriva alla gola. Avverto il suo orrido scrosciare sotto il mento. Percepisco il suo fetore nauseabondo. Respiro con immensa fatica ma procedo inarrestabile verso il nulla…
Sono completamente esausto. L’immenso sforzo mi ha spossato. Mi fermo qualche istante per recuperare le forze. Ho il corpo pieno di migliaia di aculei, come innumerevoli punture di spilli. È l’inizio dell’assideramento. L’acqua è talmente gelida… non avrei mai immaginato che sarei finito in un buco della notte con un principio di assideramento, abbandonato come un verme in un budello infernale…
Non mi resta che chiudere gli occhi e tuffarmi nella corrente. Fare il pieno di aria nei polmoni e abbandonarmi alla corrente e sperare nell’imponderabile… forse mi risveglierò alla luce, sputato da qualche parte dalla corrente, o forse come è più probabile, mi ritroverò nel nulla, rientrerò nel tutto da cui sono venuto, da cui siamo venuti e a cui dobbiamo tornare, volenti o nolenti… dopo il male e il bene… al di là del male e del bene…
Sono pronto…no, il mio non è un addio perché non c’è mai stato un buongiorno… la luce del mondo è così lontana come diecimila anni luce… non sono già più umano… come se fossi di un’altra galassia e ci dovessi ritornare… come quegli astronauti russi abbandonati nello spazio sidereo a ruotare attorno alla terra con il loro sputnik… senza senso… il senso del mondo è insensato… il senso del mondo è fuori dal mondo… ed io sto vicino al senso… ora posso dire di essere vicino al senso… in questa solitudine assoluta… senza spavento e senza terrore…
Ora, inspiro quanta più aria e mi immergo… sono nell’acqua gelida… e viaggio alla velocità della luce verso il buco nero di un budello infinito… dentro l’intestino della terra… non sento più le mie gambe… devono essersi quasi congelate… viaggio verso il grande freddo… non sento più la pesantezza della mia mente… tutto mi sembra così leggero… viaggio verso il buco nero… e non sono felice, né infelice… ho amato… ho tanto odiato… va bene così… va bene così… non sento più il pulsare delle mie tempie…non sento più la mia mente… non s…e…n…t
65° giorno
I PENSIERI DI MASSIMO: LA FERMATA NEL DESERTO
Avevo raggiunto quel gradiente dell’esistenza oltre il quale non resta più nulla, quel punto dopo il quale non c’è più futuro e dietro il quale rimane soltanto un cumulo di macerie fumanti al quale noi abitualmente diamo nome di «passato». In verità, questo punto, virtualmente, esiste soltanto in potenza, come possibilità estrema, di cui di solito gli esseri umani non faranno mai esperienza diretta nemmeno nel corso di un’intera esistenza. Quel punto non è più il punto della sospensione, e nemmeno della sospensione di tutte le cose ma è il punto del termine dopo il quale non resta altro che fare esperienza del vuoto, del niente. Ed è qualcosa di spaventoso che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico, ammesso che ne abbia uno, giacché in quella dimensione dell’esistenza cessano di avere senso le comuni distinzioni di bene e di male, di giusto e di ingiusto, perché tutto ciò è unicamente privo di senso. Avevo raggiunto, dunque, quel punto preciso dove non c’è più spazio per la disperazione, non c’è più spazio per l’attesa e non è possibile neanche fare il tentativo del ritorno, della nostalgia, nella misura in cui una volta che siamo giunti nel non-luogo, non è più possibile nemmeno immaginare che esista qualcosa che abbia nome “luogo” e che possa costituire un punto verso il quale ritornare o comunque dirigersi.
C’è un momento nel corso dell’esistenza che quando lo raggiungiamo ci accorgiamo che siamo in mezzo ad un deserto. Ovunque si volga lo sguardo non vedi altro che una distesa di sabbia marrone. Dune di sabbia fino al più lontano orizzonte. Ecco, questo significa che avete raggiunto il punto dove c’è soltanto il semaforo rosso che vi avverte che siete arrivati al non-luogo. E il semaforo segna sempre il rosso ovunque voi andiate: a destra, a sinistra, a nord o a sud. E non c’è nulla che possa strapparvi a quella condizione tranne un evento del tutto insperato o indesiderato: un terremoto, un uragano che vi faccia sprofondare negli abissi di un altro luogo così distante ed infernale che voi non avevate minimamente previsto o prefigurato. Una volta soltanto abbiamo avuto cognizione di un evento simile quando siamo stati cacciati fuori dal ventre materno e siamo usciti alla luce del sole belando come agnelli in preda al terrore. Qualcuno ci ha tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla placenta della nostra genitrice e siamo rimasti soli nel cuore della notte, in mezzo ad estranei che non abbiamo richiesto, non abbiamo scelto, ai quali abbiamo dovuto soggiacere costretti dalla nostra impotenza di neonati. Ma io ero un uomo adulto quando giunsi in quel punto che ho chiamato non-luogo, ero ancora nel pieno possesso di tutte le mie facoltà e della mia volontà, e l’uomo è una specie di macchina infernale che è capace di muovere tutte le cose, capace di sopravvivere nelle condizioni più avverse e capace di desiderare anche quando il desiderio è morto e non restano altro che le colonne d’Ercole del vuoto da esplorare.
Quando incontrai le sue gambe avvolte nella guaina delle calze a rete, accavallate come due magnifiche torri affusolate che dal ginocchio, piccolo e ossuto, si allungavano fin quasi sotto all’inguine, non ebbi la sensazione di aver incrociato la persona che avrebbe dato una svolta al mio destino, una svolta ed una scossa. Era superbamente bella. Nel suo sguardo lampeggiava un’aria altezzosa ed altera in cui riconobbi qualcosa che non riesco ad esprimere, che mi era familiare ed estraneo. Direi un fascino, una forza di attrazione che non mi saprei spiegare. Una forza gravitazionale, che è nelle cose più che nei nostri pensieri. Perché le cose accadono, le cose urgono, spingono… e il pensiero non può che seguirle.
Non ci fu tempo per riflettere che già la mia bocca si posava sulle sue labbra. Mi impastai dell’umore del suo rossetto viola e, mentre la baciavo, lei aprì gli occhi forse spaventati e voluttuosi. E vidi le sue pupille nere che si contraevano e si espandevano nelle iridi violette immerse nell’ombra. Fu un bacio lungo e tortuoso, tormentato e voluttuoso. Fu il nostro sigillo, il sigillo del nostro amore. In verità, ogni amore è riconoscibile dal proprio sigillo. Inequivocabile ed univoco. E il nostro sigillo fu il suo rossetto viola che si appiccicava alla mia bocca come una colla profumata. In seguito, per tanti anni fui perseguitato nel ricordo da quel rossetto viola e dalle sue labbra fredde che si aprivano lentamente. Non ho altri ricordi del nostro primo incontro se non che c’era una musica da ballo, le note risuonavano nell’ampio salone e lei che era seduta in un divano accanto alla finestra aperta sul gelo della sera mentre la pioggia tamburellava sulle mattonelle del giardino. Era come assente. Come se non ci fossi né io, né la poltrona nella quale eravamo sprofondati, né la finestra aperta, né la pioggia, né la chincaglieria della dimora borghese che ci ospitava. Mantenne quell’aria assente ed altera per tutta la serata mentre io la baciavo affannosamente, senza pronunciare una parola come se fosse una marziana o una venusiana catapultata per caso nel nostro pianeta in preda agli spasmi della decomposizione.
A quel tempo lei viveva, o meglio, sopravviveva, in una minuscola camera di uno squallido miniappartamento nei pressi della stazione Termini. Nell’armadio c’erano appesi i suoi abiti di scena, costumi erotici, scarpe dagli altissimi tacchi a spillo, stivali di tutti i colori che giungevano sopra il ginocchio, mantelline nere e violette, voilant, corsetti e corpetti traforati e trasparenti, minuscoli perizomi dal filo invisibile che terminavano in un triangolino della misura di un francobollo, cappellini con veletta, guanti di tutti i tipi e colori che giungevano fin sotto l’ascella. Una vera panoplia dell’eros.
Io la raggiungevo nel suo appartamentino ammobiliato ogni sera, prima dello spettacolo. Lei mi attendeva, in silenzio, non pronunciava mai una parola, avvolta nei veli dei suoi abiti di scena trasparenti e ci univamo in amplessi ora violenti e scomposti, ora dolci e languidi. Sorrideva d’un sorriso casto ed elitario, come se tutto il lerciume della sua esistenza non la riguardasse affatto. Aveva disciplinato il lerciume della sua esistenza mediante un rigorosissimo nitore, come una luce bianca che illuminava i movimenti del suo quotidiano. Cominciai a capire che non c’era nulla di strano nel suo modo di vivere. Con i piccoli occhi di lince alludeva ad un invito ad entrare nella sua alcova profumata. Almeno, così interpretavo il suo silenzio. A volte, abbozzava appena un accenno con la testa. Impercettibile. Talmente impercettibile che sovente mi chiedevo se in lei ci fosse del diniego o della accondiscendenza, e fino a che punto il cenno riflesso nei suoi occhi potesse essere interpretato nel significato di acquiescenza o di renitenza. Non ho mai compreso fino in fondo l’insondabile metessi di tutti questi retropensieri, non sono mai riuscito a sbrogliare fino in fondo il gomitolo dei suoi silenzi e delle sue reticenze. Ma forse tutto ciò non è importante. Non è determinante. Quello che era veramente importante può essere riassunto così: che la Ely stava con me, che ascoltava i miei silenzi mentre io ascoltavo i suoi. A quell’epoca ero portato a considerare che tutto ciò fosse un elemento inscindibile del suo essere nel mondo. In un certo senso, lei era così come io l’accoglievo. Lei era così come io la interpretavo. Ma poteva essere anche altrimenti. Sotto la coltre dei suoi silenzi e delle sue allusioni silenziose avrebbe potuto essere altrimenti. Avrebbe potuto rivelarsi un’altra donna.
Per lungo tempo presi a frequentare il suo miniappartamento ammobiliato di terz’ordine, la sera all’ora della cena. Portavo un cartoccio di supplì, crocchette, filetti di baccalà fritti, patate al forno dalla rosticceria sotto casa con del buon chianti e dei pasticcini. Poi facevamo all’amore. Amplessi silenziosi e fugaci. Poi, lei si vestiva ed io tornavo trafelato ai miei appunti di scrittura. All’epoca, stavo scrivendo un romanzo, niente di speciale, una serie di gialli con un commissario stanco e svogliato che invece di dare la caccia ai malviventi passava le notti a bere drink da un locale all’altro, passando dalle le braccia di una prostituta all’altra. Il commissario dormiva appena qualche ora, e la mattina, sempre stanco e distratto, andava in ufficio tra le scartoffie e i piedipiatti a giocare a guardia e ladri.
All’epoca, avevo anche pubblicato una decina di questi romanzi che avevano avuto un qualche successo di vendite e l’editore mi aveva fatto un contratto capestro con il quale mi teneva in pugno: dovevo sfornare un romanzo all’anno in cambio di pochi denari che mi permettevano di sopravvivere in qualche modo fumando pessime sigarette e mangiando un sobrio pasto al giorno in trattoria. Per i miei bisogni, era più che sufficiente. Vivevo di notte e dormivo di giorno. Il pomeriggio era dedicato alla scrittura. La mia esistenza viaggiava leggera e inafferrabile come un treno blindato. Non avrei dato una lira per tutto ciò che c’era fuori del mio vagone blindato. Vedevo il treno al quale era agganciato il mio vagone che correva trafelato nell’oscurità della notte del mondo ma non mi chiedevo dove mi stesse conducendo, quali deserti attraversasse. Non mi ponevo domande, ecco tutto. Lasciavo che tutto filasse convinto che in qualche modo, obtorto collo e barra a vista, prima o poi tutto tornasse a posto, magari nel posto sbagliato ma, in qualche modo, a posto.
Quando incrociai Ely ero sempre stanco e svagato; ero diventato un doppio del personaggio del commissario creato dalla tastiera del mio computer. Ero alla ricerca di sempre nuove emozioni, di nuovi ambienti e di nuovi personaggi da mettere nei romanzi.
Ely, sì, era un personaggio da romanzo. Di madre ucraina e di padre gitano era una nomade, una apolide. I suoi occhi di lince grigia la rivelavano per quello che realmente lei era, il taglio obliquo dei suoi occhi mi metteva una specie di inquietudine. Era una senza patria alla ricerca della propria identità. Ma quale identità? Mi chiedevo. Pensavo di mettere anche lei in qualcuna delle mie storie grigie e stereotipate. E veramente, a sua insaputa, ce la misi. Qua e là descrivevo la sua magnifica chioma bionda, il suo pube biondo e la sua biancheria intima, bionda anch’essa. Almeno così la ricordo in quell’altra vita che noi tutti abbiamo dimenticato. Ora per allora. Cominciai a ficcare Ely dentro i miei romanzi. In uno divenne l’amante del commissario, il quale si recava da lei per vederla passeggiare in perizoma e giarrettiere. Quando glielo dissi, con mia somma sorpresa, Ely rimase inperturbabile. Continuò a fissarmi per un po’ con quegli occhi di lince grigia come se mi odiasse.
Mi colpiva lo sguardo «assente» di Ely, il suo volto dove a lato della magnifica bocca carnosa, stazionavano due pieghe sottili che le davano un’aria di composta malinconia. Mi perdevo ad almanaccare intorno ai suoi occhi violetti e grigi, intorno all’ombra delle sue palpebre, quegli occhi che sembravano non guardare mai in nessuna direzione, quanto piuttosto in tutte contemporaneamente, come gli occhi di certi animali in trappola che sembrano irrigidirsi in una fissità immota ma in realtà guardano ovunque alla forsennata ricerca di una via di fuga. Anche lei, all’epoca, era alla ricerca di una via di fuga, senza riuscire a trovarla. La osservavo quando mi voltava le spalle (quelle spalle terribilmente fragili e belle che mi rendevano inquieto), nei brevi minuti dopo l’amplesso, mentre fumava una sigaretta, approfittando della sua momentanea distrazione. Rubavo furtivamente alle sue spalle dei spiragli di verità, soprattutto nei momenti in cui la Ely si vestiva in fretta e furia per recarsi al night dove doveva fare lo spettacolo. Io l’accompagnavo con il mio carcassone sgangherato, ponzando in tutte le buche delle strade male asfaltate di questa capitale di merda, ma lei sembrava non farci caso, non sussultava mai, mai una parola di sorpresa o di meraviglia o di intemperanza…
Per Ely il mondo filava liscio come un tavolo da biliardo mentre per me il mondo rotolava come un bidone della spazzatura. Insomma, mi ci trovavo a mio agio anche in quei frangenti con la Ely. E questo aspetto mi inquietava. Non è possibile – mi dicevo – che con la Ely ci sto bene come con nessun’altra. Mi ci arrovellavo….
Scaricavo la Ely davanti all’ingresso del night, lei faceva il suo numero: saliva su un tavolo e si spogliava nuda, oppure ballava sinuosa attorno ad un palo togliendosi gli indumenti ad uno ad uno. Rimasta nuda, scodinzolava di qua e di là, si sedeva sulle gambe degli avventori, cincischiava, saltellava sugli alti trampoli scuotendo le natiche e poi, sempre ondeggiando, ritornava al bancone del bar dove prendeva qualcosa da bere, scambiava qualche parola con i clienti, sorseggiava un drink, fumava qualche sigaretta, sorrideva con un sorriso annoiato e distratto. E poi di nuovo saliva su un altro tavolo, si scuoteva la pesante chioma bionda dalle fragili spalle, sbatteva le natiche, s’inchinava, s’infuriava e trotterellava sui tavoli, passando dall’uno all’altro, seguendo la musica trash… poi tornava da qualche avventore… e ricominciava daccapo.
Sì, devo ammettere che la Ely riscuoteva notevoli successi nell’ambiente per via del suo fisico esile e imponente, ma non solo, sarei tentato di affermare che era la sua particolare malinconia a renderla così avvenente agli occhi degli uomini; l’elegante architettura del suo volto, i movimenti felini che sembravano calcolati ed invece erano ingenui. Anche il suo modo di guardare il prossimo in maniera elusiva e sfuggente, con un lento movimento delle ciglia, riscuoteva grande successo presso il pubblico maschile.
Mi ero ficcato in testa che la Ely fosse un personaggio da romanzo e che io dovevo essere il suo romanziere. Idee quanto mai astruse ed inverosimili ma mi piaceva indugiare in quelle frivolezze.
Lasciavo Ely che faceva il suo lavoro nei night e me ne stavo dentro l’autoblindo a fumare pessime sigarette, una dopo l’altra. Ecco, se un effetto lo faceva su di me, questo era la moltiplicazione delle sigarette. Le fumavo una dietro l’altra, in macchina, fino a quando lei non tornava affaticata e trafelata, saltava dentro l’autobotte, io mettevo in moto e l’accompagnavo, a tutta velocità, presso un altro night. Lei balzava giù leggera come un aquilone sui tacchi a spillo e spariva all’interno. Io guardavo le lancette dell’orologio e fumavo altre sigarette. Una dietro l’altra, in silenzio.
- Ma caro perché non vieni anche tu a vedere lo spettacolo? – mi diceva con la sua vocina da cigno imbellettato. Ma io non ritenevo di doverle fornire una spiegazione, era piuttosto una domanda retorica a cui seguiva un silenzio retorico. Così passava la notte. Così, più o meno, passarono le notti, tutte le notti di quei mesi dell’inverno del 1999… Si chiudeva il sipario del millennio ed io la caracollavo su e giù per via Veneto e paraggi e lei saltellava senza perizoma sui tavoli dei clienti. In tutto ciò non c’era nulla di eroico, nulla di poetico, direi nulla di trasgressivo. Era la banale normalità del suo lavoro. Ely aveva un vitino spaventosamente esile sul quale si ergeva il solco concavo e profondo delle reni al di sotto delle quali emergevano dall’ombra le natiche alte e lunghe. Non c’era niente da fare. Gli uomini andavano in tilt al solo vederla seminuda. Paradossalmente, Ely vestita normalmente non avrebbe richiamato quasi l’attenzione maschile se non per i seni ridondanti, ma non appena si spogliava, la faccenda acquistava un’altra dimensione. Quello che non riuscivo a capire era come facesse la Ely a resistere in quella rumorosa solitudine che era la sua esistenza tutto quel tempo pur in mezzo alla esuberante ammirazione maschile. Il volto malinconico di Ely appariva irresistibilmente erotico, bastava uno schiocco delle sue dita e i maschi sarebbero accorsi a frotte alle sue caviglie, come tanti cagnolini. E invece niente. Di tanto in tanto, mi parlava dei suoi amori passati o dei suoi amanti consegnati all’oblio, erano appena accenni a cui non seguivano mai spiegazioni esaurienti, ed io presi ad indispettirmi di tale negligenza. Lo compresi in seguito: la sua non era negligenza né trascuratezza, si trattava di noia. Noia per tutti quegli uomini che si affaccendavano dietro i suoi tacchi a spillo, noia per la loro ingombrante rumorosità, noia per il loro portafogli, noia per le luci al neon dei night, per lo champagne servito dentro boccali di ghiaccio da camerieri in livrea, noia per le macchine sportive decappottabili e non, noia per tutto quel mondo fittizio fatto nel modo che tutti sappiamo e che non potrebbe essere diverso nemmeno se tutti lo volessimo. Ma davvero lo voglianmo? Dico un mondo diverso. Davvero lo vogliamo?
Forse Ely aveva scelto me perché ero fuori dal gioco. Ero un intellettuale, uno scrittore di seconda categoria, un perdigiorno. Ely sapeva che ero uno scrittore di mezza tacca, un poeta fallito, anzi, abortito. Sono convinto che non si sarebbe mai presa uno scrittore di successo, c’era in lei la recondita inclinazione a stare coi perdenti. E in questa faccenda io ero un vero asso, un vero perdente. Avevo fatto di tutto per essere un perdente. Mi ci ero messo d’impegno. Anche il personaggio centrale dei miei romanzi, il commissario De Luca, era un perdente, un defenestrato da un commissariato all’altro, trasferito dal Ministero per incapacità e scarso impegno. Tra me e il mio personaggio si era stabilita una segreta alleanza, una segreta, tacita corrispondenza, una affinità. Insomma, io mi ci riconoscevo nel mio personaggio, anche lui era un mediocre: non sapeva o non poteva vincere. Schiaffare in galera un malvivente non lo riempiva di gioia, diceva che per la legge dei vasi comunicanti e per l’equilibrio dell’ecosfera sociale ci volevano anche un bel po’ di delinquenti in libertà. Questa era la filosofia del mio commissario, nella quale in un certo qual modo mi riconoscevo. C’era stato un tempo in cui avevo creduto di essere un poeta, avevo anche scritto un libro di poesie. Ma erano mediocri, irrimediabilmente mediocri. E così ci avevo rinunciato e mi ero messo a scrivere gialli. Intanto, mi proponevo di scrivere un grande romanzo, il romanzo della mia vita, il romanzo del riscatto, ma lo posponevo per la fine dei miei giorni. Ma, in fin dei conti, riscatto di che cosa? Ero uno scrittore di gialli, punto e basta. Questo mi dava di che vivere, anche se ero sempre in bolletta. L’editore, quell’aguzzino, se ne approfittava, sapeva che ero in bolletta e mi dava gli anticipi col contagocce, tanto per non farmi morire di fame. Però c’era da pagare l’affitto del tugurio dove ero relegato, c’erano le bollette del gas e della luce, la ricarica del cellulare, le sigarette, le camicie sporche da portare in tintoria e da far stirare, il dentifricio da comprare.. e così, in mezzo a tutti questi rompicapo incrociai Ely, sottile come un pistillo e polputa come un gambero.
85° giorno
L’ESISTENZA SENZA DESTINO
- Tu vivi come una talpa, - mi diceva Ely con la sua voce afona ed agnostica.
- E tu vivi come uno struzzo, con la testa sempre sotto terra, - replicavo con il suo stesso tono neutrale.
Cominciavano così le nostre schermaglie, con degli appunti reciproci. Era il nostro modo di fare chiarezza. Il poeta Eugenio Montale in un famoso verso degli anni Trenta scrisse: “Tendono alla chiarità le cose oscure”. Ecco, diciamo che le nostre cose oscure, le cose da cui provenivamo, in un certo senso si dirigevano verso la chiarità. Questo per un po’, fin quando durò il nostro amore. Ovvero, una eterna temporaneità. ovvero, 248 giorni. All’improvviso, tutto precipitò. Dapprima lentamente, poi velocemente, sempre più velocemente…
- Tu vivi come una talpa, sotto terra, mentre fuori risplende il sole e cinguettano gli uccellini, – incalzava Ely con la sua voce esile e sottile.
- Ma per la talpa va bene così. Il punto di vista della talpa è diverso da quello degli uccelli. Non mi interessano gli uccellini, non mi interessa il sole, – rispondevo stizzito.
- Sì, ma c’è il sole, ci sono gli uccellini e tutto il resto. Questo tu lo disconosci, – insisteva Ely.
- Non sono un ministeriale, non sono un impiegato del catasto, – rispondevo ironico e stizzito perché il discorso si ripeteva per l’ennesima volta con le medesime noiose modalità.
- Tu vivi dentro un buco, e da quel buco non uscirai più, – tambureggiava la Ely con la tenacia di cui sono capaci soltanto le donne.
- Beh, nel buco almeno non c’è l’aria fritta che si respira di fuori, – replicavo senza convinzione tanto per tappare il vuoto della mia coscienza.
- Per quanto tempo ancora resterai nel buco? – insisteva con tenacia la mia amante che appariva sempre più bella con la sua aria corrucciata.
- Per tutto il tempo che riterrò opportuno, – rispondeva senza passione una voce che era in me.
A quel punto dei nostri discorsi inevitabilmente mi rifugiavo nella filosofia. Mentre la Ely accavallava le gambe inguainate negli autoreggenti e fumava le Astor con filtro sbuffandomi il fumo in faccia. Io ero contrariato quando dovevo rifugiarmi nella filosofia. Però, aspettavo di vederla alzarsi e passeggiare mollemente in perizoma mentre dondolava lentamente i fianchi…
- Vedi, cara, il tuo perizoma mi riconcilia con il mondo. Il resto non ha importanza. Tutto il resto può anche scomparire… – solevo interloquire tanto per rompere il ghiaccio dei nostri silenzi.
- Non mi sembra una asserzione granché originale, – mi interrompeva subito Ely la quale tentava di rimettere il discorso sul giusto binario.
- Ti prego, Ely, non pretendere da me frasi originali. Sono corrivo, scontato, uno scrittore di terza categoria. – Tentavo in questo modo di scantonare ed evitare di dare delle risposte sensate.
- Tu non sei né corrivo né scontato, e tantomeno uno scrittore di terza categoria, – replicava Ely convinta sempre di più di quello che diceva.
- Ti sbagli… – ribadivo io altrettanto convinto.
- Solo che giochi a nasconderti. Continui a fare il gioco a nascondino che facevi da bambino.
- È perché sono convinto che soltanto nascondendoci, noi siamo. Dobbiamo stare nell’ombra per esistere. – Tentavo di smarcarmi dalla morsa delle sue domande buttandola in filosofia.
- Allora, l’ombra è necessaria più della luce? – mi chiedeva Ely con aria trasognata.
- Sì, l’ombra ci è indispensabile. Pensa tu se dovessimo vivere tutto il giorno alla luce dei neon! – sì, gettavo là questi filosofemi per liberarmi della sua marcatura.
- È per questo che ti interesso? Perché vivo nelle ore notturne?
- Sì,
- Uhm…
- Vedi, cara Ely – cercavo di prenderla un po’ alla lontana – fai conto che noi viviamo dentro un Leviatano dentro il quale mettiamo tutto alla rinfusa: società, civiltà, epoca, gli occhiali, i nostri stracci ovvero tutto ciò che lega e divide gli uomini tra di loro. E poi agitiamo il tutto. Credi tu che questa cosa sia una faccenda seria?
- È il nostro mondo, non possiamo cambiarlo, non credi? – mi rispondeva Ely con inguaribile ingenua sfiducia.
- E tu perché credi che mi sia ridotto a scrivere romanzi gialli? – le chiedevo a volte in preda ai miei rarissimi momenti di autenticità.
- Non lo so. Dimmelo tu.
- Credi veramente che la scrittura possa cambiare il mondo? Credi veramente che si possa scrivere altro? Nel migliore dei casi puoi scrivere alla Moravia: dei gialli psicologici. Tutto il resto sono sfoghi personali di intellettuali solitari ed elitari. – Cercavo di spiegare alla Ely le ragioni di fondo della mia scrittura. Ma non c’era niente da fare. Ogni volta la Ely tornava alla carica come se non avessi mai parlato.
- E tu non sei un intellettuale elitario?
- No. Cara Ely, non sono un elitario. In realtà, scrivo degli antiromanzi. – Tentavo ancora una volta di buttarla in caciara, cioè in filosofia.
- Che cosa significa? – replicava Ely con inguaribile tenacia.
- Significa che oggi, nelle condizioni dello stivale, è becero scrivere dei romanzi con un eroe positivo, –replicavo con una insolita convinzione che non mi riconoscevo.
- E va bene, non vuoi scrivere alla Moravia, scrivi almeno come gli scrittori di successo! – gridava la Ely.
Era questo il rovello fisso di Ely. Lo capivo, era comprensibile. Era comprensibile il suo punto di vista ma non potevo assolutamente condividerlo.
- Il successo di vendite o il successo di critica? – tentavo invano di cambiare registro con una divagazione.
- Scegli tu.
- No, sei tu che devi dirmelo.
- Facciamo… il successo di vendite.
- Credi tu che io scriva per il successo di vendite o il successo letterario?
- Lasciamo ai posteri il successo letterario.
- Resta il successo commerciale.
- E ti pare poco?
- Il fatto è che non mi interessa.
- E allora, perché scrivi?
- Scrivo per mangiare.
- Vuoi dire: per sopravvivere.
- Esattamente, per sopravvivere e nient’altro.
- Ma tu hai la stoffa per scrivere romanzi di successo!
- In che modo?
- Fai del tuo commissario un eroe positivo!
Devo dire che quando i nostri dialoghi giungevano a questo punto, mi prendeva una impalpabile tenerezza per l’inguaribile ingenuità di Ely. Lei credeva ancora che fosse possibile scrivere romanzi per il successo! Credeva che ci fosse una formula segreta che io intenzionalmente nascondevo da qualche parte per impedirmi di raggiungere la celebrità e i quattrini.
- Il mio commissario è un intellettuale isolato, cosa vuoi che gliene freghi ad un intellettuale isolato di salvare il mondo. O meglio: una piccola, piccolissima fettina del mondo! – rispondevo con aria desolata.
Dapprincipio, tentavo di spiegare ad Ely le ragioni per cui non si possono più scrivere romanzi con eroe positivo, romanzi a tesi o romanzi etici o qualsiasi altra diavoleria con valore positivo. Cercavo inutilmente di trovare le parole adatte.
- Vedi – tentavo di spiegarle – se ne facessi un eroe positivo del mio commissario compierei un reato estetico, un vero atto di falsità ideologica! non posso, capisci, scrivere una sciocchezza del genere!
- Ma insomma, che te ne importa! fagli acchiappare qualche ladro, qualche assassino, magari per sbaglio, così farai contento il pubblico e l’editore che così ti pagherà di più…
Al mio silenzio imbarazzato la Ely si alzava ondeggiando mollemente sui fianchi, si andava a fare un caffè, poi tornava svagata e distratta con una sigaretta in bocca e mi diceva:
- Dai, non fare lo schizzinoso, fai una bella storia con tanto di mafiosi in gattabuia!
- Ma non è una questione di elitarismo… Ely… è che non ci riesco… non ci riuscirei nemmeno sotto tortura!
- E allora?
- Allora, è che non voglio dare al lettore quel che il lettore si attende, lo capisci? – rispondevo stizzito.
- Sei un bel tipo, tu! È come se io pretendessi di farmi pagare dall’impresario senza fare lo spogliarello! - Senti Ely, cerca di ragionare… io sono uno scrittore non una spogliarellista, lo capisci?
- Certo che lo capisco!
- Allora capisci che io non posso esaudire le richieste del lettore?
- Ma perché?
- Perché verrei meno al patto che ho fatto con me stesso!
- Quale patto?
- Quello di non gabbare il lettore, lo capisci?
- No che non lo capisco! e non lo voglio capire! tu dici che non vuoi gabbare il lettore: è per questo che le tue storie non piacciono, le tue storie sono storie di scacchi e di sconfitte. Le sconfitte del commissario sono sconfitte anche nostre, il lettore sente che sono anche le sue sconfitte.
- Bene, vedo che finalmente hai capito, – tentavo di rispondere tagliando corto.
- Ma è come se io mi rifiutassi di spogliarmi sul palco! Il pubblico chiede che io mi spogli, paga il biglietto perché io mi spogli, e se non mi spoglio lui si sente fregato e non torna più al locale. E se non torna più al locale, sai che fine faccio?
- Che fine fai?
- Vado a fare la commessa in un grande magazzino!
- Spogliarti è una tua scelta.
- No, mio caro, spogliarmi è una necessità.
Ely aveva il dono di farmi riflettere sulla mia situazione. Non amavo riflettere, non amavo stare a cogitare sugli esiti ultimi della mia scrittura. Erano alcuni anni che avevo smesso di usare il pensiero, andavo avanti a tentoni, in una sorta di stato sonnambolico. In un certo senso, riconoscevo che c’era in Ely una parte di ragione, ma lei non riusciva proprio a capire il mio punto di vista. Ma lei era lì, bella e malinconica come un giglio. E questo mi era sufficiente.
Poi Ely riprendeva l’interrogatorio come un martello pneumatico.
- Il segreto del successo è molto semplice: dai al pubblico quello che il pubblico chiede. – Diceva Ely riprendendo il fuoco di artiglieria.
Ely batteva sempre sullo stesso tasto. In un certo senso la trovavo perfino divertente.
- Vuoi dire: dai al pubblico quel che il pubblico vuole? – riprendevo a sparare dalla mia postazione fissa.
- Sì, esattamente. Dai al pubblico quel che il pubblico vuole. – Ripeteva la Ely con inguaribile tenacia.
Era il solito ritornello. Che la Ely ripeteva a memoria come un martello pneumatico. Per il principio secondo cui cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia, Ely ritornava sempre sui medesimi punti, con una percussione monotona e monocorde. Alla fine, cominciai a trovare la cosa perfino divertente. In realtà ero terribilmente annoiato.
- Vuoi che faccia del mio commissario un vincente? – replicavo fingendo un momento di resa.
- Sì, crea un eroe positivo e così guadagnerai più lettori. – Diceva Ely con quella sicurezza che la rendeva ancora più amabile e avvenente.
- Devo fare come Camilleri con il suo eroe positivo, il commissario Montalbano, che sbroglia tutte le matasse più intricate?
- Come fanno tutti gli scrittori di romanzi gialli!
- Ma io non sono uno scrittore di romanzi gialli, Ely. Faccio soltanto finta di scrivere romanzi gialli.
- E allora cosa sei?
- Sono uno scrittore di seconda categoria, scrivo i gialli di un perdente. E questo è il miglior modo di essere contemporaneo.
- Ma che cosa significa «essere contemporaneo»? me lo dici? – mi chiedeva la Ely con un’aria spaventosamente ingenua.
- Essere contemporaneo significa esattamente essere contemporaneo, – rispondevo laconico più per evitare un vero confronto che per tentare di spiegarmi.
- E allora non farai mai un romanzo di successo! – replicava Ely.
- Ma non capisci che non voglio essere uno scrittore di successo? – ribadivo senza convinzione.
- No, non lo capisco, – replicava Ely con il volto adirato.
- Bene, lo capisco io. – Rispondevo pacato e annoiato.
- Questo non è il modo migliore per risolvere la questione.
- Non capisci che non posso scrivere un romanzo di successo, Ely?
- E perché?
- Perché nel successo non c’è stile, mia cara.
- Ne fai una questione di stile?
- Sì, mettiamola così, ne faccio una questione di stile.
- Con lo stile non si risolvono le questioni di quattrini.
- Ebbene, mettiamola in un altro modo. Tu avresti potuto fare la ballerina classica. Avresti avuto successo, saresti stata una celebrità. Perché non l’hai fatto?
- Perché le cose sono andate così.
- Così come?
- Sono andate come sono andate.
- Allora, anche tu sei una perdente.
- No, non è vero. Non mi andava di studiare danza classica, richiedeva molto tempo e molta dedizione, che io non avevo. Ma per te è diverso. Avresti tutte le capacità per scrivere romanzi di successo.
- Per carità
- Perché per carità?
- Sì, forse avrei le capacità, ma non voglio.
- E perché?
- Sarebbe troppo facile. Non mi interessano le cose facili.
- E cosa ti interessa, una vita sempre in bolletta? Sempre ad inseguire l’editore che ti tiene alla fame?
- Questa è un’altra faccenda. I miei rapporti con l’editore sono rapporti commerciali.
- Puoi andare avanti così: caffè e sigarette, per quanto ancora, un anno, due anni, dieci anni?
- La questione del tempo è un’altra faccenda ancora.
Di solito, a questo punto delle nostre discussioni, la questione da astratta diventava concreta e si passava alle accuse reciproche. Guardavo ancora con speranza la massa dei suoi capelli biondi.
- Lasciamo stare la letteratura, parliamo di te, – mi incalzava Ely con la solita voce afona.
- Allora, rivoltiamo la frittata: e tu perché fai la ballerina? Non c’è un altro modo per guadagnarti da vivere? – tentavo una via di fuga dal terribile interrogatorio.
- Sì, c’è un altro modo, ma è faticoso, – rispondeva Ely con la solita voce afona.
- Esatto, anche per me ci sarebbe un altro modo, ma è faticoso, – replicavo distratto e sibillino.
- È per questo che stiamo insieme?
- Sì, in un certo modo siamo speculari.
- Ed essere speculari significa andare d’accordo?
- Essere speculari significa che per un certo tempo possiamo viaggiare in parallelo.
- E poi?
- Non c’è un poi, si vive un eterno presente.
- È questa la tua tesi filosofica?
- Non è una tesi filosofica, è la mia impostazione di vita.
- Con questa impostazione di vita andrai dritto all’inferno.
- Sia come sia.
- Sia come sia.
Così terminavano a quel tempo le nostre discussioni, con una specie di armistizio. Con una tregua e senza una soluzione. A quel tempo, la mia esistenza scorreva quietamente perché non contemplava la possibilità di una soluzione. Anche l’esistenza di Ely correva come dentro un imbuto, senza la possibilità di alcuna via di scampo. Ma lei non si accorgeva che stava correndo dentro l’imbuto. Correvamo tutti e due dentro due binari che credevamo paralleli senza sapere dove quegli attrezzi ci conducessero. Correvamo dentro due imbuti. Proprio come in un romanzo, ciascuno dei due personaggi accusava l’altro del proprio fallimento. Ma il nostro non era un fallimento, era l’attesa del fallimento. Ciascuno di noi due era troppo impegnato a procrastinare il momento della resa dei conti. Mi guardavo allo specchio e vedevo la mia esistenza riflessa nello specchio come un’esistenza priva di destino. Anche la Ely evitava di guardarsi allo specchio, forse per evitare di riconoscere nello specchio l’assenza di destino che era riflesso nel suo volto.
*
In un capitolo di uno dei miei gialli, ad un certo punto delle indagini il commissario De Luca capita davanti al mare della Trinacria. C’è una spiaggia deserta e un uomo con la barba bianca che gli arriva al petto attrae l’attenzione del commissario. L’uomo si immerge nel mare fino alla cintola, riempie un secchio di acqua, se lo issa sulle spalle e tenta di portarlo sulla spiaggia. Ma il secchio è senza fondo e perde tutta l’acqua prima che lui raggiunga la spiaggia. Incuriosito, il commissario De Luca si avvicina al vecchio e gli dice: – maestro, non riuscirete mai a travasare il mare! – ma quello resta imperturbabile come se non lo avesse sentito affatto, non accenna la minima risposta e continua la sua inutile fatica di Sisifo…
- Sai cosa penso? – chiede la voce sottile di Ely.
- Che cos’è che pensi? – replica la voce rauca di Massimo.
- Mi chiedo perché mai il tuo commissario non abbia una donna.
- Ti sbagli, nel mio terzo romanzo c’è una donna.
- Sì, ma è una via di mezzo tra un’amante clandestina e una libertina.
- È vero, la donna del commissario non può non essere che un’amante clandestina.
- Ma il tuo commissario non ama gli incontri fortuiti.
- È vero, non li ama.
- Non ama gli amplessi fugaci.
- Non è il tipo.
- Non ama le donne facili, e tantomeno quelle difficili. Direi che non ama l’avventura, l’imprevisto, l’irregolare… in fin dei conti, sta bene con la sua amante clandestina…
- Purché non sia la sua amante esclusiva.
- Purché non sia la sua amante esclusiva. L’hai detto. Lei deve avere altri amanti che poi gestisce in modo burocratico: uno il martedì, l’altro il venerdì e la domenica a riposo…
- Tutto ciò è riprovevole?
- Tutto ciò è spregevole.
- È spregevole avere amanti?
- È spregevole la gestione burocratica degli amanti.
- E tu invece come li gestisci i tuoi amanti?
- Io non li gestisco affatto.
- Non li gestisci affatto?
- Lascio che siano i miei amanti a gestirmi.
- Preferisci l’irresponsabilità?
- Mettila come vuoi… io sono io… e tu sei tu…
- Preferisci che siano i tuoi amanti ad avere libero accesso al tuo letto?
- Preferisco far entrare nel mio letto chi voglio… lo decido sempre io… ricorda.
- E rimproveri al mio commissario di non saper gestire i suoi incontri clandestini?
- Io non gli rimprovero nulla.
- Non gli rimproveri nulla?
- Il tuo commissario è un burocrate e, in quanto tale, preferisce gli incontri clandestini… senza responsabilità… senza destino…
- Oh, sì, il rumore è già un destino!
- Il nostro destino è di perire in un rumore sempre più assurdo e incomprensibile…
- Il destino non è altro che rumore, Ely.
- Vuoi dire che destino e rumore sono sinonimi?
- Esatto.
- Ti sbagli.
- E quando finirà il rumore finirà il destino.
- È per questo che il tuo commissario passa tutta la giornata nel commissariato a fare niente?
- Il commissario De Luca non ama il rumore insulso delle parole ma non ama neanche il silenzio… in verità, non ama né il rumore né il silenzio… direi che non è un mistico e non è un poeta.
- Torniamo all’amante del tuo commissario.
- Cosa ci trovi di interessante?
- Lui va da lei il martedì e il sabato. Prende il caffè, fuma le sue sigarette, le MS con filtro, e poi ci finisce a letto. Poi si riveste, fuma un’altra MS e se ne va. In tutto questo frangente lui dice in tutto cinque parole: “buongiorno, buonasera, come stai, sei bella, sei troia”. Non ti sembra un po’ eccessivo? Chi è veramente il commissario De Luca e perché ha smesso di parlare?
- Non sta a me dire chi è il commissario De Luca.
- Oh, bella questa!
- È il lettore che deve scoprirlo.
- Allora, è il lettore il vero detective?
- Esatto, il vero commissario è il lettore. Solo che lui non lo sa. È sempre il lettore che vorrebbe scoprire il delitto e mettere il delinquente in gattabuia… ma io non lo seguo fino a questo punto, non sono disposto ad esaudire le sue richieste.
- E chi compie il delitto?
- È sempre il lettore che compie il delitto.
- O almeno vorrebbe compierlo.
- O almeno vorrebbe compierlo.
- Quindi, è il lettore il vero rebus.
- Diciamo che qui sta il punto.
- Ecco perché il tuo commissario non parla… non vuole avere contatti con il lettore… non vuole avere a che fare con quello spione.
- Diciamo che ha preso le distanze, che ha preso le distanze da tutto.
- E qui si chiude la partita?
- E qui si chiude la partita.
- Massimo, che cos’è per te il «rumore del silenzio?».
- Il silenzio non fa rumore.
- Il destino ha un rumore?
- Il destino, sì, ha un rumore.
- Che cosa intendi per «silenzio»?
- Quello che metto dentro i miei romanzi.
- Vuoi dire che i tuoi romanzi sono fatti di silenzio?
- Sì.
- Massimo, perché scrivi gialli se ti annoia scriverli?
-Perché sono annoiato, non riuscirei a fare altro che scrivere gialli. Il lettore ti segue: vuole scoprire il colpevole, far luce sul delitto. È una cosa da bigotti. Sono annoiato perché il lettore si annoia. Il romanzo, a pensarci bene, è stato il miglior prodotto della noia.
- Che cosa vuoi dire?
- Voglio dire che senza la noia non scriveremmo gialli e neanche li leggeremmo.
- Che cos’è la noia?
- Perché mi fai queste domande, Ely?, lo sai, non mi va di fare il filosofo.
- Anche il filosofo si annoia?
- Sì,
- E il tuo filosofo ha smesso di filosofare?
- Sì, credo di sì.
- Scrivi dei gialli… tu dici che sono scritti di terza categoria, va bene, lo ammetto, forse lo sono… ma puoi metterci delle cose dentro i gialli.
- La letteratura non è una scienza, parla per metafore e per metafora. La letteratura non può spiegare il reale.
- la scienza si spiega con la scienza.
- Vedi, Ely, diciamo che lo spazio è fatto solo di spazio, il tempo solo di tempo, i sentimenti solo di sentimenti, gli errori solo di errori, e così via… ma non è vero, le cose non stanno così.
- No, Massimo, non è vero. Tu sei uno scrittore, devi spiegare le cose, adoperare le parole per spiegare le cose; il silenzio non è mai chiaro. È la cosa più oscura che ci sia. Puoi essere morto. Il silenzio non chiarisce, moltiplica solo le ipotesi. Il silenzio usato per dire qualcosa è stupido vile crudele. Non si deve mai, mai – capito? – mai rispondere al silenzio con il silenzio.
120° giorno
NUDE ANIME DIALOGANO SOLITARIE CON NUDI DESTINI
C’erano dei giorni di pioggia fitta ed intermittente che noi passavamo sdraiati a letto guardando la pioggia sbattere contro i vetri della finestra della camera da letto. Ascoltavamo il tintinnio irregolare della pioggia. Monotono e continuo. A volte, Ely si alzava dal letto, ondeggiando il corpo dai movimenti felini per andare alla toilette a ripassarsi il fard sul viso e si accendeva una sigaretta. Io guardavo il fumo azzurro che si sollevava in cerchi concentrici. Ed Ely mi interrogava per capire da quale pozzo senza fondo provenissi.
- Senti, Massimo, ti è mai capitato di pensare al passato?
- Che cosa vuoi dire?
- Voglio dire: ti sei mai chiesto, pensando al passato, perché hai fatto quelle tali cose e non altre?
- Certo, Ely… non c’è nulla di strano in questa domanda. Chiunque ripensa al proprio passato.
- Ebbene, e a che conclusione sei giunto?
- A nessuna.
- Vuoi dire che la domanda è priva di senso?
- Voglio dire che la domanda non è pertinente. È pleonastica.
- Perché pleonastica?
- Pleonastica perché ciò che è stato nel passato tenderà inevitabilmente a ripetersi nel futuro.
- Ti è mai capitato di chiederti: “ma ero proprio io colui che ha fatto quelle cose, ero io o un altro?”
- È una domanda retorica. E quindi pleonastica. E a ogni domanda retorica non vi può essere che una risposta retorica. E di questo passo non giungeremo mai ad alcuna conclusione. Guardando indietro ci sarà sempre possibile individuare un punto in cui potevamo agire diversamente… ma non l’abbiamo fatto… e così via, all’infinito…
- Ma quel punto, quel clinamen nel quale avremmo potuto agire diversamente, è esistito realmente o si tratta soltanto di una illusione ottica?
- Quel punto non è mai esistito, Ely. È soltanto una illusione ottica. Ciò che è stato non può essere revocato in dubbio, né modificato…
- Ciò che è stato. Appunto…
*
Avevo finalmente finito di scrivere il quinto romanzo giallo che aveva per protagonista il commissario De Luca. Si trattava di un noioso e pedissequo inseguimento tra l’assassino e il commissario. Nella sostanza, dopo una molteplicità di azioni ed agnizioni, il risultato finale fu che il commissario raccoglie soltanto una serie di indizi e nessuna prova, così che alla fine, dinanzi alla richiesta del pubblico ministero di raccogliere nuove e più sicure prove, il commissario è costretto a rimettere in libertà l’arrestato. Uno scacco, dunque. L’ennesimo scacco del commissario De Luca. Presi lo scartafaccio e lo portai di corsa all’editore che lo aspettava da un pezzo, visto che avevo accumulato un ritardo di alcune settimane. Quando gli chiesi il saldo per tutti gli anticipi ricevuti, mi sentii rispondere che non mi doveva nulla in quanto, a conti fatti, sommando gli anticipi, mi aveva dato più di quanto contemplasse il contratto capestro che quello strozzino mi aveva fatto sottoscrivere. Stavo per uscire di senno e scaraventargli in faccia la scrivania. Probabilmente, lo strozzino se ne avvide perché subito tentò di rabbonirmi.
- Bene, facciamo così. Per venirti incontro, facciamo che se entro sei mesi mi consegni un nuova storia con dentro il commissario che risolve il caso, diciamo… che lo risolve definitivamente… e senza altri trasferimenti ministeriali per incapacità o svogliatezza del nostro eroe… diciamo… che avrai un anticipo. Diciamo… un anticipo aumentato del dieci per cento.
- Facciamo del trenta per cento, – replicai senza riflettere.
- Facciamo del venti e chiudiamo la questione, – si lasciò sfuggire l’editore.
Detto fatto. Non me lo feci ripetere due volte. Firmai il nuovo contratto, firmai la ricevuta e intascai i soldi appena in tempo per non dovermene pentire. Lo strozzino mi aveva fottuto. Stavo per voltarmi e gettargli in faccia quel mazzetto di banconote. Ma questi sono i gesti che si fanno nei romanzi, non nella vita reale. Così, me ne tornai da Ely con il portafogli gonfio.
Nella vita reale sapete come ci si comporta? Si va in una gioielleria, si sceglie l’anello più bello e costoso, si tirano fuori i soldi, si paga, si mettono le banconote nuove e fragranti sul bancone e si fila via.
E fu esattamente quello che feci. Portai il minuscolo plico infiocchettato alla Ely che nel frattempo si stava rifacendo il trucco. Lei lo aprì ed emise un lungo gridolino di gioia, come quello delle gazze quando avvistano un succoso bocconcino. E così, la presi con rabbia sul divano del soggiorno. Uno scrittore di terz’ordine in un appartamento ammobiliato di terz’ordine – pensai – con la sua damigella.
E fu subito sera.
*
Quella volta provai la stessa sensazione di vergogna come quando scrivevo poesie. Come se fossi sotto gli effetti del rimorso di coscienza. Che cos’è un rimorso di coscienza? Qualcosa che non sappiamo ci morde dal di dentro e noi fuggiamo. Quel qualcosa ci morde di nuovo. E noi continuiamo la fuga. E poi ancora e ancora. E di nuovo la fuga. Ecco, io avevo impegnato tutti i soldi dello strozzino per un anello, il più costoso. Ma perché? Per conquistarla. E così ero rimasto al verde. E allora dovevo rimettere mano al nuovo romanzo. Dovevo ricominciare a lavorare. E così, mi misi al lavoro. Tornai automaticamente al mio computer, lo fissavo per ore con le dita posate sulla tastiera. Ma la pagina rimaneva bianca. Mi accendevo una sigaretta… Presi a fumare rabbiosamente. E poi di nuovo un’altra sigaretta… E così via… una sera dopo l’altra, una sera dopo l’altra. Ma la pagina rimaneva bianca.
- Ely, ti prego continua a passeggiare in perizoma… – mormoravo in tono querulo.
Ed Ely, sempre il silenzio, continuava a passeggiare in perizoma mentre si rifaceva il trucco, si passava e ripassava la matita sulle labbra mentre io pensavo al prossimo romanzo…
- Ely, ti prego continua a passeggiare in perizoma… lo sai che mi dai delle sensazioni…
Ed Ely, sempre in silenzio, continuava a passeggiare in perizoma sui tacchi a spillo mentre metteva la macchinetta del caffè sul fuoco o preparava qualcosa da mettere sotto i denti mentre io ripetevo il solito ritornello.
- Ely, ti prego, passeggia, passeggia… – mormoravo in preda ad un’improvvisa angoscia.
Mentre io fumavo al computer, spegnevo i mozziconi nel posacenere giallo ed Ely fumava alla macchina del caffè e la stanza diventava una camera a gas tutta gialla e tutto mi sembrava confuso ed incerto, anche la nostra esistenza mi appariva confusa ed incerta come se all’improvviso la Ely potesse assottigliarsi e scomparire, così come era intervenuta nella mia disordinata esistenza, dissolversi… ed io stesso, per riflesso dovessi dissolvermi… assottigliarmi e cessare di esistere…
- Sono la tua musa, – mi diceva la Ely mentre passeggiava in autoreggenti e si toglieva il perizoma.
- Sì, tu sei la mia musa… la mia splendida ed unica musa, – replicavo distratto e affaccendato, seduto al computer, appresso al mio eterno ennesimo romanzo giallo che non veniva…
*
- Cos’è questa cosa? – dissi ad Ely tirando fuori dalla tasca della giacca di tweed una minuscola pistola a tamburo, a sei colpi, molto femminile, col manico di madreperla – l’ho trovata nell’armadio, sepolta sotto un cumulo di vestiti… Che significa, Ely?
- Significa nulla. Una pistola è una pistola. – Rispose Ely come se le avessi mostrato un coccodrillo.
*
Dunque, c’era una pistola a tamburo nella vita di Ely. Una minuscola pistola a tamburo col manico di madreperla. Che cosa ci doveva fare con un’arma del genere la Ely? Che cosa significava tutto ciò?
Queste domande mi attraversarono le tempie per qualche tempo. Mi ci arrovellai per un po’, ma alla fine dimenticai perfino l’esistenza di quel piccolo congegno di metallo nero.
135° giorno
COSÌ, SENZA UN APPARENTE PERCHÉ
Così, senza un apparente perché o per come, un giorno ho cominciato a chiedermi: «se morissi adesso non ci sarebbe nessuno in nessuna parte del mondo che piangerebbe la mia morte o sentirebbe la mia mancanza. C’è solo la Ely. Non ho nessuno al mondo. I miei genitori sono morti quando ero ancora un ragazzo. E poi ho avuto una sorella, che non vedo da almeno venti anni, e non so neanche in quale parte del mondo si trovi adesso e che cosa fa, se si è sposata, se ha dei figli o se è morta per disperazione in qualche tugurio o in qualche stanza d’albergo ad ore».
Sì, ho un ricordo di mia sorella a sedici anni: era bellissima, talmente bella che gli uomini si affollavano addosso a lei come mosche sulla carta moschicida. Ma lei non sapeva di essere bella. Non sapeva spiegarsi il perché di tutte quelle attenzioni maschili. Non ho molti ricordi di mia sorella, anzi, non ne ho affatto. La ricordo che saliva a bordo di certe macchine lussuose, guidate da uomini brizzolati e incravattati. All’epoca ero un operaio-studente. Studiavo per diventare scrittore. Che idea ridicola! La mattina al cantiere e il pomeriggio sui libri. Sì, lo so, a dirlo oggi susciterei le risa del pubblico ma a quell’epoca credevo ancora alle favole, credevo di poter diventare uno scrittore, intendo uno scrittore di romanzi veri, profondi e non le medie idiozie che si pubblicano oggi. Non ho molti ricordi di quell’epoca grigia, anzi, quei pochi che avevo li ho cancellati dalla memoria. Ho cancellato accuratamente dalla mia memoria quei ricordi scomodi, i ricordi di quel ragazzo che sognava di diventare uno scrittore di romanzi. Adesso, quasi me ne vergogno. Così, nella mia mente c’è uno spazio bianco che si apre per alcuni anni della mia esistenza e si richiude dieci anni dopo. Fu in quel torno di tempo, all’incirca, verso i trentacinque anni che, tornando a casa trovai un biglietto di mia sorella più o meno di questo tenore: «Caro Massimo, ti volevo informare che parto per Londra con un mio amico. Ti farò avere mie notizie. Addio. Laura».
Così, rimasi il solo abitante della casa dei miei genitori. Quella casa divenne ben presto la mia prigione: era troppo grande per me, per i miei bisogni mi sarebbero stati sufficienti pochi metri quadrati. Avevo bisogno di pochi libri, pochi vestiti, poche camicie. Soltanto per le cravatte avevo un certo debole, ne avevo a iosa, se ne potevano incontrare di tutti i tipi e di tutti i colori in qualsiasi parte dell’appartamento, gettati alla rinfusa sopra le sedie, in bagno, sopra il telefono... Sì, dei sogni giovanili mi erano rimaste soltanto le cravatte colorate. All’epoca dello spazio bianco venne ad aggiungersi l’epoca dello spazio grigio: non facevo altro che battere, dalla mattina alla sera, su quella maledetta Olivetti 22 le storie dei gialli dell’ispettore De Luca per passarli a quella carogna dell’editore.
Era già qualche anno che provavo una forte sensazione di essere «fuori». Di non appartenere più realmente al genere della gente comune che viaggia, mangia, beve e fa all’amore, prova passioni e dolore. Mi sentivo come qualcosa più simile ad un oggetto in acrilico che non ad una persona in carne ed ossa: non provavo più da tempo immemorabile né passioni né odio. Non mi percepivo come un partecipante del consorzio umano, quanto un voyeur, un osservatore delle vicende umane. Ero diventato un essere perfettamente neutrale. Per me era perfettamente naturale passare intere settimane senza che conversassi con alcuno, avevo preso l’abitudine di passare le serate in compagnia di una buona bottiglia di whisky, sprofondato in poltrona a fumare pessime sigarette.
Non saprei dire da quanti anni ho vissuto in quella sorta di terra di nessuno, in quella dimensione neutra e come sospesa tra un di più e un di meno di realtà, quando incrociai le bellissime gambe di Ely.
Credevo davvero di essere diventato neutro nei confronti del sesso. E invece, Ely mi risvegliò all’improvviso.
Quello strano dolore al centro del petto e quella sensazione di strana euforia che abita il nostro cervello che noi comunemente chiamiamo amore, era l’amore. Un senso di caldo costante e di appetito che mi inseguiva dappertutto…
145° giorno IL VOLO DI ICARO
Improvvisamente, iniziai a domandarmi chi fosse Ely. Strano, per tutto quel tempo non me lo ero mai chiesto. Erano trascorsi 145 giorni da quando l’avevo vista per la prima volta e soltanto adesso mi chiedevo chi fosse veramente Ely, chi si celasse dietro la maschera del suo volto. Accade spesso che ci facciamo le domande più ovvie con molto ritardo rispetto a quando ce le saremmo dovute porre. E così, io cominciai a chiedermi chi fosse veramente Ely, e che cosa ci stavo a fare accanto a lei, e come ero venuto ad abitare sotto lo stesso tetto e condividere con lei la vita quotidiana. Come era avvenuto che io sbarcassi a casa di Ely? E perché? Che cosa mi aveva spinto nella sua alcova, e poi dentro la sua vita? Mi ci ero conficcato come un chiodo, con tutta la forza della mia inesistente volontà. Ed ora mi trovavo stretto tra le pareti domestiche della sua intimità. Soltanto ora avevo iniziato a prenderne coscienza, ora che vedevo il suo magnifico corpo infilato in un baby doll che le arrivava all’inguine ciondolare di qua e di là per le stanze del suo appartamento affaccendato in incombenze che trovavo del tutto astruse come passarsi il rossetto alle labbra, strofinarsi il fard sul viso, ridisegnare la linea degli occhi con matite sempre nuove. Mi affascinava la scoperta della sua femminilità. E pensare che avevo vissuto come un lupo solitario durante gli ultimi dieci anni della mia vita. Avevo scoperto il fascino della femminilità e tutto il mondo mi sembrava completamente nuovo e astruso. Mentre il suo corpo trascorreva da un armadio all’altro, da un’anta aperta all’altra, da uno specchio all’altro io presi a contemplare la sua immagine fragile e sensuale oscillare altera e come assente. Ormai mi ero disabituato a condividere la mia quotidianità con una donna. Avevo vissuto per tanti anni senza una donna fissa che il concetto di una compagna mi era diventato del tutto estraneo. Credevo di essere diventato una specie di orso bruno, un po’ rustico e dai bisogni elementari. Tuttavia, ero andato a vivere con lei sotto lo stesso tetto e nello stesso letto. La scorgevo nell’intimità e la contemplavo mentre seduta alla toeletta si ripassava il fard sul viso e si rifaceva il trucco con una svariata quantità di matite. Non riuscivo a comprendere cosa ci facessero tutte quelle matite sulla sua toilette, non riuscivo a comprendere tutti quei perizomi che abbandonava per le stanze come una cometa abbandona la propria scia luminosa: erano tracce del suo esserci, tracce del suo passaggio, erano la prova inconfutabile che lei era lì accanto a me, aveva accettato di condividere con me la sua esistenza, abbandonava i suoi indumenti intimi per le stanze così come io lasciavo frammenti di dialoghi dei miei romanzi su foglietti volanti posati in ogni dove. Talvolta, accadeva che perdessi alcuni di quei foglietti volanti così che, con mio scorno, dovevo ricominciare a scriverli daccapo. Era la sua trasandatezza che contagiava la mia confusione, e le due cose si sommavano e si mescolavano fino a lasciarmi sfinito ed sfibrato: non sapevo mai dove avevo lasciato l’ultimo foglietto da trascrivere al computer, perdevo sistematicamente il filo della vicenda che stavo narrando, e la cosa mi irritava alquanto. Diventavo sempre più irritabile e intrattabile.
A volte, andavo in dispensa per masticare qualcosa. Aprivo il frigorifero ma non c’era nulla da mangiare, allora scendevo al bar sotto casa a deglutire un sandwich. Ely viveva di aria fritta: mangiava un’insalata e stava bene per tutto il giorno. Anche il suo rapporto col cibo mi doveva mettere sull’avviso: lei era fatta di aria, sottile e trasparente non aveva bisogno del cibo, viveva come un trapezista che deve camminare sul filo. Diventava sempre più sottile ed io l’amavo sempre di più, d’un amore sconsiderato, scriteriato, scellerato.
In fin dei conti, io chi sono? Mi domandavo. Nient’altro che uno scellerato scrittore di romanzi gialli, che vive di quei scartafacci perché è un nullafacente e non saprebbe come sbarcare il lunario con un lavoro stabile ed impegnativo. Non avrei mai trovato la forza e la disciplina per imbarcarmi in un lavoro stabile. Un’attività borghese sarebbe stata per me la morte civile. E allora ero condannato a scrivere romanzi gialli per tutta la vita, fino alla fine dei miei giorni? La risposta che mi davo era: sì, avrei dovuto continuare a scrivere pessimi romanzi gialli fino alla fine dei miei giorni, sempre in bolletta, a fumare pessime sigarette, sempre ad inseguire il prossimo romanzo con il terrore della pagina bianca davanti agli occhi.
Ci sono dei momenti nei quali, improvvisamente, vedi con chiarezza la tua vita che si apre davanti agli occhi. Per fortuna, ai comuni mortali accade molto di rado, anzi quasi mai, e questo è un bene, anzi, un’autentica fortuna, così si può tirare avanti con la certezza dell’incertezza, un po’ a tentoni e a vista, vivendo giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. Ecco, io a quell’epoca avevo la netta sensazione della precarietà della mia esistenza futura, anzi, ne ebbi la completa certezza, e questo pensiero finì per stroncarmi le residue forze, così che dovetti ciondolare per alcune settimane per casa, trascinandomi da una stanza all’altra, diviso tra la pagina bianca del computer e le pareti bigie dell’abitazione di Ely. Ah, un particolare: non c’erano quadri nel suo appartamento, sostituiti da una moltitudine di specchi di tutte le forme, con bizzarre cornici barocche e rococò. Spesso, uno specchio era contenuto in un altro più grande, così che la mia immagine riflessa risultava duplicata e decuplicata. Guardarmi in tutti quegli specchi mi era diventato faticoso, intollerabile. La mia faccia non mi è mai piaciuta, non ho mai avuto un buon rapporto con il mio volto, e vedermi così decuplicato in immagini diffratte e distanti mi dava un senso di noia e di nausea. Non avevo più la forza di mettere una parola dietro l’altra. Scrivere era diventato per me una vera fatica di Sisifo: emergevo dal nulla della mia esistenza, mi trascinavo davanti alla pagina bianca, stavo fermo, immobile per ore davanti alla schermata bianca del computer, poi lo spegnevo e mi trascinavo per le strade assolate della capitale che detesto e dove ho avuto la ventura di vivere, o meglio, di sopravvivere in qualche modo.
La mia vita mancava di un centro. Per qualche tempo mi ero illuso che ciò non fosse importante, che si potesse fare a meno di vivere con un centro. Ho vissuto per tutta la vita in una perenne periferia e alla periferia di me stesso. Chi sostiene che per conoscere se stesso occorra dimorare nella solitudine dell’io, dice una grande banalità. È vero esattamente il contrario. Se vuoi conoscere te stesso devi alloggiare nella superficie della periferia. Nei primi tempi mi illusi che il mio centro fosse Ely: ruotavo attorno a Ely come la terra gira attorno al sole. Ma io non ero la terra ed Ely non era il sole. Era pura illusione ottica. Io ed Ely eravamo due estranei che si amavano, si inseguivano. E nient’altro.
Vivevo senza il senso del tempo, vivevo soltanto in uno stato di perenne attesa: non avevo un progetto per il futuro, né l’avevo mai posseduto e tantomeno concepito. Mi era sempre stata estranea l’idea di un progetto per il futuro. Ho sempre aborrito avere un futuro. Nella normale vita di relazione, anche la coniugazione dei verbi al futuro mi riusciva ostico. Il mio futuro trascorreva immediatamente nel passato come la sabbia della clessidra che passa in un attimo nell’imbuto sottostante. La mia esistenza passava così, da un imbuto all’altro attraverso la minuscola cruna del presente, senza drammi e senza ambasce. Ely invece viveva senza passato: il futuro precipitava immediatamente nel passato senza sostare nel presente nemmeno per un attimo; tutto precipitava senza drammi e senza rumore in silenziosa inesplicabilità. Se il mondo si fosse fermato, la Ely non se ne sarebbe neanche accorta. Possedeva il medesimo torpore del felino, gli stessi movimenti lenti e felpati, quasi che presentisse un pericolo e dovesse farvi fronte con tutte le facoltà della sua mente apparentemente dormiente. Aveva la stessa imperiale sensualità di un felino di razza. Stava immobile per ore davanti allo specchio a ripassarsi il fard sul viso o a rifarsi le labbra con la matita, rigorosamente nuda o con indosso un corsetto leggero e trasparente, in un silenzio inesplicabile. La sua bellezza egiziana mi inquietava. Mi inquietavano i suoi lunghi e minuscoli occhi di lince. Ma io non sapevo nulla della sua vita passata, non sapevo nulla dei suoi precedenti amanti. Chi era veramente Ely? Chi l’aveva posseduta? Chi l’aveva mantenuta? Iniziai a farle delle domande sottili e subdole, lasciate cadere lì quasi per caso come faceva il commissario De Luca nei miei romanzi di terza categoria. Fu così che appresi che da bambina aveva fatto la trapezista in un circo, anch’esso di terza categoria, e che sia suo padre che sua madre erano stati anch’essi trapezisti, che avevano girato il mondo facendo piroette sul trapezio, sul medesimo trapezio. Finché un giorno…
- Perché non me l’hai detto prima che i tuoi genitori erano trapezisti?
- Non credevo che la cosa ti potesse interessare.
- Certo che la cosa mi interessa.
- E allora perché non me l’hai mai chiesto?
- Non te l’ho chiesto perché aspettavo che fossi tu a dirmelo.
- E perché mai avrei dovuto essere io a dirtelo?
- Per il semplice fatto che stiamo insieme, Ely!
- Perché, vivere insieme comporta parlare del proprio passato?
- Vivere insieme non comporta un bel nulla.
- Appunto.
- Appunto, i tuoi genitori erano quindi trapezisti. E dimmi: si erano conosciuti al circo?
- È un interrogatorio di terzo grado?
- In un certo senso, sì. Ma ti prego, rispondimi.
- Sì, si erano conosciuti, diciamo, sul luogo di lavoro.
- E si sono amati?
- Sì, credo di sì… il loro è stato un grande amore.
- E poi?
- Perché mi fai tutte queste domande?
- È semplice, perché voglio delle risposte.
- E credi che le mie risposte possano aiutare il commissario nelle sue investigazioni?
- Lascia stare il commissario De Luca, quelle sono storie da romanzi gialli, è la tua vita che mi interessa.
- La mia vita?
- Non la narrazione della tua vita.
- E che differenza c’è?
- Narrare la vita significa già tradirla.
- E quindi?
- Voglio sapere cos’è accaduto.
- Vuoi dei fatti?
- Sì, voglio dei fatti senza commento.
- Fatti realmente accaduti?
- Esclusivamente il nudo accadimento.
- C’è un risarcimento per ogni accadimento?
- Non c’è mai risarcimento. Ogni accadimento comporta un conto corrente con delle entrate e delle uscite.
- Cominciamo dal conto delle uscite?
- Cominciamo.
- Ma non c’è un inizio.
- C’è sempre un inizio.
- Devo risalire ai miei bisnonni?
- Non c’è bisogno di risalire ai tuoi bisnonni, devi soltanto rispondere alle mie domande.
- E va bene: risponderò alle tue domande.
A questo punto delle nostre conversazioni la Ely si accomodava in poltrona con aria annoiata, accavallava le gambe chilometriche, si accendeva una Astor con filtro, se la metteva nel bocchino e cominciava ad aspirarla dolcemente come se fosse l’ultima boccata di ossigeno in una camera a gas.
- Tu ti comporti come il commissario De Luca, fai le domande come se ti attendessi delle risposte, ed è chiaro che non verrai mai a capo del rebus…
- E tu ti comporti come uno dei miei personaggi che fanno finta di rispondere ma non dicono veramente nulla di significativo.
- È per questo che il tuo commissario fallisce sempre nelle sue indagini?
- Il mio commissario non fallisce mai. Si vede che non leggi attentamente i miei romanzi.
- Il tuo commissario fallisce sempre. È in attesa del fallimento che, sempre, infallibilmente, verrà.
- Dipende da ciò che si intende per fallimento.
- E tu come lo intendi?
- Un’indagine non chiusa non è un fallimento.
- È come rinviare ad un futuro incerto una determinazione che nel presente non avviene.
- Non è detto che le mie domande attendano veramente delle risposte.
- E allora, a che scopo fai delle domande se non ti aspetti una risposta?
- Il mio commissario fa le indagini, fa delle domande come se attendesse veramente delle risposte, ma sa benissimo che quelle domande rimarranno sempre senza una risposta. Fa delle domande non perché si aspetti delle risposte, fa delle domande e basta.
- Fa delle domande perché deve riempire dei fascicoli?
- Te l’ho detto, fa delle domande perché sa che gli indiziati daranno sempre delle risposte elusive.
- E tu ti aspetti da me delle risposte elusive?
- Sì, è nell’ordine delle cose.
- Ma alla fine chi uscirà sconfitto, il tuo commissario o gli indiziati?
- Il commissario De Luca sa che in ogni caso tutti usciranno sconfitti, non tanto dalle sue indagini, ma dal teatro del mondo, quello sì ben più importante.
- Allora, anch’io uscirò sconfitta dal teatro del mondo?
- Sì, in un certo senso credo che anche tu uscirai sconfitta dal teatro del mondo.
- Ma non ti rendi conto che parli come un personaggio da romanzo?
- E tu, non ti rendi conto che ti comporti come un personaggio di un mio romanzo?
- Un romanzo senza qualità, vero?
- Un romanzo rigorosamente senza qualità.
- Con un protagonista rigorosamente senza qualità, vero?
- Sempre, rigorosamente, il personaggio centrale deve essere senza qualità.
- È per questo che mi hai scelta?
- Sì, forse è per questo che ti ho scelta.
- Per fare la protagonista di un romanzo senza qualità?
- Esatto.
- Il romanzo di una vita senza qualità?
- Il romanzo di una vita senza qualità.
- Mi sembra un bel complimento. Davvero, un gran bel complimento.
- Ma è anche terribilmente banale.
- Sono davvero così banale?
- Sì, sei davvero spaventosamente banale.
- Continua, non mi offendo.
- Così banale da apparirmi seducente. Seducente in quanto misteriosa.
- E che cos’è per te il mistero?
- Ciò che è inesplicabile.
- Ed io sono inesplicabile?
- Tu sei assolutamente inesplicabile. È questo il tuo fascino.
- Come una sfinge egiziana?
Questi strani colloqui tra di noi erano interrotti, improvvisamente, dallo scatto felino di Ely che sollevava la massa dorata dei suoi capelli con un movimento calcolato delle braccia sottili. Mi affascinava il silenzio inesplicabile dei suoi capelli, il suo profilo inquietante quando alzava il mento con un moto di stizza. Allora, capivo che era il momento di proseguire l’inquisizione.
- Quando hai cominciato a salire sul trapezio?
- A dodici anni.
- E tua madre?
- A dieci anni era già sul trapezio.
- E tuo padre?
- Su per giù alla stessa età.
- Che età aveva tua madre quando cadde?
- Trentacinque.
- E tuo padre?
- Trentasette.
- Chi era tua madre?
- Era una donna bellissima.
- E tuo padre?
- Era bellissimo. Aveva passato tutta la vita nel circo. Non sapeva nulla del mondo di fuori, tutto il suo mondo era il circo
- Non sapeva nulla del mondo?
- No, la sua vita era sul trapezio.
- Forse sapeva tutto e voleva dimenticare…
- Forse sapeva già tutto.
- Per questo ti ha impedito di salire prima sul trapezio?
- Mi diceva che ero ancora una bambina.
- E cosa univa i tuoi genitori?
- Il loro mondo era il circo. Ciò che c’era al di fuori non era importante… nel circo c’era già tutto.
- Ma il circo è una metafora del mondo.
- Loro erano in alto, volteggiavano nel cielo leggeri come farfalle e io li guardavo estasiata.
- Il cielo stellato del circo, vuoi dire…
- Loro volavano ed io li guardavo estasiata.
- Volevi diventare come loro?
- Per tutta la mia infanzia non ho desiderato altro che poterli raggiungere sul trapezio, volteggiare nell’aria insieme a loro. Essere liberi e leggeri…
- E invece?
- E invece… nulla.
- Che significa nulla.
- Nulla significa nulla.
- Nel tuo nulla c’è qualcosa che non vuoi dirmi?
- Nel mio nulla c’è il nulla.
- E così, un giorno…
- E così, un giorno… dopo un triplo salto mortale… le mani di mio padre non afferrarono i polsi di mia madre… e lei precipitò fuori della rete…
- … -
- Ricordo soltanto i capelli dorati a coda di cavallo di mia madre che cadeva nel vuoto… il grido di terrore del pubblico… e mio padre che continuava a dondolare con i piedi attaccati al trapezio, a testa in giù…
- Mia madre entrò subito in coma irreversibile… e mio padre la seguì ben presto… andava a bere nelle osterie tutte le notti… finché una notte non tornò più. Nel rapporto della polizia c’è scritto che, ubriaco com’era, cadde nel fiume…
- … -
- Ricordo soltanto la coda di cavallo dei suoi capelli… precipitare… come una cometa…
*
Ely è nuda ed è seduta alla toeletta. Si pettina i capelli davanti allo specchio. Io sono alle sue spalle. Fumo nervosamente una MS ma non sono inquieto, anzi avverto una calma straordinaria, come quando hai la certezza che da un momento all’altro, al di là della finestra, si scatenerà la tempesta.
- Sei felice? – chiedo alla Ely con voce afona e grigia.
- La felicità? È una parola grossa. Mi ci devo abituare. E tu? – mi risponde la Ely con voce trasparente.
- L’ho cancellata dal mio vocabolario. – ripeto con voce afona e grigia.
- Anch’io l’ho cancellata dal mio vocabolario.
- È per questo che stai con me?
- No, con te sto nel limbo. Né dentro né fuori.
- Tu ami stare nel limbo, non sapresti vivere in un inferno o in un paradiso.
- Sì, forse è vero…
- Vuoi vivere in una situazione di sospensione, dove sia possibile poter scivolare di qua o di là, nel buio o nella luce.
- Ma questo non avviene mai.
- Sì, è vero. Non avviene mai.
Le nostre conversazioni si chiudevano sempre così: con un sostanziale pareggio. Con una sospensione. Lei scuoteva la massa dorata dei capelli e io riprendevo a fumare e a fare con la bocca cerchi grigi nell’aria. Poi, all’improvviso riprendevo l’indagine.
- Bene, continuiamo la nostra conversazione. Come sei capitata nel porno?
- Da dove devo cominciare?
- Da dove ti pare.
- Avevo terminato gli studi in filosofia ed ero disoccupata.
- E poi?
- E poi ho incontrato mio marito, Nick Sabato. Faceva il batterista in un complesso.
- E poi?
- È stato un colpo di fulmine.
- Che significa colpo di fulmine?
- Ci siamo innamorati subito e mi sono sposata. Ecco tutto.
- E lui faceva il batterista?
- Lui faceva il batterista ma guadagnava poco.
- E allora?
- Abbiamo cominciato a fare debiti. Per sopravvivere. C’era l’affitto della casa, i mobili, i viaggi, i vestiti…
- E allora?
- Lui mi ha proposto di girare qualche film porno. Tanto per coprire i debiti. Sempre in coppia, sempre soltanto noi due.
- E come è andata?
- Sono arrivati i soldi. Tanti soldi. In modo inatteso e insperato. Un vero successo.
- Nulla quaestio.
- Poi il produttore mi ha proposto di girare altri film con attori del porno, con dei professionisti. Diceva che bisognava continuare sull’onda del successo…
- Ma ormai avevate i soldi…
- Sì, ma non bastavano mai. E poi c’erano i viaggi, i vestiti, le serate mondane…
- Capisco.
- Ho girato una trentina di film con tutti i principali attori del porno. È stato un grande successo di cassetta. I miei film giravano in tutto il mondo. Anzi, girano ancora. Ma io ero sempre più triste. Non c’era via di uscita. Dopo un film bisognava fare il prossimo… bisognava inseguire l’onda del successo…
- E qual era il segreto del successo?
- Il regista diceva che avevo una dolcezza e una femminilità irresistibile… e allo stesso tempo il pubblico sentiva che avrei potuto demolire un muro a colpi d’ascia.
- Un mix di femminilità e protagonismo…
- Femminilità e maschilità.
- Una femminilità felina.
- Sì, una specie di miscela esplosiva. I miei film andavano a ruba. Specialmente quelli dove impersonavo il ruolo della poliziotta.
- Facevi la poliziotta?
- Sì, in una delle serie più fortunate io ero la poliziotta che seviziava i delinquenti arrestati.
- Poveri delinquenti!
- Non potevo più fermarmi, mi offrivano ogni volta un mucchio di soldi. Sempre di più, sempre di più…
- Una bella storia davvero… una storia dei nostri tempi.
- Ti prego, non fare dell’ironia, non ce n’è bisogno.
- E tuo marito?
- Cominciò a diventare geloso, follemente geloso.
- Geloso dei tuoi film?
- Geloso del successo che avevo con i miei partner maschili, con il pubblico maschile, del mio successo…
- Ma era lui che l’aveva voluto.
- Non immaginava in quale buco si era cacciato.
- Quale buco?
- Ora poteva vedere gli altri uomini possedermi, come mi univo a loro in amplessi feroci.
- Vuoi dire che non era preparato?
- Lui pensava di essere preparato, ma poi non è riuscito a sostenere il peso di tutti quei maschi che mi prendevano…
- E come è andata a finire?
- Niente, ci siamo lasciati. Non faceva altro che bere…
- A ventotto anni ero l’attrice più pagata del porno.
- Uhm…
- Dicevano che avevo un volto intellettuale… la cosa tirava il pubblico maschile… una volta che hai finito di girare una scena, non vali più niente. Sei una donna da gettare nella pattumiera.
- E poi?
- A ventotto anni ero già separata.
- E poi?
- E poi ho smesso. Avevo cominciato per necessità. Non volevo più farmi toccare da un uomo che non fosse quello che amavo.
- È una bella storia.
- Potrei fare un film della mia storia.
- Una bella storia non equivale a una storia bella.
- Sono cose diametralmente diverse.
- Che tu fossi un personaggio da romanzo lo avevo intuito.
- Un personaggio da romanzo esistenziale.
- Esistenziale?
- Sì, la mia era una lotta contro tutto e tutti, contro i cliché, la morale e l’antimorale, una lotta contro l’immoralità.
- Cos’era per te il porno?
- Era la verità, o meglio, l’altra faccia della verità.
- Il porno come storiografia inconscia del consorzio umano?
- Il porno come lo intendo io era la scoperta dell’altra me stessa…
- Della tua parte dissoluta?
- Della mia parte più vera.
- Cosa intendi?
- Della parte più intima, quella parte che non sarebbe mai venuta alla luce senza il porno.
- Una specie di teatro della crudeltà?
- La crudeltà era senz’altro la motivazione inconscia del mio personaggio.
- Insomma, il tuo personaggio era più vero di te.
- Proprio così.
- E questo cambiava le cose?
- Questo cambiò i rapporti con mio marito.
- In che senso?
- Ogni film era uno scandalo. Scrivevo la sceneggiatura con lui.
- E allora?
- Lui a un certo punto capì che qualcosa non andava, che i conti non tornavano.
- In che senso?
- Io ero anche l’altra. Anzi, il mio vero io era quell’altra. Non mi riconoscevo più.
- Vuoi dire che avevi smesso di recitare?
- No, fino a quel momento non ero cosciente che tutta la mia vita era stata una recita.
- E una volta che ne hai preso coscienza?
- Una volta che ne presi coscienza, anche lui se ne accorse: io non ero più la stessa persona di prima.
- Mentre lui era rimasto quello di prima?
- Sì, lui cominciò a non accettare più la mia “assenza”.
- Bene, ora veniamo al punto. Che cos’era questa “assenza”?
- Soltanto se ero assente mi sentivo a posto.
- E quando hai cominciato ad essere “assente”?
- Fu allora che avvertii i primi sintomi dell’assenza. Prima durante e dopo le riprese di ogni film dovevo essere l’altra me stessa. Cessavo di essere io e diventavo l’altra me stessa.
- E tuo marito?
- Dapprima non lo capiva. Poi intuì qualcosa.
- Fu allora che cominciò a bere?
- Sì.
- E tu che facevi?
- Non lo so, non ricordo. Ero sempre più assente… passavo lunghi periodi di latenza quando dovevo passare all’altro personaggio, quando dovevo diventare l’altra me stessa.
- E lui non ha resistito.
- È scappato con i miei soldi e se n’è andato a New York… non ne ho saputo più nulla…
- Una storia dei nostri tempi.
- Una storia maledetta… ma ormai era tardi per tornare indietro e ho voltato pagina. Lasciai il porno e mi sono messa a fare lo spogliarello. Cominciai a girare per i locali della città. Questa è la mia storia. Tutto qui.
- Una storia come un’altra.
- Una storia come un’altra.
*
Adesso capisco. Adesso comprendo il perché dei suoi movimenti lenti e felpati, come un felino che stia per balzare in alto, nell’aria. Ma il salto non avviene. Non è mai avvenuto e mai avverrà. Ora capisco come tutta l’esistenza di Ely non sia stata altro che un continuo periclitare e precipitare da un’altezza insondabile, dall’altezza delle altezze. In un certo senso, in senso metaforico lei continua a fare la trapezista. In realtà, la caduta è già avvenuta. Una volta e per sempre, e non si potrà mai più ripetere. Ely è caduta, e per sempre da quando ha visto la coda di cavallo dei capelli di sua madre che precipita, precipita sempre più in basso… fino all’urto frontale con il pavimento. Ely ha già visto tutto. Sa già tutto. Tutto il resto è il nulla. Credo che per lei tutto il resto non abbia più consistenza dei personaggi dei miei pessimi romanzi. Nella accezione più vasta e alta del termine, io per lei rappresento il demiurgo che ha potere di vita e di morte sui propri personaggi. Nelle profondità delle tenebre della sua incoscienza io rappresento il demiurgo dai poteri insondabili che può ridare la vita alla chioma di cavallo di sua madre. Purtroppo, ciò che vale per l’inconscio non vale per la coscienza. Ma ciò non ha la minima importanza: per l’inconscio di Ely io sono colui che può ridare la vita alla coda di cavallo della madre. Ely sa benissimo che le leggi della fisica e della metafisica non consentono a chi è passato nel regno dei morti di tornare a nuova vita; ciononostante, il suo inconscio lo crede fermamente e non c’è ragione sufficiente che valga la confutazione di questa convinzione. Il complesso di Icaro determinerà per sempre le scelte di vita di Ely senza che lei ne abbia in qualche modo cognizione o consapevolezza. In una certa misura, e nei limiti della sua “assenza”, Ely mi ama. Ha bisogno di me. O meglio, la sua coscienza vigile e allerta vede in me lo scrittore che non vale un’acca, che scrive pessimi romanzi gialli; il suo inconscio vede in me uno scrittore di qualità che ha scelto di scrivere romanzi di terz’ordine. Io per lei sono il demiurgo che può ridare la vita alla madre, pur se una vita larvale e umbratile come quella di un personaggio da romanzo. Ora, io so di avere un potere su Ely, un potere gigantesco che non sapevo né sospettavo di avere. Ma so anche che qualora mettessi in un mio romanzo il personaggio della trapezista bionda che oscilla sul trapezio, mi macchierei del reato più ignobile del codice morale non scritto da nessuno ma pervicacemente in vigore: il reato della resurrezione di un morto, tanto più deplorevole in quanto si tratterebbe di una resurrezione fittizia, del tutto aleatoria e fittizia. Questo pensiero mi avvelena, risuona nella mia testa come il rullo di un tamburo. Sempre più insistente, sempre più insistente.
Ely per me rappresenta un angelo, un angelo caduto per qualche insondabile motivo dal cielo. Caduto su questa terra ma che conserva ancora, misteriosamente, qualche barlume di quella vita scintillante che, presumibilmente, avviene nell’empireo. Non mi sarei mai potuto innamorare che di un angelo non caduto, di un angelo, diciamo, nel pieno possesso delle sue facoltà celestiali, dunque, borghesi, o meglio, antiborghesi. La sua esistenza incarna tutti i valori antiborghesi. Ely per me rappresenta l’“assenza”, una cosa misteriosa, qualcosa che è sfuggito alla omologazione dei valori borghesi. Ely è un angelo caduto che non sa di esserlo perché non ricorda nulla di ciò che è avvenuto tanto tempo fa, prima della caduta Nella misura in cui non ricorda, Ely appare ai miei occhi tanto più desiderabile e adorabile. Non la detesto... perché non posso detestare chi è caduto, irrimediabilmente e irrevocabilmente e per sempre.
Per quanto mi riguarda, dell’ordine dei valori borghesi nei quali ho la ventura di dimorare, apprezzo, come i miei colleghi che abitano il mondo delle cose salde, il valore universale della banconota. Quanto al resto, credo che una civiltà in decomposizione sia una civiltà a diritto dispiegato. Là dove il diritto si arresta dinanzi alla mia persona, là ha inizio la civiltà. Dunque, reputo mio compito arrestare e far arretrare, se possibile, l’invadenza del diritto universale delle genti. Ma questo è filosofia. Filosofia negativa. O meglio, filosofia del negativo.
*
Ely è diventa sempre più solitaria e silenziosa. Si guarda per ore allo specchio e mi lancia di tanto in tanto un sorriso enigmatico. Non posso fare a meno di pensare che sto dentro un carcere, un carcere dorato ma pur sempre un carcere. La sua bellezza dorata è il nume che mi soggioga e mi sovrasta.
- Il poeta russo Brodskij scrive che “il carcere è in sostanza limitazione di spazio compensata da eccesso di tempo”.
Ho parlato senza convinzione. Ho buttato lì quella frase perché mi era venuta in mente per caso, all’improvviso, ma senza finalità, senza uno scopo.
- Ognuno ha il carcere che ha scelto, - mi risponde una voce lontana ed estranea.
- E tu hai scelto il tuo carcere? – replico in tono irreale.
- Sì, in un certo senso sì, - mi risponde la solita voce lontana ed estranea.
- È un alloggio confortevole?
- Sì, a secondo dei punti di vista, è confortevole.
- Ma ce ne sono di migliori.
- Sì, anche questo è vero, ma io preferisco questo che abiti anche tu.
- Lo preferisci?
- Sì, perché ci vivo come se fossi perennemente in pericolo.
- Ed è una sensazione esaltante?
- Diciamo che è una sensazione esaltante. Non mi annoio.
- Ed io invece provo una grande noia.
- Uhm…
- Tranne quando vedo il tuo corpo e i tuoi capelli che ondeggiano…
Segue un lungo silenzio durante il quale misuriamo i nostri reciproci movimenti. Lei è rivolta verso un grande specchio che sormonta una toeletta. È nuda e si sta truccando gli occhi. Mi mostra le spalle seducenti e scattanti, le braccia sottili e nervose. I polsi affusolati continuano insensibilmente nelle mani bianche dalle lunghe dita sottili che si posano su una corona di capelli biondi. Inavvertitamente, mi alzo dalla poltrona e giro intorno alle sue spalle guardando il soffitto e fumando una MS con filtro. – Come sei bella, – mormoro. Siamo come due animali in trappola. La finestra non ha le sbarre, ma non possiamo egualmente uscire. Siamo due condannati costretti ad abitare una medesima cella.
Il mio sguardo si posa sul suo collo mentre Ely si scrolla il volume dei capelli. È diafano, con la nuca tenera e sottile. Riflesso nello specchio di fronte c’è il mio volto grigio e tormentato che osserva il volto di Ely diafano e sensuale. Scopro in un lampo del mio sguardo un sinistro bagliore che non mi spiego. È il bagliore della follia mi dico. Della mia inesplicabile follia. È lei che devo amare, ma dopo averla amata, che cosa farò? Questo pensiero mi dilania il cervello, inaspettato e irragionevole, convulso e confuso. Non so da dove sia venuto e dove sia diretto. È un pensiero che dura il tempo del brivido che mi percorre la schiena. È un pensiero vero, concreto, tangibile, anche se del tutto irragionevole. È come se la mia psiche volesse percorrere in un momento tutta l’estensione delle sue possibilità estreme in una sorta di rincorsa all’assurdo, di corsa sfrenata verso l’autenticità, verso ciò cui veramente e profondamente è tesa la mia volontà più vera. Come se esistesse una volontà meno vera, o addirittura falsa. Mi meraviglia la forza dirompente che questo pensiero ha nella mia mente, lo spazio che occupa per il semplice fatto di esserci, o di essere apparso all’improvviso. Mi avvicino al corpo di Ely, seducente come non mai. Le mie mani si posano sui suoi capelli voluminosi e vaporosi che emanano un profumo di foresta tropicale. Scivolano inavvertitamente sulla sua nuca, premono le due cordicelle che uniscono le spalle alla testa. Sono terribilmente tenere e fragili.
- Vedi, Ely, sei così bella che ti potrei uccidere…
Ho pronunciato queste parole come in trance, senza sapere perché e dove siano dirette. Forse, le ho dette per pura provocazione. Per gioco. Forse è una semplice asserzione filosofica, una mera esemplificazione di un principio filosofico. Ely non risponde. E allora, accentuo un po’ la pressione dei polpastrelli sulla sua nuca. È quasi un massaggio. Quasi.
-- Ti amo. Ma proprio perché ti amo, dovrei annientarti.
Con un impercettibile moto del collo sottile Ely solleva appena il sopracciglio sinistro. Ora mi osserva attraverso lo specchio in silenzio. Finalmente, si è destata dalla sua “assenza”.
- Sei indecente, semplicemente indecente, – mormora Ely senza alcun turbamento.
Ecco, questa frase, gettata là quasi per caso ha il potere di sorprendermi. Non me l’aspettavo proprio. Non credevo che Ely mi prendesse sul serio.
- Oh, tu credi che stia celiando? – esordisco in falsetto come un attore di teatro che sbaglia la battuta.
- So benissimo che non stai giocando. – La voce di Ely invece è ferma e decisa.
- Mi conosci bene ormai. – Provo a stemperare la gravità delle mie parole con un po’ di minimalismo.
- Credo di sì. Intuisco i tuoi pensieri più di quanto tu non te ne avveda, – insiste Ely.
- Intuisci i miei pensieri?
- So che non stai giocando, ma è come se tu giocassi. È come se tu continuassi da sempre un certo gioco. Come quando scrivi i tuoi romanzi, in realtà stai giocando. Stai giocando a fare lo scrittore di terza categoria.
- Che cosa vuoi dire?
- Direi che la categoria centrale della tua psiche è il come se.
- Ovvero?
- Ti comporti come se tu esistessi davvero.
- Perché, per te non esisto?
- Non dico questo.
- E allora?
- Dico che ti comporti come se tu esistessi davvero. Però…
- Però…
- Però… tu dubiti della tua esistenza, dubiti dell’esistenza di tutto ciò che ti sta intorno. E quindi dubiti anche di me.
- E allora?
- Allora, vuoi verificare se sono vera.
- E tu pensi che dovrei verificarlo?
- Sì, penso che alla fine dovrai verificarlo.
- E se non lo verificassi?
- Alla fine, dovrai farlo.
- E perché?
- Perché così troveresti un’ottima giustificazione alla tua esistenza.
- Credi che mi occorra una giustificazione?
- Occorre a tutti.
- Anche a te?
- Anche a me.
- Dimmi la verità, perché hai preso uno come me, uno scrittore di terza categoria? -
- Non perché sei migliore degli altri. Perché sei diverso.
- E perverso.
- Sì, ed anche perverso.
- E la cosa ti intriga?
- No, la cosa mi diverte.
- Cosa c’è di tanto divertente?
- Il tuo cercare l’impossibile.
- L’impossibile?
- Il commissario De Luca è la prova della tua ricerca dell’impossibile.
- Che c’entra il commissario De Luca?
- Il tuo commissario sa dov’è il marcio ma non ha alcuna intenzione di andarlo a rimestare.
- Ripeto: che cosa c’entra il commissario De Luca?
- Il personaggio del commissario è il tuo doppio, una tua proiezione.
Ely pronuncia queste parole mentre osserva allo specchio il riflesso del mio volto corrucciato. Non traspare alcuna emozione dal suo volto, nessuna motilità lo attraversa. È più bella e sensuale che mai.
- Ti amo. Ma proprio perché ti amo temo che dovrei ucciderti.
Ripeto meccanicamente queste parole tra me e me, in silenzio, come per ricordarmi un qualcosa che ho dimenticato. E il sipario si chiude lentamente mentre i personaggi stanno immobili: io che sovrasto Ely seduta alla toeletta che si pettina i capelli e li scuote ondeggiando le bellissime e fragili spalle.
*
Avevo finalmente finito l’ennesimo giallo. Questa volta il commissario De Luca non aveva tradito le aspettative dei lettori. Aveva subito l’ennesimo trasferimento: era entrato nel suo ufficio polveroso ed aveva trovato sulla scrivania il fax del ministero che lo destinava in missione continuativa, fino a nuovo ordine, a Caltanissetta. De Luca non battè ciglio. Uscì dal commissariato della città di provincia dove aveva soggiornato gli ultimi otto mesi, si recò alla pensione dove aveva trovato alloggio provvisorio, riempì due valigie di biancheria e di vestiti sdruciti, ci ficcò dentro quante più camicie possibile, qualche cravatta, il dentifricio, il sapone da barba e quant’altro strettamente necessario alla sopravvivenza nel consorzio civile e gettò il tutto nel carcassone a quattro ruote color cachi sbiadito, marca Fiat, di proprietà strettamente privata. Forse, era l’unica cosa a cui il commissario tenesse veramente: con la vecchia Fiat aveva un rapporto particolare. I cappotti li stese sul sedile posteriore. Scrisse un biglietto di saluti al questore e al procuratore della repubblica, prese due buste, le affrancò e le infilò alla prima cassetta postale che incontrò durante il tragitto. Mise in moto e si avviò sull’autostrada. Durante il viaggio molti pensieri si affollarono nella sua mente, ma furono subito ricacciati all’indietro. Il commissario non amava ricordare. Della sua vita trascorsa non ricordava quasi niente. Aveva una moglie e un figlio da qualche parte che non vedeva ormai da anni. Forse aveva avuto una mezza dozzina di amanti saltuarie e a mezzo servizio, poi, dopo il benvenuto, aveva deciso di dare loro il benservito per via del fatto che erano troppo onerose e impegnavano troppe energie, e così aveva preferito frequentare, saltuariamente, delle signorine a pagamento, non troppo esose e non troppo onerose, l’importante era che fossero in carne ed ospitali. Per quanto concerne le altre qualità, si trattava di questioni più filosofiche che altro, e comunque aveva deciso che andava bene così: la cosa non riguardava più il commissario De Luca.
Avevo deciso di fare il verso alle storie di un famoso giallista siciliano che all’epoca andava per la maggiore: il suo commissario alla fine trionfava sempre e sbatteva sempre in galera il malvivente. La cosa era molto semplice e scontata.
Alla fine, la pessima fama che lo accompagnava da quando era in polizia in un certo senso gli si addiceva, anzi ne era persino fiero: funzionario distratto, disattento, non maestro di progettazione delle indagini e finanche negligente e discontinuo, non comunicativo. Il suo fascicolo personale di stanza al ministero era stato catalogato di serie B e, quando il commissario si presentò al commissariato di Caltanissetta, tutti già sapevano che il nuovo inquilino era una specie di controfigura, una sorta di passacarte dai capelli grigi e dal linguaggio forbito, dall’eleganza sdrucita e antiquata per via degli abiti fuori moda e mai dismessi.
Durante i primi tre mesi di servizio non pronunciò mai parola diversa da buongiorno e buonasera, non faceva altro che studiare le carte dell’archivio come un topo di biblioteca. E ormai tutti, tra cui anche il questore, pensavano che si trattasse di un funzionario del tutto anodino, insignificante e inoffensivo. Passarono altri tre mesi di studio in archivio durante i quali arricchì il suo vocabolario con le frasi: una tazza di caffè con brioche, un tè con tartine e simili. E davvero fu un evento quando lo videro alle prese con affabulazioni del genere descritto: il commissario esisteva, era vivo! Ma quale fu lo stupore del procuratore quando vide il commissario entrare nel suo ufficio con la richiesta di sottoporre a intercettazioni telefoniche la gran parte dei membri della giunta comunale e alcuni membri della ricca e facoltosa borghesia locale. La risposta fu secca: non c’erano le condizioni di legge per avviare il controllo, non c’erano sufficienti indizi. E così il commissario decise di fare tutto da solo. Con un espediente fece inserire nella ventiquattrore di un noto penalista una spia ricetrasmittente e passò i successivi sei mesi ad ascoltare le conversazioni dell’illustre avvocato. Quando fu il momento, ordinò ai suoi uomini di indossare i giubbotti antiproiettile, pistole e mitraglietta e partire per un blitz in un casale di campagna in perfetto stile americano. Quando gli chiesero dove dovesse andare tutta quell’armata brancaleone, rispose con uno sbuffo di pessimo fumo di pessime MS. Si fece autorizzare al momento una perquisizione generale dell’abitato con grande scorno del procuratore della repubblica. Diede ordine di circondare il casale e di sparare al primo topo che tentasse la fuga. Il risultato fu il rinvenimento di venti chili di cocaina purissima e l’arresto di una quindicina di malviventi. Questo, in breve, fu l’unico successo del commissario De Luca, il quale per ricompensa del suo brillante lavoro ottenne un nuovo trasferimento in un’altra città di provincia.
Il romanzo finiva come era cominciato: il commissario che faceva le due valigie, ci pigiava dentro calzini e mutande, camicie e cravatte, dentifricio e spazzolino da denti, dopobarba e deodoranti da supermarket, le caricava dentro la vecchia Fiat a quattro ruote e si avviava verso la nuova sede di servizio con indosso un abito sdrucito e sbiadito.
All’agente che lo salutò all’uscita del commissariato, mormorò una frase di Hegel che quello non comprese affatto: “Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti”. Ed era la prima volta che qualcuno sentiva una frase dal senso compiuto sortire dalle labbra del commissario De Luca.
*
Quale non fu lo stupore del nostro scrittore quando, dopo la lettura dello scartafaccio, vide la faccia dell’editore che manifestò tutta la sua avversione per lo svolgimento della storia e per il finale inglorioso. L’editore farfugliò qualcosa che poteva significare che non poteva gettare così il suo talento di scrittore, o qualcosa del genere, strabuzzò gli occhi, si soffiò il naso…
Comunque, il romanzo fu presto stampato e distribuito in tutte le librerie del paese.
*
È strano, le vie del successo sono del tutto casuali e impreviste: nel giro di sei mesi il picco delle vendite arrivò a cinquecentomila copie, e l’editore mi sborsò una cifra che non avevo mai visto neanche in televisione. Non avevo detto nulla a Ely né del successo di vendite né del numero di banconote che mi riempivano le tasche della giacca il giorno in cui feci ritorno a casa dallo sportello bancario dove avevo depositato l’ingente capitale.
Ora, era tutto fin troppo facile e scontato: ero uno scrittore di terza categoria con un mucchio di soldi che mi uscivano da tutte le tasche delle giacche di tweed, con il commissario De Luca che andava a ruba in tutte le librerie e non me ne fotteva assolutamente niente della letteratura, di Hegel e della felicità con i suoi fogli vuoti.
178° giorno LE EPOCHE DELLA FELICITA’ SONO I SUOI FOGLI VUOTI
- Ely, ho fatto un sogno.
- Quale?
- È avvenuto un terremoto. Tutta la città è in macerie. Ci siamo solo io e te.
- Non mi sembra un gran bel sogno.
- Ci siamo solo io e te.
- È già qualcosa.
- E io ti guardo, e non me ne importa niente che tutto sia andato alla malora.
- È una bella dichiarazione d’amore.
- Ci siamo solo io e te.
- Ma che ci facciamo io e te da soli nella distruzione totale?
- Siamo rimasti soli. Crollato tutto.
- E va bene. Siamo rimasti soli. È crollato tutto.
- Nella solitudine più assoluta.
- Nella solitudine più assoluta.
- E io ti guardo.
- E anch’io ti guardo.
- E non c’è ragione di dover mentire.
- Ma io non mento.
- Qui non è questione di menzogna.
- E allora?
- È che non c’è più bisogno di dover mentire, perché non c’è più nulla intorno a noi.
- Siamo liberi da obblighi, vuoi dire?
- Siamo liberi soltanto nella distruzione totale.
- E va bene, forse hai ragione. E poi che succede?
- Succede che io ti posso amare nella solitudine più assoluta.
- Anch’io ti amo, ma non c’è bisogno di distruggere tutto.
- E qui sta il punto.
- Per quanto tempo ancora dovrai fare questa vita: spogliarti di notte e rivestirti di giorno?
- Fino a quando sarò ancora giovane e… con un corpo così…
- E poi?
- E poi, nulla.
- Cosa vuol dire nulla?
- Nulla vuol dire nulla.
- Ma un giorno tu sarai vecchia.
- Quel giorno è ancora lontano.
- Sì, lo so, quel giorno è lontano, ma verrà.
- E allora tu sarai qui con me..
- Quel giorno io starò qui con te.
- Non vorrai lasciarmi prima del tempo, spero.
- No, non credo che ti lascerò mai.
- E perché?
- Perché ti amo.
- Non è una ragione sufficiente.
- Sì, lo so, è una ragione insufficiente.
- Anch’io ti amo, anche se è una ragione insufficiente.
Il soggiorno è illuminato debolmente dalla luce grigiastra del pomeriggio. Ely è nuda. Cammina sui trampoli delle pantofole di peluche. Ondeggia mollemente sui fianchi stretti mentre prepara il caffè. Ad ogni suo passo si verifica un piccolissimo sussulto del pube rigonfio e le natiche hanno un tremito, un sobbalzo così ardito e altero che mi rende sgomento e indifeso. I suoi glutei sono maliziosamente lunghi e appuntiti. Sui fianchi stretti è posato un vitino sottile e la concavità della schiena è tesa come una corda di arco. I lunghi capelli biondi sono gonfi e arruffati. Spandono il suo profumo preferito: Jungle, che è così forte e penetrante e così sensuale, d’una sensualità ferale e antica, che mi inebria e mi ottunde il pensiero. Le sue braccia sottili si portano alla testa e scuotono i capelli meravigliosamente gialli e profumati.
- Notizie dell’editore?
- Uhm…
- Come sarebbe a dire: uhm?
- Sarebbe a dire… che lo strozzino questa volta ha sganciato.
- Oh, bella questa… e quanto?
- Lo strozzino ha sganciato…
- Un anticipo?
- No, diciamo un anticipo del saldo.
- Oh, che novità… anticipo del saldo di cosa?
- Saldo dei milioni di anticipo che lo strozzino ha già intascato.
E qui con atto teatrale prendo per mano la biondissima Ely e la conduco sul divano. Ely mi guarda con aria interrogativa.
- Esprimi un desiderio, Ely.
- Uno qualsiasi?
- Non uno qualsiasi: il più grande, il desiderio per antonomasia.
- E se ti chiedessi la testa di Giovanni Battista?
- Avrai la testa di Giovanni Battista.
- Sei Erode?
- No, ma sono diventato ricco come Erode.
- Cosa vuoi dire?
- Voglio dire che possiedo i migliori argomenti per dirimere le questioni di ordine pratico… ed anche quelle di ordine teoretico…
Ely è distesa sul divano rivolta verso di me che sorseggio il caffè, ha la testa posata sul palmo della mano ed il corpo reclinato su un fianco. Lo splendore del suo pube mi abbaglia ed i suoi minuscoli occhi di lince brillano d’una malizia inconsueta. È nella posa di Paolina Bonaparte così come appare nella scultura del Canova: la linea della sua sensualità sfingea e marmorea che si dipana lungo il declivio del suo corpo compostamente adagiato sul divano. Io fumo nervosamente una MS dal sapore amaro. Indosso il mio solito abito sdrucito di tweed color grigio topo, più grigio degli ultimi miei anni grigi, più grigio dei miei capelli grigi, più grigio della mia esistenza, questa sì, terribilmente grigia. È una situazione del tutto naturale: Ely è nuda davanti a me, in posizione orizzontale, ed io sono completamente vestito, in posizione verticale, con una cravatta sbilenca che penzola come un cappio dal collo di un impiccato. Con un movimento studiatamente lento porto la mano all’interno della giacca. Estraggo un rotolo di biglietti di banca da cento euro, nuovi di zecca, fragranti e profumati. Il primo biglietto lo depongo sul pube biondo, lo lascio oscillare come una bandiera al vento. Gli occhi di Ely mi osservano divertiti e pensierosi. Il secondo biglietto del rotolo va ad occupare la distanza che intercorre tra il pube e l’ombelico. Il terzo biglietto lo depongo sul seno sinistro ed il quarto sul seno destro. In quella posizione precaria i biglietti subiscono una leggera motilità che li rende ancor più leggeri. Oscillano, volteggiano e scivolano… hanno una instabile dimora sulla cima dei capezzoli…
- Non mi piace la banalità di questi biglietti di banca, - dico senza convinzione.
Mi alzo, vado verso l’armadio e ritorno con in pugno un tubetto di colla stick, passo la colla sulle banconote e le appiccico sulle zone del corpo che avevo scelto come le più adatte. Poi, in rigoroso ordine simmetrico, giustappongo altre banconote sopra l’ombelico di Ely e sul suo seno. Due banconote le appiccico sul braccio destro e altre due sul braccio sinistro. Analogamente, faccio aderire due banconote sopra la coscia sinistra, sotto l’inguine e altre due sulla coscia destra. Ora, chiedo a Ely di alzarsi e di porsi dritta davanti a me. Lei si alza di scatto e, nel movimento, i foglietti di banca sventolano e ondeggiano. Con su tutti quei foglietti attaccati la nudità di Ely ha assunto una sembianza tra l’assurdo e il familiare, il grottesco e l’erotico.
- Vedi Ely, ora devi ruotare attorno al tuo asse e mostrarmi le terga, - recito scandendo bene le sillabe.
La donna con un rapido dietro front ruota attorno alla spina dorsale. Mi mostra il sedere polputo e sibillino, invitandomi a completare la vestizione con i biglietti di banca.
- Ora lo devo vestire ben bene. È un peccato lasciarlo così tutto scoperto, - preciso con tono saccente ed impiegatizio ma non privo di humour.
Attacco con la colla stick un biglietto sopra il solco tra le due natiche e altri tre biglietti subito al di sopra, in modo che sventolino dalle reni in giù, e poi altri biglietti li metto sui fianchi, un po’ sotto le ascelle e le chiedo di calzare le scarpe con i tacchi a spillo e di camminare in su e in giù per il soggiorno, proprio davanti al divano dove ho preso il posto prima occupato da lei.
- Dai Ely, ora cammina avanti e indietro, fammi guardare l’Eldorado!
- Non capisco che cosa ti passa per la testa! Dove hai preso tutti questi soldi?
- Tu non ti preoccupare e cammina!
- Bene, hai fatto un terno a lotto?
- Acqua, mia cara, acqua…
- Hai vinto al bingo?
- Acqua, mia cara…
- E allora, si può sapere cosa ti è successo?
- La cosa più semplice al mondo!
- E cioè?
- Lo strozzino ha sganciato…
- Quanto?
- Centomila euro. Solo come anticipo. E poi il resto, il saldo, non appena perverrà il conto del distributore sulle copie vendute.
- Oh bella questa! E quante sarebbero le copie finora vendute?
- Più di cinquecentomila…
Avevo scandito bene le sillabe perché non vi fossero dubbi sul numero. Ely ascoltava con i piccoli occhi di lince allarmati passeggiando come un automa davanti al divano. Si voltò di scatto ruotando sul busto sottile e spalancando gli occhi di lince.
- È una fortuna, un’autentica fortuna!
Gridava la Ely, nitriva e squittiva in preda non so se al panico o ad una gioia irrefrenabile mentre io stavo comodamente seduto sul divano e lasciavo cadere i biglietti da cento euro sul pavimento, ad uno ad uno, con una lentezza studiata e visibilmente artefatta. Volevo studiare le reazioni del felino, mi volevo godere i suoi movimenti scomposti dentro la gabbia del salotto come un etologo che studia i movimenti degli animali che osserva. E la Ely che si precipitava a raccogliere le banconote sotto il tavolo, sotto le sedie, strisciava sul pavimento come un’anguilla, scuotendo e sventolando le natiche con sopra appiccicati i biglietti da cento euro… Rideva la Ely, rideva di gioia…
*
Ci sono dei periodi in cui l’esistenza entra in letargo. Quella pioggia di quattrini avvenne in modo così improvviso e inaspettato che mi indusse in una condizione di totale “assenza”. Il lettore di queste righe si chiederà che cosa sia lo stato di “assenza”, in che cosa consista e quali siano le sue peculiarità. Dirò, in tutta sincerità, che lo stato di “assenza” consiste propriamente in una condizione di sospensione delle facoltà della coscienza; cioè quel fenomeno per cui per ragioni inesplicabili e per un certo periodo di tempo la coscienza cessa di esercitare il proprio vigile controllo su tutto ciò che non è coscienza. Ero stato per tanti anni costretto e costipato in una situazione finanziaria talmente indigente che mi ero adattato a condurre una vita poco dispendiosa, anzi, ristretta ai bisogni elementari ed essenziali. Ora, questa improvvisa fortuna che mi era caduta dal cielo, mi appariva opera di un taumaturgo o di un demiurgo, insensata e casuale, non me l’ero proposta né avevo mai seriamente pensato che un’eventualità del genere potesse verificarsi, quindi ero del tutto impreparato ad affrontare la situazione del tutto nuova di enorme affluenza finanziaria. Sia io che Ely eravamo impreparati, ma si sa da che mondo è mondo che le donne sono più pronte di noi ad impossessarsi del danaro e a spenderlo repentinamente. In questo Ely non faceva eccezione: dilapidava in un battibaleno, il giorno seguente, l’ingente capitale che ogni sera le deponevo sul corpo. La cosa non presentava particolari difficoltà, la necessità di munirsi di un’estetista come proprietà privata, di abiti firmati e scarpe sempre più rutilanti, con il tempo divenne un’appendice inderogabile della nostra esistenza. Del resto, le copie del romanzo vendute sfiorarono le seicentomila, e poi, il mese dopo seicentocinquantamila, e il mese seguente, toccò le settecentomila, e così via fino a sfiorare il milione di copie. Ero ormai un personaggio letterario e su tutti i quotidiani nazionali c’era la gara tra chi riusciva ad intervistami prima, fioccavano articoli, recensioni e stroncature dei decani della letteratura italiana, fioccavano inviti nei talk-show televisivi alla moda e i salotti à la page si contendevano a suon di buste paga la presenza dell’autore di successo. È vero, a quell’epoca apparivo schivo, scontento e scontroso, indossavo il mio antico vestito di tweed grigio con aria annoiata e distratta. Ero pieno di soldi, le donne più belle e affascinanti mi facevano la corte e mi chiedevano da dove venivo. Per il vero, anche alcuni critici mi chiesero, senza reticenze, se e quali studi avessi alle spalle, ma io non replicavo mai alle loro inferenze e illazioni, rispondevo che avevo fatto l’elettricista, il suonatore ambulante nei metrò, il buttafuori di night, il venditore di merce inesistente e che di libri non ne sapevo alcunché e che neanche mi interessava leggere libri di altri tranne che i miei e che non mi interessavano neanche le recensioni perché mi annoiavano. Non sono un letterato, dicevo, come per schernirmi e difendermi dalla folla di paparazzi e paparazze che mi circondavano. Può sembrare strano e paradossale ma più mi schernivo e fuggivo la folla dei mass media, più le televisioni private e i talk-show mi davano la caccia come ad un lupo mannaro o un criminale agguerrito. Sì, era vero, avevo fatto il truffatore per sbarcare il lunario e mangiare qualcosa di caldo ogni giorno, ma avevo turlupinato soltanto mezze tacche e mezze cartucce le quali a loro volta avevano turlupinato, prima di allora, altre mezze tacche e mezze cartucce e così via, dicevo che non c’era niente di nuovo sotto il cielo e che il materiale umano si divideva in due categorie. Quali? Mi chiedevano i giornalisti. Ed io, serafico: in gabbati e gabbatori e che in mezzo c’erano soltanto quelli in attesa di essere gabbati o di gabbare il prossimo. Ora, per un verso o per l’altro, le mie battute riscuotevano grande successo e venivano riportate e virgolettate da rispettabili editorialisti i quali mi affibbiarono l’etichetta di pseudointellettuale qualunquista, venni definito come un esemplare della nuova asinesca intellettualità. Insomma, divenni in breve un personaggio da rotocalco. E così presi la Ely e me la portai a spasso per il mondo a spese di quello strozzino dell’editore.
- Ely, hai ancora l’aria di chi è assente…
- Anche tu sembri provenire da un mondo che non c’è più.
- Ely, sei sicura di esserci?
- E tu sei sicuro di esistere?
187° giorno CI INTERROGAVAMO INTORNO ALL’ASSENZA
Questi erano i nostri colloqui. A quel tempo dei nostri viaggi per il mondo, ci interrogavamo intorno alla nostra “assenza”, ci interrogavamo l’un l’altro per capire noi stessi, era un modo per osservare attraverso lo specchio dell’altro noi stessi in modo più limpido e chiaro. Indagando intorno alla “assenza” di Ely mi era più facile capire qualcosa della mia “assenza”. A stretto rigor di termini, “assenza” non significa altro che as-senza, mancanza di essenza, qualcosa che è privo di essenza; con il termine presenza, invece, si intende qualcosa che è dotata di es-senza che si manifesta “prima” che il suo evento accada. Quindi, sempre procedendo a stretto rigore logico e terminologico, lo stato di assenza è quello stato che precede il risveglio, la condizione del dormiveglia. Ero convinto che ci sono intere epoche della nostra esistenza durante le quali le nostre decisioni più vitali e importanti sono prese in questi periodi di assenza o di latenza, durante i quali, a nostra insaputa e senza che ce ne rendiamo conto, vengono resettate le informazioni subliminali, gli input inconsci che fanno sì che l’evento accada. Ely era la donna che attirava la mia attenzione non perché fosse particolarmente bella, o almeno non soltanto, ma soprattutto perché era particolarmente assente; l’assenza in lei era indice di una capacità molto più evoluta che non presso le altre donne, l’assenza era l’indice di uno stadio di cognizione molto superiore a quello della “presenza”, entro il quale la maggior parte degli esseri umani amavano soggiornare. Ed io non ero affatto disponibile a innamorarmi di una donna che si limitasse a vegetare unicamente nel “presente”. Inoltre, lo stato di “assenza” era quello che permetteva di vivere senza il “futuro”, e quindi senza l’idea del tutto illusoria e menzognera secondo la quale gli uomini credono che progettando il futuro ritengono di rendere affollato anche il presente. Ma l’affollamento del presente non equivale ad affermare qualcosa circa l’esistenza del presente. Ecco, io dimenticavo una grande quantità di cose minime. Per esempio, tenevo la penna in mano e andavo in giro per la stanza d’albergo a cercare una penna; mettevo gli occhiali in frigorifero invece di metterci la bottiglia di acqua minerale, convinto che ci avessi messo veramente la bottiglia di acqua minerale; oppure, ero convinto di aver detto qualcosa che invece avevo soltanto pensato di dire, ovvero, dicevo qualcosa che non corrispondeva affatto al mio pensiero ma non perché mi interessasse davvero dire qualcosa che si avvicinasse al mio pensiero ma, al contrario, perché inconsciamente ero convinto che soltanto dicendo qualcosa di molto distante dalle mie interne convinzioni mi potevo avvicinare a ciò che di più autentico avevo in animo di dire. E il fatto che non dicessi quel che avevo in animo di tacere non equivaleva affatto ad affermare che avevo intenzione di profferire una menzogna. Dicevo ogni volta una cosa leggermente diversa ma non perché ogni mia asserzione fosse soggetta alla legislazione del tempo, ma al contrario, perché avevo inviso il concetto di temporalità e non mi fidavo proprio di ogni manifesta esternazione delle mie interne volizioni. La Ely con la elusiva manifestazione della sua assenza mi confortava nella bontà della mia filosofia, mi rassicurava circa l’imponderabilità di afferrare le maglie del reale. Ma era poi essenziale afferrare le maglie del reale? O non era preferibile desistere da ogni intento di imporre la nostra signoria su ciò che intendiamo o comprendiamo con il termine di “reale”? Era reale Ely, ed io ero reale agli occhi di Ely? Il mio desiderio era di impossessarmi di Ely nel momento in cui lei si allontanava dall’esistenza e proprio perché si allontanava da me e dalla mia esistenza e da tutto ciò che ai miei occhi comportava l’esistenza del presente e al quale io davo il nome di “assenza”.
Tornammo da quel giro del mondo in ottanta giorni esausti e disperati. Non avevamo scampo, la nostra infelicità era totale, per questo ci chiedevamo se eravamo felici.
- Ely, secondo te siamo felici?
- E tu, secondo te cosa pensi: siamo infelici?
193° giorno A SETTE PASSI DAL BUIO
È impossibile vivere con Massimo. Con lui è come vivere a sette passi dal buio. Ci sono dei momenti in cui so perfettamente che se facessi sette passi in avanti cadrei nella trappola del buio. Lo spazio circostante a Massimo è esattamente sette passi. Dovunque egli si trovi, sotto qualsiasi latitudine o longitudine, ho come la sensazione che lui possa svanire o che io possa sparire, inghiottita dal nulla. Anche quando non parla, tutto ciò che lui tocca e ciò che non dice è come se fosse eloquente. Sarei curiosa di sapere che cosa lo attira di me, se è la bellezza del mio corpo o il modo in cui occupo lo spazio che mi circonda. Lui è molto avido di spazio soltanto se è intorno al mio corpo. Credo che stiamo sull’orlo dell’abisso e che ci scambiamo il guanto e la pietra per una sfida che ha il nulla come meta. Non ho ancora capito se è lui ad essere diretto verso il nulla e se la mia presenza ha la funzione di un vettore che lo accompagna, ovvero, se sono io la responsabile di questo moto di deriva e lui è soltanto una mia appendice. Del resto, non so nulla del suo passato, se veramente è stato un borseggiatore, un tassista abusivo, un perdigiorno come ama almanaccare. Sì, forse è stato tutto questo. Forse è stato un tipo fuori dalle righe. Ed ora è un ricco scrittore di romanzi polizieschi di terza categoria.
- Sai, Ely, a volte penso che avrei voluto scrivere io “L’uomo senza qualità” di Musil o “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov. Mi viene come un’invidia che non sia stato io l’autore di quei romanzi.
- Tu sei l’autore dei romanzi del commissario De Luca, che male c’è?
- Come scrittore sono un idiota Ely, sono irrimediabilmente privo di talento.
- Anch’io potevo diventare una ballerina della Scala, forse anch’io sono priva di talento.
- Siamo entrambi privi di talento, è questo che ci lega.
- Credi tu che non c’è bisogno di talento per spogliarsi nei locali?
- No, è il tuo corpo che parla. Tu non hai bisogno di talento.
- E invece tu sì?
- No, neanch’io ho bisogno di talento, è la nostra epoca che non ha più bisogno di talento.
- E così i conti tornano?
- Sì.
- Beata l’epoca che non ha bisogno di eroi e di geni, Massimo!
- Ma non capisci che è l’inizio del Tramonto, della fine di tutto?
- E che cosa possiamo fare noi per impedire il Tramonto?
- Il bello è che non possiamo fare nulla.
- Possiamo solo assistere al Tramonto?
- Possiamo soltanto ritardare il Tramonto.
- E come?
- Vivendo.
- E tu vivi?
- Sì, forse io vivo.
Erano queste le nostre conversazioni, non molto originali lo ammetto, ma all’epoca cominciavamo a prendere coscienza della nostra condizione esistenziale. Non c’era scampo, non c’erano vie di fuga. Io, una ballerina mancata e Massimo uno scrittore fallito. Io continuavo a spogliarmi per i locali e Massimo continuava ad intascare quattrini per un romanzo di piacevole intrattenimento. Il tutto era privo di senso, era casuale, corrivo. Io avevo abbandonato il porno ma per che cosa, per una vita corriva e scontata? E Massimo aveva smesso di fare il borseggiatore per scrivere mediocri romanzi polizieschi. Non era meglio prima? Non era preferibile che io continuassi a fare il porno e Massimo a fare il borseggiatore? All’epoca, questi pensieri ci frullavano per la testa e ci rinfacciavamo il nostro passato come migliore del presente.
- Un ladro di talento è preferibile a uno scrittore privo di talento, lo capisci Ely? – inquisiva Massimo.
- Certo che lo capisco. – Mi arrendevo subito al delirio di Massimo.
- E una brava attrice del porno è preferibile a una comune spogliarellista. – Continuava con l’inquisizione Massimo.
- Vuoi che torni a fare il porno? – Cercavo di provocarlo e di ferirlo.
- Questi sono affari tuoi, dipende dalla tua realizzazione o da ciò che ti aspetti dalla vita.
- Io non mi aspetto nulla.
- Lo so, altrimenti non saresti qui con me.
- Perché mi dici questo, per ferirmi?
- No, tu non sei il tipo per un impiegato di banca e neanche per un ministeriale ingrullito, sei speciale, Ely!
- Lo dici per orgoglio, allora?
- Sì, forse per orgoglio, o non so che altro.
- Tutto ciò è scabroso.
- Molto scabroso.
- Tutto ciò è volgare.
- Molto volgare.
- E cosa c’è rimasto?
- I salotti televisivi, i talk-show, le chiacchiere insulse e beceri, le interviste degli acchiappafantasmi…
- Allora, non abbiamo scampo…
- Sì, tu dovresti tornare sulla scena del porno ed io a fare il borseggiatore. C’è più senso.
- Sarebbe almeno una scelta conseguente con le premesse…
- Sì, sarebbe tutto più logico.
Terminavano così all’epoca le nostre conversazioni, con una tregua non dichiarata, una parentesi aperta e subito richiusa, senza aver progredito verso una via di uscita e senza averla neanche cercata. Era come se davanti a noi ci fosse stato un muro bianco che non potevamo scavalcare. Un muro insormontabile. Il muro ci faceva da schermo e c’era un signore misterioso di fronte a noi con una telecamera che riprendeva i nostri atteggiamenti, la nostra mimica, le nostre parole. Eravamo soli tra la telecamera e il muro bianco. Ci fronteggiavamo, una di fronte all’altro, senza animosità e senza passione, colpevoli soltanto di essere davanti ad un muro bianco che riceveva e rifletteva le nostre ombre e faceva echeggiare i nostri discorsi. Entrambi vivevamo senza disperazione e senza angoscia, senza dilemma e senza veramente interrogarci. I nostri dialoghi non erano delle interrogazioni reciproche, erano delle esercitazioni dialettiche dove ciascuno degli interlocutori sapeva benissimo la materia di cui si trattava e sapeva benissimo che non c’era alcuna soluzione da cercare. Quello che un tempo era il nostro amore si era tramutato in una specie di passione incestuosa dove ciascuno degli amanti sa in anticipo che si unirà con il proprio fratello o con la propria sorella, e questo rendeva ancora più eccitante e morboso il nostro rapporto. Massimo era mio fratello siamese, era un mio simile, fatto della stessa pasta di cui ero fatta io, e condividevo segretamente il suo disdegno per le convenzioni e i cliché in mezzo ai quali continuavamo ad abitare il teatro del mondo…
- È un teatro il nostro mondo? – chiedevo con tono disilluso.
- È il teatro che meritiamo, - mi rispondeva Massimo senza angoscia.
200° giorno IL SOGNO DEL TRENO
- Sai Ely, ho fatto un sogno.
- Quale?
- Salgo in un treno, o forse è una metro… passo da un vagone all’altro alla ricerca di un posto più comodo… mi dirigo inconsapevolmente verso il vagone dove c’è il locomotore, la punta del nulla. Ne sono convinto.
- Come, la punta del nulla?
- Dobbiamo fare un passo indietro: Il punto del nulla è quella particolare posizione privilegiata dalla quale puoi scorgere il nulla che ti sovrasta meglio che in qualsiasi altro posto.
- E quindi, quale sarebbe questo posto, diciamo così, privilegiato?
- È appunto il posto della locomotiva dove sta il guidatore.
- Va bene, quando arrivi lì che succede?
- Arrivo finalmente nel vagone dove è seduto il guidatore.
- Perché finalmente?
- Perché non conosco quale sia il motivo che mi ha condotto fino a lì.
- E che fai?
- Non faccio nulla: guardo i binari mangiati dal locomotore lanciato ad alta velocità.
- Come se dovesse accadere qualcosa?
- Non so… guardo i binari mangiati dal locomotore.
- E allora?
- Ad un certo punto, mi accorgo che dalla parte opposta del binario è visibile la sagoma di un altro locomotore che sta arrivando a tutta velocità. Un urlo di terrore mi si ferma in gola. Osservo il puntino del treno che si avvicina a vista d’occhio. Il conducente si è prontamente accorto del pericolo ed ha azionato il freno di emergenza… il rumore dello sfrigolio dei freni mi penetra nelle orecchie. È un suono orribile, mi dice che il pericolo si avvicina inesorabilmente. Il treno contro cui siamo diretti ci sta piombando addosso a velocità folle. Vedo la scena come a rallentatore. Il tempo si allunga indefinitamente, come un elastico. I miei pensieri scorrono così velocemente che mi sembrano più rapidi dello scorrere del tempo: in un segmento brevissimo di istante i miei pensieri percorrono distanze siderali. Ispeziono mentalmente tutte le possibilità di salvezza che mi rimangono; credo che il mio cervello giunga da subito alla determinazione finale ma la mia coscienza non ha la volontà di recepire un messaggio così ostico e si rifugia nella fuga dalle proprie responsabilità. Nel mentre, vedo distintamente il locomotore del convoglio di fronte che si avvicina inesorabilmente. Potrei fuggire. Ci sarebbero ancora delle possibilità di fuga: potrei gettarmi dal finestrino, potrei retrocedere e tentare di raggiungere la carrozza che sta dietro, potrei insomma tentare di limitare i danni che deriveranno dall’urto frontale che inevitabilmente ci sarà. Potrei… ma non faccio nulla di tutto ciò. Ed invece sto qui accanto al conduttore ad osservare la scena del disastro incombente come se fossi al cinema davanti allo schermo di un film. E attendessi l’esito dello scontro finale. Ma qui è della mia vita reale che si tratta… ma io non mi muovo, osservo i movimenti repentini e disperati del conduttore che, in un ultimo disperato tentativo, ha inserito insieme al freno di emergenza anche la retromarcia… miracolosamente ora il treno, dopo uno scossone mostruoso, inizia a camminare all’indietro, lentamente, molto lentamente… mentre il locomotore del treno che ci sta di fronte si avvicina implacabilmente. È un cortometraggio dell’orrore: siamo tutti topi in trappola, io il conducente e gli utenti di questo treno maledetto… non avremo scampo… finiremo tutti in una trappola mortale, una gigantesca frittata di acciaio e carni umane. Mentre questo pensiero mi percorre come un lampo la mente osservo con sollievo che, grazie all’abilità e alla prontezza del guidatore, il treno sta retrocedendo ad una velocità sempre maggiore ma ancora non sufficiente a colmare il divario che scaturisce dalla velocità del treno che è diretto contro di noi. Un pensiero assurdo mi sfiora la mente: forse c’è ancora una speranza di salvezza, forse il treno che sta piombando su di noi non ci raggiungerà mai se anche consideriamo la velocità del moto di retrocessione del nostro convoglio. È l’ultima speranza che illumina la mia mente abbacinata. Mentre formulo questo pensiero, mi accorgo che nella cabina di guida del treno che ho di fronte c’è un uomo della mia età, vedo con orrore il locomotore con il nostro dirimpettaio vicinissimo, talmente vicino che posso scorgerne le sembianze, i lineamenti del volto, perfino le rughe attorno agli occhi. Accanto a lui c’è un uomo vestito con un abito di tweed grigio topo, brizzolato, direi sulla quarantacinquina, leggo sul suo volto uno strano sorriso sardonico… perquisisco il suo volto con una curiosità eccessiva: mi meraviglia non scorgere nel suo volto alcun segno di terrore, né di sorpresa… nel frattempo il locomotore del treno avversario si è avvicinato a pochi palmi di distanza dal paraurti del treno che ho la sfortuna di abitare… ho la possibilità di guardare in faccia quello strano personaggio che sta accanto al guidatore e che mi osserva con un sorriso appena accennato… vedo con nettezza l’arco dei suoi occhi, uno sguardo malinconico e il colore cereo delle guance… è lui… ne sono improvvisamente convinto… il mio simile, il mio doppio… colui che mi ha perseguitato per tutta la vita… è lui il colpevole del mio assassinio… ed io sono il colpevole del suo assassinio. Siamo entrambi assassini l’uno dell’altro. Ora la sorte ci ha posti l’uno di fronte all’altro…. È lui… io sono lui…
- Questo è tutto?
- Sì, questo è il sogno.
- È tutto molto chiaro, non ti sembra?
- Cosa è chiaro?
- È chiaro che ormai sei diretto verso il nulla.
- E tu invece dove sei diretta?
- Verso il nulla anch’io. Ma c’è tempo.
- Ed io, invece?
- Sei senza via di uscita.
- E perché?
- E non hai alibi.
- Come sarebbe a dire.
- Il treno dove tu viaggi è il medesimo treno dove viaggia il tuo doppio.
- Portiamo tutti la nostra ombra con noi, solo che non ce ne accorgiamo.
- E tu te ne sei accorto?
- Io almeno ne ho la consapevolezza.
- Ed ora non hai neanche l’alibi di essere uno scrittore che non ha raggiunto il successo.
- Non era quello che cercavo.
- Ed invece sei uno scrittore di terza serie e per giunta anche di successo.
- Brutta storia, vero?
- No, credo che tu non abbia mai voluto diventare uno scrittore di serie A.
- Te ne sei accorta?
- Oh, è molto semplice, avresti tutte le qualità per diventare uno scrittore di rango.
- Ed invece?
- Ed invece hai fatto di tutto per essere uno scrittore di seconda mano.
- Buffo, vero?
- Davvero singolare.
- Lo dici tu che potevi diventare una ballerina della Scala!
- Lo dico io che avrei potuto.
- La vita la si vive in diretta.
- E questo è il bello della faccenda.
- Potevi diventare una star da copertina di Play boy ed invece sei diventata un’attrice del porno.
- E con questo?
- E con questo siamo pari.
- E qui si chiude in pareggio la partita?
- In un certo senso, il primo tempo si chiude in pareggio.
*
- Sai Massimo, anch’io ho fatto un sogno.
- Quale?
- Ho sognato di stare seduta alla toeletta mentre mi guardo allo specchio.
- Proprio come in questo momento?
- Proprio come in questo momento.
- E che cosa succede?
- Premo la matita del rossetto sulle labbra, disegno le labbra d’un rosso fuoco.
- E poi?
- Poi disegno l’arco delle sopracciglia con la matita dorata.
- E poi?
- E poi mi metto le ciglia finte.
- E poi?
- E poi mi metto il fard sul viso.
- E poi?
- E poi, c’è che sono sempre insoddisfatta del colore del rossetto sulle labbra…
- Delle tue ciglia finte…
- Delle mie ciglia finte.
- Delle tue sopracciglia…
- Delle mie sopracciglia.
- Dimmi: mentre tu ti guardi allo specchio, tu ti piaci?
- No, non ho piena consapevolezza di quale sia il fascino che esercito sugli uomini.
- Vai avanti, continua.
- Ritorno continuamente con la matita del rossetto sulle labbra, ne modifico il contorno, oppure ne modifico l’intensità del colore.
- E il risultato qual è?
- È che rimango sempre più insoddisfatta.
- E allora?
- Ritorno continuamente con la matita del rossetto sulle labbra… e le labbra diventano sempre più rosse… sempre più grandi… è impressionante… le labbra si gonfiano fino ad occupare tutta la larghezza del viso… ed io sono sempre più spaventata… e così mi sveglio di soprassalto… sono tutta sudata, guardo la finestra, e la finestra è chiusa, sprangata. È notte e mi accorgo che è stato soltanto un sogno, un orribile sogno.
*
Ely è nuda, come sempre, seduta davanti alla toilette, impugna la matita del rossetto e mi guarda con uno sguardo stranito e lontano che sembra volermi chiedere aiuto. Ma io non posso darle alcun aiuto. Mi stropiccio le mani mentre la guardo. Ely è bella, talmente bella che mi abbaglia un poco e mi intenerisce. I suoi occhi vorrebbero chiedere aiuto ma il portamento altezzoso della sua schiena eretta sembrerebbe smentire il primo proposito.
- Ely, sei talmente bella che la tua bellezza mi intenerisce. Ti rende vulnerabile, terribilmente vulnerabile.
A queste mie parole, Ely si volta indietro lentamente. Noto la progressiva torsione della sua schiena. Il suo volto è spaventato, le sopracciglia si impennano in un lampo di inquietudine e i piccoli occhi di lince mi fissano con uno sguardo lontano. Durante questo frangente scorgo il suo volto nella luce giallastra del mattino ed i suoi capelli biondi riflessi dallo specchio. Ora siamo veramente lontani. Penso che ora siamo terribilmente lontani. Eppure, mai siamo stati così vicini. Così terribilmente affini.
- C’è qualcosa che vuoi dire con il tuo silenzio? – mi chiede Ely con uno sguardo interrogativo.
- Voglio dire che la bellezza è una iattura, oltre che drammatica. – Rispondo con un attimo di esitazione.
- E questo cosa ha a che fare con me, con il mio sogno?
- Paradossalmente, tu sei la proprietaria della tua bellezza, ma su di essa non hai nessun controllo. È la bellezza che invece ti possiede.
- E allora?
- Soltanto un intellettuale di un certo tipo ti può comprendere, può comprendere fino in fondo il tuo dramma.
- E tu mi comprendi?
- Sì, io credo di comprenderti e capisco che per te non c’è scampo.
- In che senso?
- Anche tu sei diretta verso la fine della tua bellezza, verso il nulla che ti chiamerà a sé…
- Anche tu sei diretto verso il nulla… la tua scrittura è preda di un gorgo… hai avuto il successo di quattrini ed ora ne sei schiavo.
- Probabilmente, devo alla mia direzione verso il nulla il successo dell’ultimo romanzo.
- E ci sei riuscito?
- Ci sono riuscito perché il pubblico si è identificato con un perdente: il commissario De Luca, destinato a perdere sempre…
- E come te lo spieghi?
- Oh, semplice… con le pulsioni e le proiezioni subliminali di massa, i lettori si sono identificati con il commissario De Luca, che però forse non vince perché lui non ricerca il successo, anzi lo aborrisce, lo detesta, sa che un eccesso di successo farebbe crollare il sistema. In un certo senso, lo scacco, l’insuccesso favorisce la conservazione del sistema, degli anticorpi del sistema. Ed il sistema sopravvive, e va bene così.
- Insomma, il tuo commissario è dunque un vincente!
- L’unica cosa che può fare uno come lui è non riuscire nel suo incarico.
- Un po’ come te, anche tu scrivi romanzi di intrattenimento per non gabbare il lettore.
- Sì. -
- Il tuo incarico è nel non dare al lettore una facile soddisfazione: tutti i ladri in gattabuia e i buoni sugli scudi. -
- Esatto. -
- Anche tu sei simile al tuo commissario: non vuoi vincere. Ed invece, guarda caso, ora hai vinto davvero un gran mucchio di soldi. Come la mettiamo?
- Questi soldi sono della stessa zecca dei tuoi film porno.
- Lo credi veramente?
- Sostanzialmente, non c’è molta differenza.
- Allora, dovrei tornare nel porno?
- Non c’è differenza.
- La realtà è pornografia?
- La realtà è sempre pornografica.
- È questo quello che pensi?
- È questo quello che penso.
*
- Sai, Massimo ho fatto un sogno.
- Quale?
- Ho sognato che stiamo in riva al mare, seduti.
- Mi sembra un bel sogno.
- Noi stiamo seduti ed io ti parlo.
- E che cosa mi dici?
- Io parlo ma il rumore delle onde del mare copre le mie parole.
- Non ti capisco.
- E allora alzo la voce, alzo la voce ma tu non mi ascolti.
- Io guardo il mare?
- Sì, tu guardi il mare.
- E sto in silenzio?
- Sì, tu stai in silenzio… ed io alzo la voce… alla fine grido.. ti grido nelle orecchie… ma tu non senti le mie parole e continui a guardare il mare.
- E che c’è di strano in tutto ciò?
- È che siamo lontani, terribilmente lontani.
- E invece, siamo vicini, terribilmente vicini.
- Io grido… e ti colpisco con i pugni sul viso… ma c’è come una forza irresistibile che impedisce che i miei colpi ti raggiungano…
- Ed io continuo a guardare il mare?
- E tu continui a guardare il mare come se nulla fosse successo.
- E tu ascolti il mio silenzio?
- Cosa vuoi dire?
- Anche il mio silenzio ti parla, vuole comunicarti delle cose, ma tu non ascolti, non puoi udire il mio silenzio e continui a gridare… gridare…
- Vuoi dire che il tuo silenzio equivale alle mie grida?
- Voglio dire che le tue parole confluiscono nel mio silenzio, e tanto basta.
- Una comunicazione perfetta?
- Una comunicazione imperfetta. Tutto ciò è umano, molto umano.
- Tu tendi all’infinito, Massimo… ed io invece tendo al finito.
- E non potremo mai incontrarci?
- Non potremo mai incontrarci.
- Forse, potremmo incontrarci al di là delle parole e del silenzio.
- Forse.
*
Ely è nuda, all’in piedi, davanti a me e passeggia fumando una Astor con filtro. Io sono vestito con i pantaloni dell’abito grigio di Londra e una camicia bianca che reca appesa una cravatta sghemba e lenta attorno al collo. Fumo una MS con filtro. Ely mi guarda con i piccoli occhi di lince che appaiono ancora più sottili del solito. Ed io la guardo, osservo mentre cammina sugli alti trampoli il suo corpo opalescente, a volte opaco, che ha come dei picchi, uno scintillio di luce che poi si assottiglia e scompare. Là fuori delle finestre chiuse una pioggia batte insistente i vetri. È una percussione nitida e fitta.
- Massimo, io sono nuda?
- Sì, mi sembra di sì.
- Ma tu perché mi vuoi nuda?
- Perché guardandoti io ti possiedo.
- Tutto qui?
- Tutto qui.
*
- Sai Ely, Erodoto narra una storia, la storia di Jole, ripresa poi anche da Hegel nelle pagine dell’Estetica dedicate all’abbigliamento.
- Raccontamela.
- Caudale, re dei Lidi, offre la sua sposa nuda alla vista di Gige, suo alabardiere, per mostrargli che è la più bella donna del mondo. Ma Jole, la sposa, vedendo Gige nascosto nella camera da letto che scappa via, ne prova vergogna. L’indomani, irata, lo convoca e per riparare l’onta dovuta al fatto che l’alabardiere ha visto quello che non avrebbe dovuto vedere, gli offre un’alternativa: o uccide il re e si impossessa di lei e del regno, oppure muore.
- E Gige che fa?
- Gige sceglie ovviamente la prima soluzione e, dopo aver ucciso il re, sale al trono e al talamo della regina.
- Una bella storia.
- Una storia istruttiva.
- Sei tu il re e sei tu l’alabardiere. Tu sei entrambe le persone: uccidendo il re uccideresti te stesso, e poiché hai deciso di procrastinare questo evento, nel frattempo hai deciso di non essere, così ti sottrai al problema.
- Esatto. Sapevo che avresti capito.
*
- Massimo, tu mi guardi continuamente… mi inquieta il tuo sguardo… mi chiedo spesso che cosa vuoi da me… ma non so darmi una risposta.
- Farei prima a dirti ciò che non voglio.
- Non giocare a dadi con le parole, so benissimo che tu vuoi qualcosa… ma non ho ancora capito che cosa.
- E non lo capirai mai.
- Perché?
- Perché la mia volontà è un guscio vuoto… non ho più il concetto di volontà. Le mie volizioni sono un guscio vuoto, una scatola vuota, una scatola con dentro un’altra scatola.
- Io sono come tu mi vuoi?
- Tu sei nella misura in cui io non ti voglio.
- Come sarebbe a dire?
- Ad essere sinceri, tu non sei, non esisti… sì, forse esisti per me… ma nella misura in cui io non esisto, anche tu non esisti.
- Non capisco.
- Nella misura in cui tu non esisti, per me va bene, posso contemplarti, fornicare con te, amarti addirittura.
- Quindi, io non esisto!
- Non ti scandalizzare, è una posizione filosofica la mia, ed una convinzione esistenziale.
- Tu ami l’ombra, il profilo dell’ombra. Sei vivo soltanto nell’ombra. Ormai non sei più capace di vivere. - Io amo il presente, l’eterno presente.
- Tu ami l’immortalità.
- Una specie di immoralità.
- Sei immorale, e questo è assolutamente esiziale. A pensarci bene è incomprensibile come io abbia vissuto accanto a te in tutti questi anni senza accorgermene.
- A ciascuno il suo.
- Però, è stata una buona scuola.
- Per tutta la mia vita sono andato a scuola di immoralità.
- Sì, lo so, come tutti gli artisti sei ammalato di immortalità.
- Forse è vero.
- E non sei più capace neanche di amare.
- Forse, anche questo è vero.
- E non sei capace neanche di ucciderti, né di uccidermi.
- Forse, anche questo è vero.
- Tu ti vuoi seppellire in una tomba… e ci vuoi seppellire anche me… ma non capisci che tutto questo è folle?
- E tu pensi che là fuori, nel mondo, al di là di questo appartamento ci sia quella cosa che chiamiamo vita, amore, passione e altre monete fuori corso?
- In verità, siamo in due, ma non sappiamo più chi siamo.
- Tu sei Ely, io sono Massimo.
- Due esistenze che si negano reciprocamente.
- La verità sta nella negazione, non credi?
- Io veramente pensavo che fosse nella costruzione.
- Ognuno pensa ciò che vuole.
- Ma tu mi ami?
- Te l’ho già detto: la verità risiede nella negazione.
- E allora?
- Allora dovrei dirti che non ti amo, per questo sto con te.
- Tutto ciò è pazzesco.
- Tutto ciò è invece saggio e ragionevole.
- Saggio e ragionevole?
- E riprovevole.
Questi nostri discorsi finivano sempre alla stessa maniera. Attaccavo dei biglietti da cento euro sul corpo nudo di Ely e poi le ingiungevo di camminare davanti a me. Avanti e indietro. Io stavo comodamente seduto sul divano a fumare una sigaretta mentre Ely mi mostrava le sue terga capienti e il pube biondo come i suoi capelli. Poi, Ely si scrollava dalle spalle esili i capelli vaporosi come una nuvola di zucchero filato inarcando le reni ed io divenivo preda della sua sensualità… e continuavamo il nostro viaggio solitario nello scompartimento del treno che ci stava conducendo verso il nulla.
212° giorno AVEVO CHIESTO UN ANTICIPO ALL’ATTESA
Ero stato tutta la mattina nell’ufficio di quella carogna dell’editore. Mi serviva un altro anticipo sul romanzo che non avevo ancora cominciato. Ma all’editore avevo raccontato una balla. Avevo detto che ero arrivato a metà del racconto, che poi lo dovevo “sgrossare”, “limare” e sarebbe stato pronto nel giro di qualche mese. Avevo detto una balla grande come una montagna ma quella volpe non ci aveva creduto. Mi aveva guardato in tralice con aria sorniona. Stava con le mani in tasca seduto dietro la scrivania con le scarpe sulla scrivania. In silenzio. Poi, senza fiatare aveva sfilato dal portafogli il libretto degli assegni e me ne aveva firmato uno in bianco. Mi aveva chiesto che cifra doveva mettere e io gli avevo risposto “centomila”. Avevo tentato il tutto per tutto. E lui senza fiatare aveva scritto prima in cifre, poi in lettere “cinquantamila”. Vedi Massimo – mi aveva detto – ho ancora fiducia in te. E mi ave va porto l’assegno fresco di stampa. Avevo capito che lui aveva capito ma non dissi nulla, intascai l’assegno senza fiatare. Mi sentivo un vincitore, lo avevo costretto a credermi sulla parola. Lo avevo messo con le spalle al muro. Ora era costretto a puntare su di me senza fiatare. Ma ora era lui che mi teneva in pugno dopo che aveva finto di credere alla mia bugia.
- Due mesi. Non uno di più. Capito?
- Uhm.
- Tra due mesi voglio il brogliaccio qui sulla mia scrivania, - disse con aria autoritaria la volpe.
Tra due mesi – mormorai tra me e me – ma forse lui percepì qualcosa della mia frase perché non disse nulla.
Ero stato congedato. Ero stato servito come volevo. Ma ora il coltello dalla parte del manico era passato nelle sue mani. Mi teneva in pugno. Mi precipitai a casa e mi misi davanti allo schermo bianco del computer. Che cosa dovevo scrivere? Che cosa dovevo raccontare? Non ne avevo la più pallida idea.
Stavo ancora davanti allo schermo bianco del computer quando fece ingresso la Ely. Era bella come al solito. Forse più bella del solito. Portava a spasso per la stanza i suoi capelli vaporosi e i suoi occhi di lince. Il suo sguardo era come attraversato da un velo di malinconia. O almeno così mi parve. Io facevo finta di osservare un punto bianco del monitor bianco del computer. In realtà ero disperato. Non avevo la minima idea su cosa scrivere. Ero terrorizzato da quel monitor bianco. E più passava il tempo più sentivo crescere dentro di me un terrore generalizzato che finiva per paralizzarmi.
- Perché non mi guardi, Massimo? – la sua voce squillò come il trillo del telefono nelle mie orecchie.
Fu allora che mi voltai come in ipnosi guardandola negli occhi. Lei teneva ancora in mano un grande pacco regalo in carta argentata legato da un nastro di fili dorati che finiva con un vistoso fiocco e mi osservava con aria interrogativa. C’era una dolcezza nel suo sguardo che mi incuteva una strana inquietudine. Sentivo che uno strano malessere mi saliva da dietro la schiena e mi arrivava al cervello attraverso la mia nuca in fiamme. Era una sensazione sgradevole. Pensai che il suo sguardo indagatore era ingombrante e penetrante come un martello pneumatico. Lei non faceva nulla, lasciava cadere il suo sguardo dolce e gentile rinunciando alle parole. Sapeva della mia idiosincrasia per le parole, conosceva il mio scetticismo sull’uso delle parole, intuiva sempre in anticipo la mia riluttanza per le parole. La sua dolcezza mi esasperava e mi disarmava. A volte avrei preferito un suo sdegno o un appunto, e invece non succedeva nulla, si limitava ad accompagnarmi con il suo sguardo gentile.
- Che cos’è quel pacco? – mormorai con aria distratta.
- È per te – disse la Ely semplicemente.
Guardai il pacco con sorpresa e circospezione ma non dissi nulla.
- Non lo apri? – disse la Ely semplicemente.
- Sì, – risposi con fare svagato – lo apro subito.
Presi un paio di forbici e tagliai il nastro che avvolgeva il pacco, poi tagliai anche la carta argentata e tirai fuori una scatola quadrata. Indugiai un momento prima di aprirla guardando la Ely negli occhi silenziosi.
- Che cosa c’è dentro? – chiesi con circospezione.
- Perché me lo chiedi, faresti prima ad aprire la scatola, – rispose la Ely con un candore che mi disarmò.
Guardai la scatola un po’ come i troiani dovettero guardare la pancia del cavallo che avevano lasciato gli achei fuori della città. Poi, con un gesto rapido e inconsulto, sollevai il coperchio della scatola… Stetti un lunghissimo momento con il braccio alzato con la mano che teneva in alto il coperchio. Dentro la scatola non c’era nient’altro che un’altra scatola.
- Che scherzo è questo, Ely… qui dentro non c’è niente. C’è soltanto un’altra scatola! – esclamai in preda allo stupore.
- Non è vero che non c’è niente, – rispose Ely seraficamente – c’è quello che ci hai trovato. Quello che ci volevi trovare ma che hai paura di trovare. C’è quello che c’è. E nient’altro.
Ero stizzito. Mi sentivo veramente contrariato per la situazione. Mi sentivo preso in giro, come quando ti strattonano per una manica della camicia dopo averti messo alla berlina. Ti strattonano e ti urtano ma tu indugi, indugi…
Afferrai di nuovo le forbici e, con un colpo secco recisi il nastro che lo legava e la carta argentata che lo avvolgeva. Lo aprii con un gesto automatico…
- Ma qui dentro non c’è nulla Ely! Che scherzo è questo? – questa volta non esclamai, la mia voce era ferma e decisa.
- Non è affatto uno scherzo, - rispose la voce grigia di Ely che sembrava provenire da un corridoio.
Ero davvero stizzito. Dentro al secondo pacco c’era un altro pacco confezionato di tutto punto, con un nastro argentato che lo avvolgeva. Era una situazione paradossale. Mi sentivo serpeggiare sulla schiena un moto di stizza e un senso di noia che mi dava un senso di languore allo stomaco. Afferrai con un gesto secco le forbici e diedi un taglio reciso al nastro, aprii la scatola e… ancora una volta dentro non c’era niente.
- Che diavolo di scherzo è questo? – chiesi ad Ely in tono ultimativo.
- Non te ne rendi conto? – mi rispose Ely senza esitazione.
- No, non me ne rendo conto. Vorrei delle spiegazioni.
- Sei tu che devi darmene, Massimo. Io non devo spiegare nulla, sei sufficientemente intelligente per capire quello che voglio dirti.
Finì così quella bizzarra situazione. Ely voleva dirmi che dentro di me non c’era nulla, c’era una scatola vuota, e dentro quella scatola vuota c’era un’altra scatola vuota… e così via… che non c’era scampo per me, che il vuoto era la ragione ultima, il motore immobile che mi spingeva ad andare avanti… che era impossibile avere un dialogo con me, che parlare con me era come parlare ad una scatola vuota. Beh, avrei dovuto fare i complimenti ad Ely per la perspicacia della metafora, e invece non dissi nulla. Riposi le scatole al loro posto dentro la scatola più grande e mi accesi una sigaretta.
*
- Sai Ely che scoperta hanno fatto alcuni scienziati americani?
- Come faccio a saperlo se non me lo dici?
- Col telescopio più grande del mondo hanno avvistato ai confini dell’universo qualcosa di incredibile.
- Che cosa?
- Hanno avvistato un sistema solare incredibilmente uguale al nostro e un pianeta che sembra il gemello siamese della nostra Terra.
- Sei sicuro che non si tratti di un miraggio?
- No, non si tratta di un miraggio. È come se ai confini dell’universo ci fosse un duplicato, un nostro duplicato.
- Quindi, esisterebbe laggiù un nostro sosia?
- Esatto, laggiù esisterebbe il nostro sosia. Ma è irraggiungibile, assolutamente irraggiungibile.
- Anche laggiù continueremmo a questionare?
- Per spiegare questa stranezza gli scienziati hanno formulato una ipotesi fantastica.
- Quale?
- Che è come se ai confini dell’universo ci fosse un gigantesco specchio che riflette il nostro universo.
- Un grande specchio?
- Sì, un grande specchio.
- E cambia qualcosa per noi?
- No, non cambia assolutamente nulla.
- Allora, noi siamo qui ed ora?
- Sì, noi siamo qui ed ora.
- Per me è sufficiente questo.
219° giorno LE PAROLE TRA NOI LEGGERE
Ho il sospetto che Ely abbia riallacciato i contatti con il suo manager, quello dei film porno. Ieri Ely mi ha detto chiaramente che vuole tornare a fare film porno. Vuole fare soldi per la vecchiaia. Che non può continuare a fare la spogliarellista per una manciata di denari tutte le notti. Che vuole dormire. Dormire. Ha ripetuto due volte il verbo “dormire” e mi ha guardato fisso negli occhi per vedere l’effetto delle sue parole. Io mi sono limitato a dire: - e i miei soldi non sono sufficienti? ma lei non mi ha neanche risposto, come se la risposta fosse un atto del tutto trascurabile. Poi Ely mi ha voltato le spalle e ha cominciato a spogliarsi. Rimasta nuda mi ha chiesto: - che te ne sembra del mio corpo? Io le ho risposto che era la donna più avvenente del mondo.
- Lo vedi – mi ha detto – che dai sempre risposte evasive?
- Perché, cosa vorresti che ti dicessi? – ho risposto con un moto di stizza.
- Vorrei che tu fossi conseguente con i tuoi assunti di partenza.
- Quali assunti?
- Non sei forse tu quello che asserisce che bisogna condurre una esistenza di terza categoria?
- Sì, rigorosamente “senza qualità”.
- Bene. Fare del porno è conseguente con questo assunto?
- Sì, perfettamente conseguente.
- E allora ti comunico formalmente che ho deciso di ritornare nel porno.
È subentrato un improvviso silenzio tra di noi. Da qualche tempo le nostre parole non sono più leggere. Ogni parola che ci scambiamo pesa come una palla di piombo. Ogni parola ha un peso terribile sulla bilancia del nostro destino ma noi continuiamo come se non ce ne rendessimo conto. Ogni parola aumenta il nostro disequilibrio.
- Vuoi capitalizzare la tua bellezza per la vecchiaia? – ho ripreso in tono melodrammatico e ironico.
- La mia bellezza non durerà in eterno, Massimo.
La risposta di Ely mi ha colto di sorpresa. Per la prima volta mi sono reso conto che anche Ely pensa alla vecchiaia. Davvero bizzarro, io non ci avevo mai pensato. Non riesco a pensare alla mia vecchiaia, figuriamoci quella degli altri! Chissà perché ho sempre dato per scontato che la bellezza di Ely dovesse durare in eterno. Che fosse indipendente dal tempo. E invece ora Ely mi sbatte in faccia questa evidenza assoluta: anche lei invecchia, inesorabilmente. Ogni minuto che passa è come una ferita che qualcuno porta al suo viso, al suo corpo. Dapprima queste ferite sono invisibili ad occhio nudo. Ma prova a metterle insieme: migliaia, milioni di ferite apparentemente invisibili, e avrai sotto gli occhi il risultato disastroso. Sì, è vero, sono costretto ad ammettere questa verità indiscutibile.
- Il porno come pensione per la vecchiaia?
La mia voce esce come in falsetto, ha un tono sgradevole, come strozzata.
- Tu fai libri di terza categoria, ed io film porno. Che differenza c’è? Ognuno fa quello che può.
Le parole di Ely sono chiare come un annuncio pubblicitario. Sono eloquenti e inconfutabili. E il mio silenzio le rende ancor più definitive. La Ely mi gira intorno sugli alti sandali. Così, completamente nuda è bellissima e seducente. Ad ogni passo echeggia il ticchettio dei tacchi sul pavimento. Io sono immerso nella poltrona e lei continua a girarmi intorno lentamente, ondeggiando le natiche come per misurare una verità autoevidente. Io mi accendo una sigaretta e ne aspiro il contenuto.
Subentra il silenzio tra di noi.
È già finita l’epoca delle parole tra noi leggere.
221° giorno TENDONO ALLA CHIARITA’ LE COSE OSCURE
- Dov’è il tuo ganzo? – chiede ad Ely un uomo corpulento e tozzo sbuffando un alito di cipolle.
- È uscito, - risponde la donna mentendo spudoratamente.
- Non torna subito? – insiste l’uomo rozzo e tozzo.
- Rientra tra poco, – mente la donna infilando una Astor con filtro nel bocchino di avorio.
- Allora, possiamo parlare tranquillamente? – chiede l’uomo come per rassicurarsi.
- Senza ombra di dubbio, c’è il tempo sufficiente, – risponde Ely in modo sibillino voltandogli le spalle.
Il signor Magistri ha fatto ingresso in salotto. Si vede che si trova a suo agio, si muove come un padrone. Ha l’aria dinoccolata, il passo felpato, elegantemente vestito con un principe di Galles nuovo di zecca. Ha cinquant’anni suonati. Glabro, rasato e profumato come una saponetta, muscoloso e palestrato. Sul suo anulare si nota il riverbero di un topazio. Ely indossa un vestito di garza nera trasparente sotto il quale si intravede il suo corpo nudo e flessuoso. Indossa un sottilissimo perizoma e autoreggenti a metà delle gambe, là dove esattamente termina il vestito.
- Ely, una volta eri la prima femmina della mia scuderia, – interloquisce pacato e ironico Magistri.
- Perché sei venuto? – replica di rimando la donna.
- Sono venuto per farti visita.
- Soltanto per una visita?
- Soltanto per una visita.
- Grazie.
- Prego.
- Ma non mi fido delle tue visite improvvise, – riprende Ely non soddisfatta della risposta di Magistri.
- E io non mi fido di te, Ely.
- Come sarebbe a dire?
- Sarebbe a dire che non puoi continuare con l’attuale trend.
- Ovvero?
- Ti sei fatta un amante?
- E a te che te ne importa?
- Sai che si dice in giro?
- Che si dice?
- Si dice che ti sei fatta un amante.
- E allora?
- Un amante pieno di soldi.
- E che altro, vuota il sacco.
- Che da quando stai con lui hai diradato le tue presenze nei locali, e questo nuoce alla tua immagine.
- E allora?
- Sei uscita dal giro.
- Posso sempre rientrare.
- Non curi il target, mia cara, trascuri le presenze nei locali…
- E allora? tira le somme, Magistri.
- E allora corri il rischio di essere rimpiazzata dalle nuove reclute. Non ti sembra questa una buona ragione per riprenderti il tuo target?
- Beh, ho tirato un po’ il fiato.
- Sbagliato.
- E perché?
- Perché non si sa mai… ci sono delle reclute bellissime e il mercato non aspetta i tuoi comodi, mia cara.
- Le nuove reclute non sono del mio livello.
- Non saranno del tuo livello, ma sono belle e giovanissime.
- E disposte a tutto?
- E disposte a tutto.
Magistri, come al suo solito, ha lasciato cadere le parole dall’alto, tra il sornione e il faceto. Sta dando il benservito ad Ely. O meglio, l’avviso, il preavviso di benservito. Ho ascoltato per caso questa conversazione mentre ero nella stanza attigua al soggiorno. Se non l’avessi ascoltata avrei potuto immaginarla integralmente. Potrei riportarla integralmente in una pagina di un mio romanzo. Penso che Magistri è un gran mascalzone, l’ho sempre pensato, anzi, ne sono sempre stato convinto.
Ely si muove sinuosa attorno al nuovo venuto che ostenta una sicurezza e un aplomb perfettamente simmetrici e contigui alla sua rozzezza mentale. Magistri non mi è mai piaciuto, è uno di quegli esemplari maschi che non incontra il favore del mio pronostico ma che non incontra neanche il diniego del mio dispregio. È sua abitudine affrontare il mondo con un misto di soddisfazione e di rozzezza. È un tipo rozzo e tozzo, quadrato come il palazzo del lavoro all’Eur, e a cui la rozzezza si addice perfettamente come le camicie inamidate che indossa senza retropensieri, affabile e untuoso ad un tempo. Non è il tipo di esemplare umano che prediligo ma che neanche escludo dal novero del mio giardino zoologico. Insomma, è un perfetto animale da retrosalotto. Non capisco che cosa ci sia venuto a fare qui in casa di Ely. Sembra visibilmente corrucciato e adirato. È un tipico esemplare del nostro tempo efferato. È un uomo del tutto privo dell’arte della seduzione. Ma, proprio per questo, è un uomo particolarmente versato nell’arte del bordello.
I primi passi li muove con circospezione attorno alle spalle di Ely come un poliziotto intorno al corpo del reato; lei intanto si è seduta sul divano rosso ed ha accavallato le gambe. In questa postura le sue splendide gambe si denudano fin quasi all’inguine. L’uomo che le sta davanti ha la fronte imperlata di sudore, bisbiglia qualcosa tra i denti, parla come se avesse uno stuzzicadenti in bocca, con un sorriso sornione ed affabile.
- Sono venuto qui per farti una proposta, - dice Magistri con un tono scortese, rutilando per aria il suo grosso topazio.
- Indecente?
- Decente, anzi decentissima. E lo faccio perché sei un’amica, e ti stimo, - rilancia l’uomo abbozzando un sorriso ironico.
- Ed io sono qui per ascoltarti, - replica la Ely in tono neutro.
- La mia proposta non è affatto indecente, capita una sola volta nella vita mia cara… - e qui Magisteri getta un’occhiata in tralice alla donna mentre gli volta le spalle.
- Sono qui per ascoltare, - si limita a dire la donna bionda che sta di fronte a lui mentre accenna una torsione appena percettibile del busto.
Li osservo come un estraneo. Come due birilli prima del tiro al bowling. Come se nulla mi legasse ad Ely e non avessi nulla contro Magistri. Come se fossi perfettamente neutrale tra i due attori. Penso che è uno strano connubio quello di Ely con il suo impresario. Dai movimenti impercettibili di Ely noto come un eccesso di confidenza… Magistri è fin troppo rozzo per essere eloquente. Nella sua veste di impresario si comporta con un eccesso di libertà, si muove nello spazio con un eccesso di sicurezza che me lo rende sospetto ed inviso.
Ed ecco che Magistri rompe gli indugi, passa al contrattacco:
- Per quanto tempo il tuo ganzo sarà in grado di mantenerti?
- Perché me lo chiedi?
- Perché prima o poi ti darà il benservito, o magari sarai tu a darlo a lui. Quando ti sarai stancata.
- E allora?
- Allora, sarai disoccupata. Il tuo posto l’avranno preso ragazze più giovani…
Ely è visibilmente contrariata. Si alza di scatto dal divano e si dirige verso Magistri che abbozza un riso sardonico con la faccia paonazza. Nell’atto improvviso di alzarsi, l’esile vestito di garza ondeggia e si solleva mollemente sulle gambe nervose ed sottili della donna. L’uomo la osserva tra il divertito e il sardonico. Ely si accende una sigaretta. È palesemente nervosa mentre sbuffa il fumo di traverso. Le sue gote avvampano d’un rossore insolito.
- Porco, sei un lurido porco, - mormora come tra sé e sé.
Magistri ora è alle spalle della donna, le pone le mani sui fianchi e inizia a palparla. Il fiato caldo dell’uomo è sulla nuca della donna. C’è un silenzio carico di tensione, le mani dell’uomo scorrono sui fianchi e sulle natiche della donna che non accenna a scomporsi, le alzano il leggero vestito scoprendole i glutei attraversati da un sottilissimo filo nero. L’uomo ora ha acquistato maggior sicurezza, la palpa senza ritegno alzandole il vestito sopra le reni e la spinge contro il tavolo. Sento Ely che mormora – porco sei un lurido porco – ma senza convinzione, come se una lussuria proveniente da lontano la stesse occupando. L’uomo le sta sussurrando parole sconce all’orecchio che non riesco a percepire ma di effetto certo e immediato. Infatti, subito dopo, la mia donna ha un moto di cedimento, si appoggia con le mani al bordo del tavolo mentre l’uomo le palpa nervosamente il basso ventre.
- Porco, sei un lurido porco, - mormora la donna, ma nelle sue parole non c’è riprovazione, è un malcelato senso di eccitamento quello che traspare dai suoi movimenti che denotano arrendevolezza ad una forza maggiore, quasi che lei si sia concessa controvoglia alle volizioni dell’uomo. Ho seguito il mio istinto, mi sono avvicinato alla porta del soggiorno e l’ho dischiusa. Appena una fessura. La scena denota l’eccitazione dei due amanti: Magistri si crede solo, in compagnia dell’amante, e la donna sa che nell’altra ala dell’appartamento ci sono io che attendo gli eventi. Ely deve provare una fortissima eccitazione per arrendersi in quel modo a quell’energumeno, senza che l’uomo abbia neanche abbozzato dei preamboli. L’ha abbrancata e abbracciata subito dopo un breve colloquio intimidatorio e lei si è subito mostrata accondiscendente, anzi disponibile, non tanto nelle parole ma nei fatti. La sua resa incondizionata permette all’uomo di padroneggiarla. Lo intuisco dai movimenti dell’uomo che con un gesto rapido e deciso le solleva il vestito, si sbottona i pantaloni e dal gridolino soffocato di piacere della donna all’ingresso della virilità nel suo corpo. La scena che segue è di una brevità e di una eloquenza sconcertante: l’uomo la possiede senza neanche abbassarsi i pantaloni mentre Ely è inchinata, distesa con la pancia sul tavolo, e incita il maschio a prenderla con più forza ripetendo il monotono ritornello:
-porco, sei un lurido porco.
E qui la scena si chiude. Cala il sipario.
229° giorno LA VITA SI SCONTA VIVENDO
Sono passati 235 giorni da quando ho incontrato Ely. A questo punto, dovrei agire. Dovrei prendere da parte quel mascalzone e schiaffeggiarlo. Anzi, avrei dovuto comportarmi così immediatamente, evitando che la scena degenerasse fino a quel punto… e invece niente, sono rimasto inerte, in attesa degli eventi, in qualche modo ingannandomi nell’attesa che accadesse un evento imponderabile che non è avvenuto. Ci voleva poco ad intuire che quell’evento, o meglio, quel clinamen che avrebbe dovuto evitare l’evento, non poteva accadere. Avrei dovuto e potuto impedire che l’oltraggio accadesse. Ely è debole e fragile. Lo sapevo, l’ho sempre saputo. È il suo fascino e il suo punto di forza. Ma anche il suo punto di massima debolezza. Non poteva opporsi al flusso delle cose per il semplice fatto che è priva di energie oppositive, lei vive in uno stato di perenne apnea energetica e volizionale, mentre Magistri è un esemplare senza scrupoli, sa bene quali sono i punti di vulnerabilità della sua ballerina, sa come amministrare il vantaggio che consegue da questa consapevolezza. Ma io sapevo già tutto in anticipo. E sapere in anticipo le cose è un po’ come morire, sai già dove andrà a parare il flusso delle cose, sai già quali effetti produrranno e quali altri non si produrranno. Sai tutto ciò, ma non sai agire… non sai soffrire… ti senti morire un poco alla volta in uno stato di incoscienza e di inerzia, come se l’eccesso di consapevolezza ti conducesse ad uno stato di totale inerzia. È paradossale. La mia è una malattia inguaribile. Sono malato, profondamente malato.
*
Penso che Massimo sappia già tutto o, se non lo sa, lo sospetta fortemente. Le ipotesi sono due: o Massimo sa e fa finta di niente, o non sa ma sospetta che il fatto sia accaduto. Sono certa che Massimo ha capito che Magistri era il mio amante prima che lui entrasse nella mia esistenza. Ma perché proprio Magistri? Un uomo repellente, senza dubbio, rozzo e repellente. Ma proprio per questo terribilmente eccitante e provocante. Mi attira il modo con cui mi guarda, mi tocca e mi mette le mani addosso. Io sono la sua puttana che può umiliare dove e quando vuole. E questo mi eccita. E questo lo eccita.
*
Ieri Massimo è entrato nella mia stanza per annunciarmi che Magistri stava aspettando in salotto. Io ero nuda seduta alla toeletta che mi stavo rifacendo il trucco. Ho detto semplicemente a Massimo di farlo entrare. Lui ha richiuso la porta e si è ritirato. Subito dopo la porta si è aperta ed ha fatto ingresso Magistri. Aveva la solita faccia paonazza. Io ero sempre seduta alla toeletta, non l’ho neanche guardato né salutato. Da uomo rozzo qual è, lui ha subito capito che era una scena di seduzione. Mi ha preso per le spalle e mi ha fatto inchinare sulla mensola della toeletta, si è sbottonato i pantaloni e senza neanche dire una parola mi ha posseduta lì dove ero, con le mani appoggiate alla toeletta. Si è sbottonato i pantaloni e mi ha posseduta. Il silenzio era rotto soltanto dai suoi mugolii di piacere. È entrato direttamente nel mio intestino. Ha umiliato la mia femminilità. Ha usato il mio corpo come un fodero per il suo membro virile. È stato tutto così umiliante ma terribilmente eccitante. Ha raggiunto immediatamente l’orgasmo, ha tirato fuori il pene e se lo è sistemato nella patta dei pantaloni. Non mi ha neanche guardata, non mi ha baciata e non mi ha detto una sola parola ed è uscito dalla stanza, in silenzio così come era venuto. Mi ha lasciata terribilmente eccitata ed umiliata.
Poco dopo la porta si è aperta ed è entrato Massimo. Io ero sempre seduta alla toeletta, come poco prima, nuda, come quando era entrato Magistri. Non ha detto una parola. Mi ha guardato attraverso lo specchio ed è uscito. Perché questo comportamento? Ha voluto sincerarsi che avevamo fornicato? Ha voluto prendere atto della prova del mio tradimento?
*
Siamo giunti a 240 giorni da quel capodanno. Il salotto rosso è immerso nella penombra, le tende color porpora sono tirate. Ad un angolo della sala arde un lume rossastro. Massimo è sprofondato nel divano e fuma una sigaretta. Le volute di fumo aleggiano e stazionano nell’atmosfera della stanza rendendola irrespirabile. La porta si apre e fa il suo ingresso Ely con il suo passo di lince, completamente nuda con gli autoreggenti a rete che giungono fin quasi agli inguini ed alti stivali neri che sorpassano il ginocchio; si reca verso l’armadio con un passo ondeggiante e studiato, tira fuori un tailleur nero dalla gonna cortissima. Lo indossa con svogliata negligenza dinanzi allo sguardo dell’uomo. Ora, l’abito fascia completamente il corpo esile e carnoso della donna la quale si volta verso il suo uomo, si china leggermente in modo che lo sguardo del maschio ricada sul suo pube rigoglioso che nel frattempo emerge da una insondabile profondità.
- Dove vai? – le chiede Massimo.
- Non sai dove vado? – risponde sorniona la donna.
- No.
- Vado da Magistri.
A queste parole segue un silenzio eloquente. È già tutto scritto in un libro che qualcuno forse sta scrivendo. Gli eventi accadono senza che noi possiamo far nulla. Questi pensieri frullano nella testa di Massimo quando squilla la voce di Ely:
- O meglio, il mio amante.
- Magistri è il tuo amante? – risponde Massimo come un’eco risponde alla voce che parla.
- Perché fai finta di non saperlo?
- Ora ne prendo atto.
- Allora, prendine atto.
- Non credi che dovrei impedirti di frequentarlo?
- Perché ti tradisco?
- Non me ne importa niente del tuo tradimento.
- E allora perché dovresti impedirmi di frequentarlo?
- Per evitare che tu uccida me.
- E chi ti ha mai detto che ti voglio uccidere?
- Non c’è bisogno di dirlo per farlo.
- È possibile che nessuno di noi due uccida l’altro.
- Ma potrebbe avvenire qualcosa…
- Che cosa?
- Non so, un incidente.
- Oppure, potrebbe intervenire un terzo incomodo…
- Il tuo Magistri?
- Il mio Magistri.
- Perché mi tradisci con Magistri?
- Perché è un essere abietto.
- E ti eccita la sua abiezione?
- Mi eccita la sua abiezione.
- E poi?
- Mi eccita la mia umiliazione… e la tua.
- Un quadretto edificante.
- E a te ti eccita che Magistri sia il mio amante?
- Sì, mi eccita.
- E ti eccita che io vada da lui senza niente sotto?
- Sì, lo sai che mi eccita.
- E sai che lui si eccita al pensiero che tu lo sai?
- E che ti lascio uscire vestita così?
- Esattamente.
- Sì, lo so che tu lo sai e lui sa che noi lo sappiamo.
- E tutto questo ti soddisfa?
- Diciamo che mi dà una certa soddisfazione.
- Non avevo dubbi.
- Dunque, tu ora andrai da Magistri più nuda di quando sei nuda…
- E lui si ecciterà.
- E cosa pensi che farà Magistri?
- Oh, è un uomo del tutto privo di immaginazione.
- Cioè?
- Aspetterà il suo turno.
- Vuoi dire che sarai tu a decidere quando verrà il suo turno?
- Aspetterà il suo turno.
- Andrete a cena?
- Andremo a cena in un ristorante chic.
- E poi?
- E poi lo farò eccitare. Accavallerò le gambe davanti a lui.
- E poi?
- Ma lui non potrà fare niente perché saremo in pubblico.
- E allora, quando passerai all’azione?
- Ad un certo punto della cena, io mi alzerò dal tavolo e mi dirigerò alla toilette.
- E lui ti verrà dietro come un segugio.
- E lui mi verrà dietro come un cagnolone infoiato.
- E lo manderai in bianco?
- Non lo so, deciderò al momento.
- Perché me lo racconti?
- Per farti eccitare.
- Per farmi eccitare?
- Non è questo quello che vuoi?
- Sì, è questo quello che voglio.
- Tra di noi è finita?
- Non credo che tra di noi sia finita.
- Non finirà mai?
- No, finché tu avrai bisogno della mia trasgressione.
- Ci hai messo molto tempo per capirlo.
- Sì, lo confesso, c’ho messo del tempo.
- Magistri ti eccita perché è rozzo?
- Sì, Magistri mi eccita perché è mentalmente rozzo.
- Bene, ora sappiamo tutto l’uno dell’altra.
- Sì, sappiamo tutto l’uno dell’altra, quindi il nostro amore è finito.
- Il mandato è stato adempiuto.
- La vita si sconta vivendo.
234° giorno RECITATIVO A DUE VOCI
Siamo arrivati a 246 giorni dall’inizio della nostra storia d’amore. Siamo uno di fronte all’altra, all’in piedi nel salotto rosso. Come estranei. Ormai non abbiamo più nulla da dirci.
- A questo punto penso che non abbiamo scampo, - recita una voce maschile atona e afona.
- Anch’io penso che non c’è una via di mezzo, - risponde una voce esile e gracile.
- Tertium non datur, - recita di nuovo una voce maschile.
- Una terza via non può che prolungare l’agonia.
- Questa sarebbe già una soluzione.
- Una falsa soluzione.
- E allora qual è la tua proposta?
- La mia proposta è andare dritto verso il finale.
- Il finale di che cosa?
- Il finale di partita.
- E dopo la partita non c’è nulla?
- Dopo la partita non ci sarà più nulla.
- Ma il finale deve essere veramente un finale.
- Il finale sarà un finale.
- E non ci può essere un altro finale?
- No, non ci può essere un altro finale.
- E qual è la posta in palio?
- La vita è la posta in palio.
- E ti sembra che ne valga la pena?
- E a te non sembra che non sia un buon motivo per verificare se ne vale la pena?
- Un finale che dia una risposta retroattiva non è un finale.
- E allora, cosa proponi?
- Un finale deve valere per sé, deve avere valore paradigmatico.
- Non deve presupporre nulla?
- Non deve provare nulla.
- Essere un assoluto?
- Essere unico.
Ely è seduta alla toeletta. È nuda e mi volta le spalle. Guarda la propria immagine riflessa nello specchio, come se volesse sincerarsi che quella immagine riflessa sia veramente la copia del suo sembiante con i voluminosi seni appuntiti che ai miei occhi non rappresentano più un richiamo erotico. Sono soltanto seni appuntiti e nient’altro. Io sono all’in piedi a tre passi da Ely ed impugno nervosamente una sigaretta. Impugno la sigaretta proprio come il commissario De Luca impugna il suo revolver.
- Sai qual è l’ultima scena del commissario De Luca nel romanzo che sto scrivendo?
- Come faccio a saperlo se lo stai scrivendo?
- Il commissario è seduto davanti all’assassino, lo sta interrogando. Ha la prova dell’assassinio ma non vuole mostrargliela.
- Perché?
- Perché lo ritiene umiliante.
- Ne fa una questione di estetica?
- Diciamo che ne fa una questione di estetica.
- L’estetica come ultima spiaggia?
- No, per il commissario De Luca l’estetica è un principio prioritario, prescinde dalla sua volontà.
- Insomma, il tuo commissario acchiappafantasmi risolve tutte le questioni in estetica?
- Diciamo di sì.
- E allora penso che il tuo commissario andrà incontro ad un nuovo scacco.
- Diciamo che è una eventualità possibile.
- Diciamo che è inevitabile.
- Diciamo che è procrastinabile.
- Nel prossimo romanzo?
- Nel prossimo romanzo.
- Ammesso e non concesso che lo scrittore sopravviva fino al prossimo romanzo.
- Assodata la precondizione che l’autore riesca a sopravvivere.
- Ammesso che questa eventualità si verifichi, il prossimo romanzo partirà dall’ultima scena del precedente?
- Esattamente.
- Ammesso che tu riesca a sopravvivere fino al momento in cui scriverai il prossimo romanzo.
- Ammesso che anche tu riesca a sopravvivere fino al momento in cui io scriverò la prima scena dell’ultimo romanzo.
Segue un lungo silenzio tra i due interlocutori durante il quale i due amanti si scoprono lontani, terribilmente lontani. Le ultime frasi non lasciano margine a dubbi. Ciascuno dei due interlocutori procede per la propria direzione, pur sapendo che è entrato in rotta di collisione con l’altro.
- Sai, ho un ricordo che ritorna sempre nella mia mente. – Esordisce la voce della donna.
- Quale?
- Io sono piccolissima, mio padre mi conduce per mano su un lungomare. Una ringhiera di ferro mi separa dal mare che appena al di là rumoreggia e alcuni spruzzi mi colpiscono in viso.
- Tutto qui?
- Tutto qui.
- E perché mi racconti questo ricordo?
- Non lo so.
- Non lo sai?
- È il ricordo più lontano che ho di mio padre.
- Ed è anche il ricordo che ti è più vicino.
- Come se tutti questi anni non fossero passati affatto.
- Forse davvero non sono mai passati.
- Nel senso che non sono mai accaduti?
- Nel senso che non sono accaduti veramente.
- Che non sono veri?
- Che non lo sono mai stati.
- Vuoi dire che sono più vicina a quello che tu chiami l’essenza delle cose?
- Sì, forse ci sei davvero vicina.
- E adesso potrei morire?
- Lo hai detto tu.
- Sì, l’ho detto io.
(…)
- Dimmi la verità Massimo: ora posso morire?
- Sì, potresti morire… ma non avverrà. Non ti illudere non avverrà.
Segue un altro lunghissimo silenzio al termine del quale i due amanti si scoprono estranei, completamente estranei. È tramontata per sempre l’epoca delle parole leggere e i due interlocutori sono entrati, senza che se ne rendessero conto, nell’epoca delle parole pesanti.
- E tu Massimo ce l’hai un ricordo che a volte ti torna nella mente quando meno te lo aspetti e senza alcuna apparente ragione?
- Sì, c’è un ricordo che mi ritorna nella mente… ma non so se è realmente accaduto.
- Cosa vuoi dire?
- Forse l’ho soltanto sognato… forse è un sogno o forse è una allucinazione… forse ho pensato di sognarlo o forse non l’ho mai veramente sognato.
- E che differenza fa?
- Oh, c’è differenza…
- Quale?
- Il tuo ricordo corrisponde ad un evento reale: ci sei tu bambina e tuo padre che ti tiene per la mano.
- Ed io sono felice.
- Il cielo è azzurro e il mare spumeggia. Ci sono tutti gli ingredienti per un bel quadretto.
- Cosa vuoi dire?
- Che il tuo ricordo è un falso. È una costruzione posticcia creata dalla coscienza per nascondere un’altra verità
- Ma che stai dicendo?
- Sto dicendo che la tua coscienza ha cancellato un altro ricordo. Anzi, per il vero lo ha soppresso.
- Quale?
- Il ricordo dell’odio verso tuo padre e del desiderio di ucciderlo per restare accanto a tua madre che volava sul trapezio con la sua coda di cavallo.
- Che cosa stai insinuando, bastardo?
- Sto dicendo che tu volevi uccidere tuo padre e speravi che quegli spruzzi potessero attingerlo a fagocitarlo nel mare, farlo precipitare al di là della ringhiera di ferro!
A queste mie parole Ely si volta di scatto e mi guarda con il volto adirato e sconvolto da un impeto di rabbia. Ma non parla, non pronuncia neanche una sillaba. È così bello il suo volto irato con i seni che ondeggiano e svettano in alto. Improvvisamente, mi affiora alla mente l’idea che Ely è una donna sola, terribilmente sola e che nella vita ha lottato sempre da sola contro tutti e tutto, contro di me, contro Magistri, contro se stessa… Improvvisamente, provo una grande tenerezza per quella donna che mi osserva come se volesse trafiggermi. Io la amo come non l’ho mai amata, ma questo lei non può saperlo, non può neanche sospettarlo, e forse è bene che non lo sospetti affatto, che tutto rimanga seppellito sotto una montagna di indifferenza e di ostilità. Sotto una coltre di neve. Forse è bene che lei mi odi come ha odiato suo padre, che lei mi odi con tutte le sue forze… perché questo e soltanto questo è il suo modo di amarmi… e soltanto così mi può amare finalmente… completamente e compiutamente. Senza remore e senza reticenze…
- Tu sei un porco, un maiale…
(…)
- Non sei diverso da Magistri…
(…)
- Non sei migliore di nessuno…
(…)
- Tu, quell’impotente del commissario De Luca…
(…)
- Il tuo doppio che ti perseguita…
- Sì, probabilmente hai ragione: ho fatto confusione con il mio doppio, ho scambiato la finzione per realtà e viceversa. E il mondo è andato all’incontrario. Che ci vuoi fare.
Intenzionalmente ho assunto un tono ironico, per dimostrarle che sono indifferente. Completamente indifferente alle sue provocazioni.
- Sei un maiale…
- Ma era tutto un’illusione.
- Incapace di amare e di odiare…
- Se le finzioni del cuore fossero davvero le finzioni del mio cuore…
- Un essere abietto, incapace di essere vero fino in fondo…
Ely pronuncia la frase come se stesse a teatro, calcando sulla parola “vero” tutto il disprezzo di cui è capace. Ora, finalmente il suo amore si è mutato in disprezzo. Non posso fare a meno di pensare che siamo giunti all’ultimo atto della commedia e decido di affondare il colpo.
- Hai tanto desiderato di uccidere tuo padre che ora con me stai recitando il medesimo copione, suoni il medesimo spartito.
Ely è immobile, come pietrificata dalla mia scoperta. Non sa andare né avanti né indietro e si rifugia nell’ultima trincea che le è rimasta: l’insulto.
- Tu sei un essere abietto che non sa andare incontro al tuo cuore…
Non le concedo scampo e la incalzo verso l’epilogo.
- Ed ora vuoi compiere quel gesto che allora non hai potuto compiere.
Ely è sempre immobile e nuda.
- Non è mai troppo tardi, vigliacco!
- Fortunatamente, puoi uccidere di nuovo tuo padre.
La mia voce è algida come se provenisse dall’Himalaja.
- Sì, ti ucciderò… come meriti…
- E io mi farò uccidere…
(…)
- Anzi, ti darò una possibilità. Un’ultima possibilità.
- E io non me la lascerò scappare…
248° giorno FINALE DI PARTITA
È scoccato il 248esimo giorno del nostro amore. È il 25 settembre dell’anno… ma che importa? Che ne è stato di me, di Ely? Che cosa è accaduto in questi lunghissimi duecentoquarantotto giorni? Io ed Ely, siamo ancora una volta immersi nel salotto rosso, l’uno di fronte all’altra. L’ultimo dialogo dell’ultimo atto.
- Ci sono molte cose sotto il cielo di Danimarca che la tua filosofia non può comprendere.
Recita una voce maschile come in falsetto, come se il sipario del teatro si fosse spalancato ed esigesse la battuta iniziale.
- Ci sono molte esistenze che non vale la pena di vivere.
Replica una voce di donna afona e sottile.
- La vita si sconta vivendo, - insiste la voce maschile.
- La vita è un atto di insensata belligeranza, -
Risponde la donna più per scommessa che per volizione. Siamo giunti all’epilogo, all’ultima scena. Ely mi fa tenerezza, lei non può andare oltre se stessa. Ma neanch’io posso andare oltre me stesso.
- Cosa c’è di più insensato del nostro amore, Ely?
- Non c’è nulla di più insensato.
- Io però vorrei dare un senso alla nostra esistenza, Ely.
- Fallo, se lo ritieni un atto dovuto.
- Dobbiamo percorrere la strada fino in fondo.
- Credi tu che ci sia una strada?
- No, forse non c’è alcuna strada ma dobbiamo fare finta che ci sia. Che noi ci troviamo ad un crocevia e che dobbiamo scegliere se andare a destra o a sinistra.
- O tornare indietro.
- O andare avanti.
- Credi che nella vita ci sia concessa ogni soluzione?
- Sì, e credo che una volta fatta la scelta abbiamo il dovere di andare fino in fondo.
- Bene, allora prepara un bel funerale.
- Preparerò il nostro funerale, Ely.
- Sei l’uomo del mio destino. Quello sul quale ci appiccichi i fogli del calendario.
- Anche tu sei la donna del mio destino.
- Allora, faremo un bel funerale al nostro comune destino!
- Faremo un bel funerale al nostro comune destino.
Ely è di fronte a me, nuda. Come al solito, calza dei sandali con dei tacchi molto alti. Con un passo felpato ed agile di gazzella si dirige verso l’altro capo del salotto e ritorna brandendo una borsetta di pelle. Ely mi osserva con circospezione e curiosità. Lascia oscillare la borsetta come un pendolo davanti al mio sguardo attonito. I riccioli del suo pube risplendono alla luce del tramonto che filtra dalle tende tirate come una cortina fumogena che annebbia la scena più che non la illumini.
- Bisogna trovare un degno finale di partita, vero? – recito con un leggero filo di ironia.
- Sei tu il narratore, a te il compito di narrare gli eventi, – replica la donna che rivela un autocontrollo che non mi sorprende affatto.
Ely passeggia intorno a me che sono seduto al tavolo del salotto mentre tambureggio con le nocche delle dita. Ely ancheggia con dei movimenti lenti e studiati: i glutei polputi salgono e scendono come su di una scala immaginaria approfondendo le due concavità poste ai lati, ciò che rende ai miei occhi il suo corpo ancor più avvenente ed eccitante. Come se quella danza apotropaica stesse per sortire i suoi effetti e scongiurare gli spiriti maligni che aleggiano.
- Lo sai che hai il fondoschiena più invitante del circondario?
- Lo so, - risponde una voce femminile anonima e algebrica.
Io sono sempre seduto al tavolo del salotto, indosso un inappuntabile vestito di tweed grigio e tambureggio sul tavolo con le nocche delle dita. Mi accendo una MS con filtro e sbuffo pessimo fumo nell’ambiente circostante. Nuvole di fumo galleggiano come galassie illuminate nel cosmo galattico della stanza. Ely passeggia attorno al tavolo con le lunghe gambe affusolate, le manda avanti e indietro con la finta riluttanza e la perizia della spogliarellista che commisura i movimenti in base agli effetti che intende suscitare negli astanti.
È strano, ormai siamo due nemici che si spiano a vicenda, che osservano reciprocamente i movimenti dell’avversario come per anticiparne le mosse e neutralizzarle prima che divengano letali.
Ciò che un tempo ci univa si è tramutato in un muto desiderio di distruzione e di autodistruzione. Per la legge dei vasi comunicanti, perché, ciò che un tempo ci univa, adesso è lo stesso elemento che ci divide. Come tutto ciò sia potuto accadere, mi chiedo. Forse anche Ely si sta chiedendo come sia avvenuto. Ma ormai è troppo tardi. Troppe cose sono accadute che non abbiamo saputo o potuto evitare e prevenire. È come quando stai sotto un diluvio: aspetti che il rovescio passi, credi ingenuamente che lo scorrere del tempo debba necessariamente portare il bel tempo, che prima o poi uno squarcio di azzurro spazzi via le nuvole e la pioggia. Ma tutto ciò non avviene, il diluvio anziché diradarsi si infittisce… il legame che un tempo ci univa adesso si è tramutato in zavorra, zavorra di cui dobbiamo liberarci in fretta e furia se vogliamo sopravvivere. Ed è per questo che ci affrettiamo a buttare la zavorra in acqua, prima che la barca affondi. Ed ora questa nostra sarabanda è diventata una danza macabra dove officiamo il rito del supplizio, del reciproco martirio. Fino in fondo. So che la Ely andrà fino in fondo, saprà andare fino in fondo. Lei passeggia intorno al tavolo dove io sto seduto a fumare algebricamente e febbrilmente. Ma in realtà sta officiando una danza macabra. Tra poco farà il suo ingresso il cadavere…
- Tra poco farà il suo ingresso il cadavere che stiamo attendendo, Ely… - recito come se leggessi i miei pensieri scritti in un canovaccio.
- Sì, può darsi, - risponde la donna con aria distratta come se tentasse di decifrare i suoi.
*
In quel frangente, si avverte il rumore della serratura della porta d’ingresso. Con un cigolio la porta si apre e fa il suo ingresso nel salotto la faccia tozza e paonazza di Magistri. Ha le chiavi di casa, non posso fare a meno di pensare, e si comporta come un vero padrone di casa. Può entrare ed uscire quando vuole, può decidere gli orari e le modalità per le sue apparizioni in teatro, ammesso e non concesso che questo sia il proscenio di un vero teatro dove si recita una vera commedia. Ha il volto ottuso di un dromedario che abbia attraversato il deserto. Né Massimo né Ely accennano il minimo movimento o la minima sorpresa per la venuta del nuovo attore. Rimangono immobili ai loro posti come se la mano invisibile del regista avesse loro imposto di non far trapelare alcuna emozione o trasalimento. Massimo volta sprezzantemente le spalle a Magistri, ma è come se lo vedesse chiaramente con quel suo faccione paonazzo che non sa esprimere altro che sorda ottusità. Massimo sa che il nuovo venuto non capisce o intuisce un bel nulla della situazione che gli si sta manifestando e nella quale corre il rischio di precipitare. È troppo ottuso e arrogante per capire qualcosa che vada altre il suo tornaconto immediato e particolare. Ed è anche troppo codardo per comprendere che la faccenda lo riguarda, che riguarda anche lui. E questa è la sua forza, crede che la faccenda riguardi soltanto lo scrittore e la Ely. Ma si sbaglia e di grosso.
- Vedo che siete impegnati in un colloquio, - interloquisce la faccia tozza di Magistri.
- Accettiamo volentieri che anche tu entri a far parte del nostro dibattito, - risponde l’uomo in tweed accentuando il plurale maiestatis per invitare l’ospite a venire allo scoperto.
- Non vorrei disturbare le loro signorie… ma se tanto mi dà tanto…
Magistri pronuncia queste parole mentre passeggia avanti e indietro per la stanza con passi lunghi e distesi, come se si fosse accuratamente preparato la parte che intende recitare. Si accende una sigaretta con gesto rapido e deciso. E sbuffa il fumo con visibile ottimismo, con la stessa naturalezza con la quale un comignolo emette il prodotto della combustione. Incidentalmente, ad ogni giro di valzer, il faccione grasso e grosso di Magistri si incrocia con il volto magro e pallido di Massimo; per alcuni istanti gli sguardi dei due uomini si incrociano ed hanno come un reciproco sussulto. Ma è appena un istante. Massimo non sembra tradire alcuna emozione, il suo sguardo appare immobile e tranquillo. Anche Magistri non sembra tradire alcuna emozione, il suo occhio riposa nei suoi umori come il tuorlo dell’uovo nell’albume.
- Dicevi, se tanto ti dà tanto… – ripete meccanicamente Massimo raccolto nei suoi pensieri.
- Dicevo, che a ciascuno spetta il proprio onere… né più né meno… – replica il faccione di Magistri.
- E quale sarebbe il tuo onere? – insiste Massimo.
- Il mio è un onere condizionato. – È chiaro che Magistri sta tentando una via di fuga.
- Condizionato da cosa? – replica con una punta di disappunto Massimo.
- Condizionato dalla vostra posizione… mi si passi il termine improprio.
Magistri pronuncia queste parole in punta di denti come se un dentista gliele avesse estorte con la pinza dalla bocca.
- Dalla nostra posizione? – ripete Massimo come se non avesse capito dove vuole andare a parare Magistri.
- Ma sì, dai, dal vostro tipo di rapporto, non fare lo gnorri Massimo! – sbotta visibilmente contrariato Magistri.
- E tu quale tipo di rapporto credi sia il nostro? – insiste Massimo con voce algida, affettando una ingenuità che non ha.
- Beh, non fare il finto tonto… tu stai qua con la tua gazzella ed io sto un po’ più in là con la tua donna, che è anche la mia… non c’è nulla di strano. È un triangolo, una figura geometrica, niente di più.
Magistri pronuncia queste parole nella consapevolezza di riuscire irriguardoso e volgare. Intende provocare Massimo.
- Quindi ci entri pure tu in questo gioco delle parti? – incalza Massimo con voce melliflua e fintoingenua.
- Beh, diciamo che ci sono anch’io in questo gioco delle parti, - risolve Magistri con voce altrettanto melliflua e rozza.
- Quindi è una partita che si gioca a tre, - dichiara Massimo come per prendere atto di un fatto del tutto naturale.
- Mettiamola così: è una partita che si gioca a tre con il sottoscritto nelle vesti di spettatore, - replica il nuovo venuto che non ha nulla da perdere dalla situazione e sta cincischiando. Come fa il gatto col topo.
- Diciamo allora che sei qui nelle vesti di spettatore interessato, - dichiara Massimo come chi ha raggiunto un punto fermo del discorso da cui intende ripartire.
- Mi dispiace per voi – interloquisce la voce femminile che risponde al nome di Ely – ma ci sono anch’io in carne ed ossa e avrei qualcosa da dire in proposito.
- A te tutto il diritto di prendere parte al dibattito, dopotutto sei la mia amante e nello stesso tempo l’amante dello scrittore, – dice Magistri con il tono più candido e offensivo del mondo.
La voce di Magistri ha qualcosa di rivoltante e di ripugnante. Starnazza come una quaglia, cosa che stride non poco con la taglia da boxer della sua figura. Ely invece è sottile e gracile come una ninfa e la sua nudità appare ancor più scoperta e fuori luogo nel contesto del salotto con i due uomini vestiti di tutto punto con le cravatte al punto giusto che oscillano dai colletti inamidati della camicia. Magistri crede di stare al normale tavolo da gioco di una normale partita di poker; Massimo invece sa che la partita che si sta giocando è l’ultima e che sarà quella decisiva. È questo il suo vantaggio strategico ma è troppo onesto intellettualmente per sfruttarlo ai propri fini. Ely, a sua volta, è condizionata dal risentimento che nutre nei confronti di Massimo ma è altresì condizionata dalla ripugnanza che avverte nei confronti del nuovo amante. Inoltre, Ely è nuda e passeggia tra i due contendenti in attesa che accada qualcosa, che qualcosa richieda il suo intervento. È a questo punto della partita che la donna si avvicina all’amante, gli sbottona la camicia all’altezza del petto e ci infila una mano. Gli massaggia il petto villoso e gli sorride in modo sfacciato e grottesco. Magistri è troppo rozzo per capire che il gesto della donna è stato artatamente studiato per farlo venire allo scoperto. E l’uomo rompe gli indugi, prende ad accarezzarle il sedere con l’aria visibilmente soddisfatta di chi crede di poter gestire una situazione imbarazzante.
- Dunque, esaminiamo la situazione: è una partita a tre che però si gioca in due perché il terzo è fuori gioco. Dico bene? Questo a dire del terzo che chiameremo C. Poi ci sono A e B, la coppia che non è più una coppia ma che per ragioni di brevità e di chiarezza continuiamo a chiamare la coppia, - interloquisce la voce esaustiva di Massimo con una punta di scherno.
Lo scrittore cerca di mettere un ordine alla situazione. Un ordine mentale prima di passare all’azione. Cerca di mettere un punto fermo.
- Per i miei gusti, fai troppa filosofia, Massimo. Secondo me le cose stanno molto più semplicemente così: c’è la tua donna che mi sta toccando… lo sai che mi fa eccitare sapere che tu fai il guardone… e poi, lo so che ti eccita vedere la tua donna abboccata all’amo, impigliata come un pesce nella rete di un altro pescatore. Questa situazione ti eccita, vero? Hai condotto questo gioco fino a questo punto soltanto perché ti eccita, e ti eccita perché sei impotente, o meglio quasi impotente, ti eccitano soltanto le situazioni scabrose. E questo è tutto quello che ho da dire. Il resto dillo tu.
Magistri ha parlato come se vomitasse, tutto d’un fiato, in ossequio alla sua abitudine di dire e fare le cose sempre in modo diretto e brutale, sbattendole in faccia all’interlocutore. Lui fa parte di quella parte dell’umanità che è convinta che una sana immediatezza sia preferibile a una insana mediazione, e si comporta di conseguenza. Ciò collima perfettamente con le sue più riposte convinzioni e gli conferisce quel mandato a trattare tutte le faccende umane come materie da sbrigare con celerità e determinazione. Lui abita sempre e soltanto il suo pianeta, sa respirare sempre e soltanto la sua atmosfera. Per Magistri sarebbe impensabile adattarsi all’ossigeno di un’altra atmosfera e di un altro pianeta.
Nel frattempo Ely si accende una Astor con filtro, la infila in un lungo bocchino di avorio e inizia ad aspirare lentamente il fumo come se respirasse un’altra atmosfera. Massimo si volta meccanicamente ora da una parte ora dall’altra, in direzione dei due interlocutori, segue l’itinerario delle loro parole come un segugio insegue le tracce della preda. Ely sbuffa nuvole di fumo ora sulla faccia di uno ora sulla faccia dell’altro interlocutore, sbattendo le anche alte ed avvolgenti con un movimento ritmico e circolare, come un grammofono.
- Tira una cert’aria da carbonari, - recita la voce algida di Massimo.
- La sapete una cosa? Per opposte ragioni vi detesto, - tenta di interrompere la situazione Ely.
Ely lascia cadere queste parole come se non ne avesse avuto l’intenzione, diciamo, in via incidentale, come un manrovescio affibbiato ad entrambi ma più per caso che per causa.
- Eppure, siamo qui per te, – riprende come se nulla fosse Magistri dall’alto della sua figura tozza e franca.
- Siamo convenuti attorno a questo tavolo come tre condannati, non ve ne rendete conto? – rilancia la Ely guardandoli in tralice.
- In verità, siamo più simili a delle controfigure che non a degli attori, – pronunzia Magistri in tono di scherno.
- Siamo dei condannati ma ancora non ce ne rendiamo conto, – soggiunge la voce di Massimo che realmente ormai proviene da un’altra atmosfera.
- Condannati a cosa? – chiede la voce di Magistri.
- Ci sono due tipi di condanna: quella a vivere e quella a morire, – recita la voce di Massimo come di chi sta impartendo una lezione.
- E quale sarebbe la nostra? – chiede l’uomo tozzo.
- La nostra è quella di mettere un punto.
- Mettere un punto?
- Sì, mettere un punto di non ritorno, – risponde l’uomo in tweed grigio.
- Sei uno sbruffone, Massimo,– dice Magistri con tono imperiale – nient’altro che uno sbruffone.
L’uomo calca il tono della seconda metà della frase attento a conferirle la massima enfasi. Poi, si volta ad osservare il rivale con aria di sfida. L’interlocutore in tweed grigio è all’in piedi. È più alto di lui, magro, pallido, ha le guance scavate, come se una febbre lo avesse roso dal di dentro e gli avesse distillato la materia. Massimo lo osserva dall’alto verso il basso con uno sguardo che cade come una ipotenusa verso il catete della base.
- E tu sei sordido, non sei diverso da un topo di fogna che alligna nel suo habitat, - pronuncia la voce di Massimo con un che di stentoreo.
- Io topo di fogna? – chiede Magistri visibilmente meravigliato.
- Topo di latrina, se ti aggrada, - risponde l’uomo in tweed grigio accentuando il tono della voce con il massimo disprezzo.
- Allora, la latrina di cui parli ospita anche voi miei cari fornicatori, – risponde il convenuto schiamazzando con un riso assolutamente fuori luogo.
- In modo non dissimile, abitiamo lo stesso spazio, – sentenzia la voce di Massimo.
- In modo non dissimile? – chiede meravigliato Magistri.
- In modo non dissimile, – ribadisce l’uomo in tweed grigio.
A questo punto della conversazione Magistri volta ancora le spalle all’uomo in tweed. Piroetta su un tacco e si volta di scatto. Magistri sta davanti all’interlocutore come il pappagallo assiso sull’asse fronteggia lo spazio circostante, ed emette un sibilo, un fischio lungo e modulato accompagnato da un moto convulso del diaframma che vorrebbe assomigliare ad un riso rimosso. Adesso Ely mostra le spalle all’uomo in tweed, ha terminato di slacciare il nodo della cravatta di Magistri, gli sbottona completamente la camicia da sotto alla giacca aperta e gli accarezza il petto peloso. La donna si china sul petto dell’uomo e fa dardeggiare la lingua tra i peli folti e ricciuti, poi lo bacia con la bocca aperta, fa aderire le labbra al petto villoso dell’uomo. Fa di tutto per apparire visibilmente eccitata. Massimo non si scompone, non muove un capello. Magistri invece squittisce di soddisfazione e lo fa in modo plateale.
- Sai, Massimo ho sempre pensato che sei uno scrittore degno dei miei stivali. L’ho sempre pensato anche se non te l’ho mai detto, ma forse è venuto il momento di chiamare le cose con il loro nome, – dice senza perifrasi Magistri il volto del quale appare visibilmente soddisfatto per l’esternazione
- Hai parlato senza perifrasi. Finalmente parli il linguaggio che ti è familiare, - eccepisce Massimo.
- Senza omissioni, come piace a me.
- E va bene, continua pure come piace a te, - eccepisce una piega sardonica della bocca dello scrittore.
- Mettiamola così: con i soldi dei tuoi dattiloscritti ti sei comprato la Ely. O forse lo hai creduto. O ti sei illuso di crederlo… In verità, Ely è sempre stata mia… diciamo che te l’ho prestata per un po’… e diciamo pure che adesso avrei deciso di riprendermela. In fin dei conti, era un cavallo della mia scuderia, non credi?
Magistri pronuncia questa arrogante filippica nel tentativo di mettere ordine in una materia fangosa e sdrucciolevole.
- Un cavallo?
- Un cavallo.
- Mettiamola pure così, - conferma ironicamente Massimo.
- Oh, bene… e diciamo pure che la Ely è una zoccola di classe, mio caro, ed è stata addestrata a fare tutto quello che dico io. E qui Magistri getta un’occhiata allo scrittore per spiare l’effetto delle sue parole.
- Vi detesto tutti e due… ma, per ragioni molto diverse, non saprei fare a meno di nessuno di voi due –
È la voce di Ely che squittisce. Tenta di trovare una via di mezzo che interrompa la tensione.
- Non vedo ragione per dimostrare il contrario, - risponde Magistri riprendendo mentalmente il filo del suo discorso, il filo di una matassa ingarbugliata che più ne tiri un filo più quella si ingarbuglia. Ma qui interviene la voce della donna come se recitasse una ninna nanna, sottovoce:
- Vi detesto… e più vi detesto più sento di dipendere dagli oggetti detestati e detestabili. - Sì, - dice dopo un momento di esitazione – forse mi eccita detestarvi…
La Ely pronuncia queste ultime parole in preda ad un visibile raptus erotico. Ha liberato la camicia dai pantaloni dell’uomo e gliela ha sbottonata del tutto: compare un ventre prominente e peloso. Ora Ely mima l’atto di palpare il ventre peloso di Magistri. La donna si china ancora di più. Volta le spalle sottili e le terga prominenti all’uomo in tweed il quale resta immobile come se la scena non lo riguardasse affatto. Massimo resta imperturbabile. Con movimenti artatamente meccanici, si accende un’altra MS.
- E a me mi eccita che tu mi detesti, lo sai? – profferisce l’uomo peloso.
- E a te ti eccita, Massimo che bacio il mio amante davanti a te? – chiede la Ely con manifesta finzione.
- Sì, mi eccita, - risponde semplicemente lo scrittore.
- Ora, è tutto molto chiaro. Diciamo che il quadretto è molto chiaro, – recita l’uomo con il grasso ventre che fuoriesce dai pantaloni.
- Se non fosse che tendono alla oscurità le cose chiare, – replica la voce dell’uomo immobile.
Ely fa l'atto di baciare con smaccato interesse il ventre peloso e prominente di Magistri. Con calcolata perizia e lentezza studiata come per far salire il climax erotico al punto della sua massima espressione, allo zenit. Ma è una situazione posticcia, artefatta, messa in scena per creare una atmosfera di disagio nello scrittore. Di tanto in tanto, la Ely interrompe manifestamente la sua mimica erotica e si volta per verificare gli effetti che le sue ipotiposi producono nello scrittore.
- Mettila come vuoi: chiarità, oscurità… la cosa non mi interessa, – chiosa l’uomo peloso con il suo linguaggio chiaro, rozzo e sbrigativo mentre agita una mano in aria come se volesse spolverare i panni sporchi che galleggiano nell'atmosfera del salotto.
Ely adesso si inginocchia all’uomo tozzo.
- dai portami via, torno a fare la puttana.
Magisteri si Sbottona i pantaloni dell'impresario mette una mano lì in mezzo ed mima un duplice movimento, lento e ritmato dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Mima il gesto della masturbazione.
- Mi fai una sega, scrittore.
- Lo so.
- Lo so che lo sai.
- Tendono alla chiarità le cose oscure.
La voce metallica di Massimo squilla come un colpo di sax nel salotto immerso nella penombra. Accade un rumore, un tonfo pesante sul legno del tavolo. La donna si solleva dalla sua posizione carponi e osserva con meravigliata lo scrittore. Anche Magistri lo osserva con enfasi con il faccione in estasi. Nella mano destra di Massimo appare una pistola, un piccolo revolver a tamburo con il manico di madreperla; con la mano sinistra Massimo fa girare a vuoto il tamburo. Magistri emette un fischio di stupore lungo e articolato come quello di un treno merci che sta per entrare in una stazione mentre la Ely non si scompone affatto, si alza meccanicamente dalla posizione carponi. Ha la grazia di un felino…
- Sapevo che l’avresti fatto. Che mi avresti preso il revolver dalla borsetta! - esclama la voce femminile in falsetto.
- Che ne pensi, Magistri, vuoi giocare a fare il morto o a fare il vivo? – rilancia in modo subdolo la voce di Massimo.
- Penso che sei un gaglioffo, Massimo. Penso che non avresti mai il coraggio di premere il grilletto. Ecco quello che penso! – le parole dell’uomo tozzo rimbombano e rimbalzano come se provenissero dall’altro mondo, come delle palle che sbattono su un tavolo di un biliardo.
- Ed io invece credo che è venuto il momento in cui dovresti cominciare a preoccuparti, Magistri, – replica con un filo di voce l’uomo in tweed.
- Sei un gaglioffo, Massimo. Fammi vedere se veramente la pistola è carica! – risponde l’uomo tarchiato fingendo una sicurezza che non ha.
In questo frangente, Magistri allunga una mano in attesa, e il revolver fa la sua apparizione nella sua mano. Fa ruotare il tamburo e lo apre per verificare che ci siano le pallottole. Poi, con un sorriso di circostanza restituisce l’arma a Massimo.
- Una Smith and Wesson 75, con proiettili di piccolo calibro ma sufficienti a farti diventare un colabrodo a venti metri di distanza. Davvero un bel giocattolo. Immaginavo che la pistola era scarica. Sapevo che era tutto un bluff. Sei un buffone, Massimo.
Il faccione tondo e paonazzo di Magistri sembra radioso. Irraggia luce rossa. Come se aspettasse questo momento, Massimo tira fuori dalla tasca un minuscolo proiettile, con movimento studiato a tavolino, lo inserisce in uno dei fori del tamburo e, con un colpo secco delle dita, fa ruotare il tamburo vorticosamente davanti agli occhi sbigottiti di Magistri.
- Stai attento Magistri che fa sul serio! – squilla la voce di Ely.che ha qualcosa di appuntito e sgraziato.
- E tu credi che mi lasci intimorire da quel pupazzo? – rilancia sornione Magistri che sta seduto in poltrona con le gambe larghe e le brache sbottonate.
- Stai attento! Se fossi in te non mi fiderei. È pazzo, completamente pazzo, non te ne rendi conto?
La voce di Ely risquilla come il trillo insistente del telefono quando annuncia sventure. Come risvegliato dal coma della sua sicurezza Magistri si alza di scatto dalla poltrona e prende a girare intorno al tavolo ostentando una sicurezza che non ha.
- È uno sbruffone, nient’altro che uno sbruffone… – dice la voce rauca di Magistri, come se avesse inghiottito un rospo, – non mi fai paura Massimo, anzi, mi diverti. Mi eccita il tuo revolver.
Mentre pronuncia queste parole, l’uomo preme la mano destra sulla massa bionda dei capelli di Ely che invece è immobile a metà distanza dai due uomini. La donna sembra acquiescente e indifferente. I suoi gesti hanno la burocratica efficienza e l’indifferenza di un lungo apprendistato alla vita.
- Sono uno sbruffone? – squilla il tono basso e misurato di Massimo – credi tu che io sia uno sbruffone e che la pistola sia di cioccolata e la pallottola di crema?
- Sì, sono convinto che stai bluffando, – replica Magistri mentre gira attorno al tavolo con una voce ancora più rauca.
- E allora facciamo una scommessa – dice l’uomo in tweed – io consegno la pistola alla Ely che la punterà sulla tempia di uno di noi due, a sua scelta, e premerà il grilletto… come vorrà… e tu dovrai sottostare al gioco… ovviamente…
Mentre pronuncia queste parole anche Massimo gira attorno al tavolo come per inseguire Magistri.
-Mi hai preso per uno stupido? – tuona la voce soffocata di Magistri che continua a camminare meccanicamente attorno al tavolo come un robot. In realtà, vorrebbe fuggire, vorrebbe sottrarsi a quella situazione assurda ma non vuole apparire un vigliacco agli occhi di Ely. E così, continua a camminare meccanicamente come un robot.
- No, ti ho preso per quello che sei: un cialtrone, uno sbruffone, un ciarlatano. Dimostrami che sei un uomo Magistri… dimostrami che non sai soltanto fottere ma che hai ancora fegato…
Nel pronunciare quest’ultima frase sul volto di Massimo affiora una piega amara attorno alla bocca. Lo scrittore guarda fisso negli occhi Magistri che ha gli angoli della bocca impastati di schiuma.
- Ora consegnerò il revolver alla Signora Ely e sarà lei a decidere su quale tempia puntarla… accetti?
Massimo sembra quasi divertito. La sua voce appare priva di emozioni. Passeggia dietro a Magistri con l’indifferenza di un postino che deve consegnare la posta.
- Sei un impotente Massimo. La tua è la vendetta di un impotente. Credi che mi lasci intimidire da te? Credi veramente che io possa accettare il tuo gioco?
Magistri accentua in modo goffo il tono della voce mentre cammina attorno al tavolo con le gambe larghe in modo goffo e gaglioffo.
- Sì, forse lo sono, sono un po’ impotente perché non mi è mai piaciuto scopare le zoccole ma voglio dimostrarti che sei un codardo, un vigliacco, un sordido vigliacco... e poi che sei uno sbruffone...
La risposta di Massimo è secca e rapida, come se avesse l’intenzione di arrivare quanto prima all’epilogo.
- Tu sei un impotente che cerca la sua rivincita, – tenta di divagare Magistri mentre sputa saliva secca dagli angoli della bocca.
- Mettiamola pure così. – Il tono accondiscendente di Massimo non lascia margini a dubbi. Vuole arrivare subito al traguardo.
- Vuoi dimostrare alla tua donna che anche tu sei virile? – grugnisce Magistri che scodinzola e traballa come un maiale mentre cammina attorno al tavolo.
Magistri è un gaglioffo sta pensando Massimo, un gaglioffo che tenta disperatamente una via di uscita da quella imbarazzante situazione. Squittisce proprio come un topo che si sente braccato. Tasta tutti gli angoli alla ricerca di una via di fuga.
- Mettiamola come tu vuoi o come preferisci.
La voce di Massimo è accomodante e conciliante. Vuole mettere con le spalle al muro Magistri. Ha fretta di arrivare al finale. Ha sempre più fretta.
- Tra di noi non ci può essere sfida, come non ci può essere sfida tra un uomo e un eunuco. – Mormora con voce rauca e soffocata Magistri che adesso tenta il tutto per tutto.
- Forse hai ragione. Accetti? – la voce gelida di Massimo affonda come un coltello nella torta sacher.
- Voglio dimostrarti che sei un pallone gonfiato, Massimo. – la voce di Magistri invece affonda come una nave nel mare.
- Accetti? – è la stoccata finale di Massimo che sente di avere in pugno la preda.
- Accetto, – è la replica secca di Magistri che ormai non può più tergiversare.
I due uomini sono l’uno di fronte all’altro, all’in piedi. Magistri ha le brache ancora sbottonate. Ely si alza silenziosamente in piedi e, sempre in silenzio, guarda entrambi gli interlocutori in viso, dritto negli occhi. Afferra, nella sua mano gentile e delicata, la piccola impugnatura di madreperla del revolver che nella sua mano acquista la connotazione di un oggetto erotico, e fa ruotare vorticosamente il tamburo. Ely impugna il manico di madreperla del revolver come se fosse un oggetto neutrale. Indugia a lungo guardando i due sfidanti sotto la fronte ma non negli occhi. Improvvisamente, come se avesse deciso ma in realtà ubbidendo a un istinto di autodistruzione, punta la canna del revolver sulla tempia di Massimo e preme il grilletto: clic, è la risposta dell’arma. Un semplice clic e sarà tutto finito, deve aver pensato Ely un attimo prima di aver premuto il grilletto. Massimo non ha battuto ciglio, ha la medesima piega sardonica attorno alla bocca, silenzioso e saggio come un pesce. Adesso, la donna si rivolge verso Magistri il quale se ne sta fermo, immobile come un boxer all’angolo in attesa che squilli il gong per l'ultimo round. Ely con destrezza fa ruotare vorticosamente il tamburo, punta l’arma sulla tempia dell’uomo e preme il grilletto: clic, è la voce neutrale dell’arma.
- E adesso continua: il prossimo round, fino alla fine, – scandisce la voce metallica di Massimo.
- Tu sei pazzo… – mormora la voce anodina e rauca di Magistri che sembra provenire da una miniera di zolfo.
- Non sono più un eunuco? – replica la voce metallica e neutrale di Massimo.
- Dimostramelo, – è la replica sprezzante di Magistri. La sua fronte è imperlata di sudore freddo che si è solidificato e saldato alla parete esterna della pelle.
La mano di Massimo si posa sulla testa bionda di Ely. È una carezza di addio. La donna fa un gesto con una mano e solleva la massa bionda dei capelli e con l'altra impugna di nuovo il revolver. Affettando una calma studiata a tavolino, lo punta sulla tempia di Massimo e preme il grilletto: clic, è la risposta monotona dell’arma.
- Ora tocca e te, - dice la voce metallica di Massimo.
- Tu sei pazzo se credi che mi presti al tuo gioco! adesso basta! – replica Magistri con la voce rotta dall’emozione e dal terrore mentre indietreggia attorno al tavolo.
- Non è un gioco, è un finale di partita, – risponde la voce neutra di Massimo.
- Sì, è un finale di partita. Soltanto, che la partita non ha un finale, – è la voce atona di Ely.
- La mia partita finisce qui. Io mi ritiro dal gioco e dalla vita di Ely. Se vuoi, prenditela tu. – Mentre pronuncia la sua resa, Magistri continua ad indietreggiare attorno al tavolo. In quei pochi istanti per lui è come se fosse passato un secolo. Improvvisamente, appare invecchiato: i capelli sono più bianchi e dal faccione paonazzo spuntano un po’ dappertutto profonde rughe… adesso è diventato un altro, non è più il Magistri arrogante di un tempo, ha conosciuto l’umiliazione della paura… l’umiliazione della sconfitta…
- Non è un finale di partita, è soltanto l’inizio di una nuova partita, - è la replica secca e anodina di Massimo. La sua voce è come se provenisse da un’altra stanza, anzi, da un altro appartamento ammobiliato. È lontana, sempre più lontana…
C’è un silenzio assoluto. I due uomini sono immobili, all’in piedi, l’uno di fronte all’altro ed Ely è in mezzo a loro, nuda, con la pistola in pugno mentre l’oscurità invade il vano del salotto, penetra in tutti i meandri dello spazio e la pioggia, con un ticchettio monotono ed insulso, batte contro i vetri della finestra dall’altra parte del mondo. Sta per iniziare un nuovo romanzo. Rectius, ci sono tutti i presupposti per un nuovo romanzo. La Ely è sempre nuda in mezzo al salotto color porpora e passeggia sugli alti trampoli, Massimo e Magistri sono all’in piedi, l’uno di fronte all’altro, la faccia magra e pallida del primo e il faccione tozzo e paonazzo del secondo.
I personaggi di questa storia hanno vissuto una precedente esistenza ma non se ne ricordano più, e del resto questa circostanza non ha la minima rilevanza ai fini della narrazione, ormai sono diventati altri personaggi, con un’altra vita ed un’altra storia interiore e lo sbocco delle loro passioni sarà sempre diverso ed imprevedibile, ed anche noi che leggiamo queste righe siamo già diversi da ciò che eravamo appena un attimo fa.
E così, il mondo procede come un treno al quale ad ogni fermata si aggiungano continuamente nuove carrozze. E non v’è nulla di stabile e di duraturo qui sotto il cielo di questo salotto color porpora…