Giorgio Linguaglossa 

TORNARE ALLA CORTE DI CESARE?

(Epistole dall'Impero) 

Confessione di Cornelio Viburno: «E adesso che farà il Console?»

 

Adesso spero proprio di essere inessenziale,

invisibile, trascurabile come un piccione

che becca tra gli orti del Foro.

«Chi vivrà vedrà», mi dico tanto per consolarmi.

«In fin dei conti il Console può essere sconfitto dai barbari

o dalla guerra civile o da se stesso».

Ma ecco Silla, nel manto di porpora, 

sulla biga addobbata, 

di ritorno dalla guerra vittoriosa,

l’ennesima guerra tra le mura della Repubblica, 

che fa ingresso con le sue legioni, 

tra squilli di trombe

e rullio di tamburi sotto l’arco di trionfo.

«È il suo trionfo o il nostro?», chiedo al mio fidato amico Claudio

assiepati alla transenna del Foro della Repubblica.

Ogni mattino mi reco in allarme 

ai piedi del Campidoglio, negli uffici 

del Consolato e cerco il mio nome 

tra quelli iscritti alle liste di proscrizione

sperando ch'io sia tra gli assenti. 

«E se lo trovassi? – mi chiedo – che cosa farei 

se trovassi il mio nome nelle liste di proscrizione?

Andrei subito dal Console per rendergli omaggio?

Lo supplicherei di essere risparmiato?

Rinnegherei la mia fede repubblicana?

O magari reclamerei la mia fedeltà in lui, 

nel console vittorioso

che tante volte ha risolto con le armi 

il contenzioso?

Mi prostrerei ai suoi piedi a invocare clemenza?».

Così, ogni mattino mi reco pieno 

di angoscia al Campidoglio,

ma ormai spero davvero di trovare il mio nome

tra quelli iscritti nelle liste di proscrizione;

finalmente sarei libero, libero di fuggire 

o di umiliarmi dinanzi alla toga del Console;

mi getterei ai suoi piedi scongiurandolo 

di risparmiare me e la mia famiglia,

lo invocherei di liberarmi dalla mia angoscia, 

di mozzarmi subito la testa o,

peggio ancora, di lasciarmi libero tra gli orti

del Foro, proprio come un piccione.

 

I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso

Druso ha sempre i piedi sporchi nei calzari di cuoio,

il ventre prominente e parla un latino 

infarcito di dialettismi della Sabina;

inoltre, a tavola non è mai sobrio, ama l'eccesso

in libagioni e in amorazzi con le sue schiave

e con i mori che acquista al mercato al suono di sesterzi d'oro.

Nel Foro non prende mai una posizione 

univoca, chiara, ciò che dice in 

privato non lo ripete certo in pubblico.

È abile, sfuggente come una biscia, oleoso

come la resina del Ponto Eusino, 

dire che non lo amo sarebbe un eufemismo, 

una ipocrisia, ma ciò che è più grave, 

non riesco neanche a detestarlo.

Mi dico: «Druso è un codardo, un mentitore,

un fingitore, un voltagabbana» ma, ciononostante, 

non riesco a detestarlo. Forse che dovrei rimproverargli

il suo faccione impolverato di cerusso?

In fin di conti è un mio simile: un teatrante, un attore,

ha un mento, due occhi, un naso aquilino, proprio come me.

«Non c'è alcuna differenza - mi dico -  tra noi». 

Druso ha gli occhi foderati di cerone da teatro

il volto scivoloso di biacca, il mento leporino 

e gli occhi cisposi per il vino in eccesso

bevuto la notte innanzi, ascolta 

ciò che gli torna immediatamente utile, 

quando non gli conviene fa il pesce in barile;

dei nostri discorsi sulla res publica 

dice «che sì, che no, che forse, che insomma...». 

Del resto, sto molto attento quando 

nei conviti privati mi porge il cratere colmo di vino,

fingo di bere con un sorriso sordido... 

mentre con la coda dell'occhio

sbircio sempre in allarme la porta d'entrata.

Evito di guardare in volto il capo delle guardie

quando fa ingresso in casa di Mecenate

con il suo codazzo di pretoriani e di ottimati profumati.

Anch'io parlo sempre meno in pubblico

dei miei pensieri privati, e in privato

dei miei pensieri pubblici...

 

Gaio Cornelio Gallo chiede a Claudio

«C’è un impero?», chiedo a Claudio, 

«la lingua che io parlo è una delle 

cento lingue dell’impero? 

E le parole che io rivolgo soltanto a me stesso, 

sono mie?, veramente mie? 

O sono anche quelle degli altri?». 

Chiedo a Claudio: «le parole che io pronuncio 

davanti allo specchio 

sono immagini fedeli delle cose? 

Sono attendibili, soverchie o sibilline?

Le parole sono vasi comunicanti? 

Che dico!, Claudio, tu passi da un vaso all’altro

come tra due crateri di Falerno».

Tu replichi: «Sono vasi di fragile terracotta!»,

«No, mio caro Claudio, ti correggo, 

ci vogliono secoli, battaglie, olocausti 

per passare da una parola all'altra». 

Tu dici: «Tutto tramonta nel Tramonto universale».

«Davvero, Claudio, è un buon alibi, 

le parole entrano nel Tramonto

ma possono anche uscirne».

«Le parole - grido al mio collega Claudio - 

sono fragili barchette di carta 

dalle vele quadrate che attraversano i secoli!».

«Tanto più durature quanto più elusive».

«Tanto più fragili quanto più durature», 

aggiungo io.

 

Dialogo tra il vecchio poeta e il suo fidato amico Gaio Cornelio Gallo

«Dobbiamo correggere le nostre poesie», 

dico al mio fidato amico Cornelio Gallo. 

«Emendarle o renderle silenti». 

«Per sempre?».

«Per sempre».

Ecco tra la folla festante del Foro 

l’elmo di ferro del Console a cavallo

che scintilla al sole tra due ali di guardie fidate.

«Vedi quell'elmo? È ferro sulle nostre parole 

di argilla».

«Ferro?, nient'altro che questione di punti di vista»

mi risponde Cornelio.

Il vecchio poeta scuote la testa:

«Spesso, Cornelio, mi chiedo quale genere di morte darmi,

se una morte subitanea, che so, un colpo di spada

tra la scapola e il collo, o una morte lenta,

avvolgente, immergere i polsi incisi

nell'acqua tiepida della vasca.

Pergamene, caro Cornelio, nient'altro 

che segni su delle pergamene sono le nostre parole, 

per di più vergate in un idioma estraneo al nostro popolo.

Dimmi Cornelio, tu mi chiedi che cosa sono 

le nostre parole a fronte dell'Arco di Trionfo?

Ti rispondo: null'altro che aria, fumo, vento.

Dobbiamo emendarci, caro Cornelio, 

ammettere con franchezza che ci siamo sbagliati. 

Le poesie del futuro?, saranno 

gli "erotika pathemata", le elegie dei nostri amores,

e delle nostre private sconfitte».

 

Dialogo tra il vecchio poeta e Gaio Cornelio Gallo

Dico al mio fidato amico Cornelio Gallo: 

«L’uomo  abita l’ombra delle parole, 

la giostra dell’ombra delle parole,

è un animale da preda che parla». 

«Ma anche un animale metafisico»,

mi risponde Cornelio mentre passeggiamo

sotto il porticato delle terme,  

«Un ente che dà luce al mondo  attraverso le parole». 

«Davvero?, tu lo credi?, tra la parola 

e la luce cade l’ombra, caro Cornelio».

«Quell'ombra però che le permette di splendere»,

replica il mio fidato amico.

«Ma anche tra la parola e la sua pronuncia

cade l'ombra...».

«Ed anche prima della parola cade l'ombra».

 

Spalanca la finestra Cornelio

«Spalanca la finestra Cornelio, 

guarda il cielo, non vedi come invade 

la stanza con la sua toga azzurra?,

Urania è più vecchia di Zeus, 

e le Moire più anziane delle Muse.

Osserva bene Cesare, guarda la sua strozza come si gonfia

quando gorgheggia i suoi sordidi versicoli.

Pensa, un acino d'uva quando la bestia 

spalanca la bocca, ed è fatta. 

Gli astri c'erano prima di Urania

Cornelio e prima di Clio, 

c' è una contro danza nelle segrete cose 

che agisce dietro le quinte:

eventi infausti, imprevisti e

impredittibili, invasioni di barbari, 

l'ira di Poseidone, un terremoto, chi può dirlo?

Non noti anche tu questa, diciamo,

irregolarità degli astri? Questa 

impredittibilità degli eventi? E cosa 

s'intende per eventi se non ciò che

si sottrae alla nostra impalpabile insignificanza?».

Tu mi rispondi: «Forse è il tedio degli dèi che sono fuggiti».

«Non è vero - replico - la nostra

insolvenza è sorella del tedio degli dèi, 

orlo della loro luce, la nostra più sublime 

e più fedele amica».

 

Epistola di Germanico a Messalina

«Che stai facendo? Messalina pensa ancora

a Germanico? Dormi sul tuo morbido cuscino? Sono ancora

nei tuoi pensieri? E dov'è il tuo Ippogrifo?

Sei salita sul carro di Issione? O sei scesa dalle

perigliose ali di Icaro? Dove sei, dimmi dove sei,

dove sei che vengo a cercarti...

Il tuo Germanico è qui sulle sponde del Danubio 

ghiacciato, e ti pensa...».

«Oh, sì, il Magnifico Augusto, l'Impero universale

con il suo Mecenate di turno...

Le arti e le poesie lo acclamano quale fondatore

dell'Impero! Falsità, ostentazione della menzogna. 

Gli editti imperiali hanno due facce,

come le monete: di qui il verso e di lì il retro.

Ma tu ed io sappiamo una cosa

che il Cesare non sa: che non c'è impero più grande

del tuo cuore, il cui dominio spetta solo a te,

e in quel dominio io chiedo udienza, busso

alla porta del tuo magnifico cuore, e della

tua bellicosa bellezza...».

 

Il Colosso di Rodi

Il Colosso di Rodi fu eretto nel 448 ab urbe condita

per celebrare il trionfo dei rodesi su

Demetrio Poliorcete figlio di un successore

di Alessandro Magno.

Per la terza meraviglia del mondo antico

fu chiamato l'architetto Carete di Lindo

il quale costruì una statua alta 32 metri,

aveva le gambe possenti divaricate e i piedi

poggiati su due colonne alle estremità 

del porto di Mandraki.

Sono trascorsi cinquecento anni.

Ti chiedo, Cornelio, «Cosa ne è rimasto?».

«Un cumulo di marmi divelti in mille pezzi.

Polvere, nient'altro che polvere».

 

Confessione di Gaio Cornelio Gallo:

«Un giorno o l'altro tornerò alla corte di Cesare»

Un giorno o l'altro tornerò alla corte di Cesare.

Non posso stare qui in eterno in questa villa di campagna

all'ombra del sicomoro e al canto degli uccelli

nell'aria vetrosa del mio esilio

ad attendere un cenno che non verrà.

Ho deciso: domani andrò alla corte di Cesare.

Mi chiederà Cesare le ragioni della mia assenza?

Userà clemenza o pretenderà la mia resa

dinanzi al Senato? Userà il bastone o la carota?

Mi imporrà una resa senza condizioni?

O mi lascerà parlare, spiegare le mie ragioni?

Sia come sia, ho deciso, mi devo preparare,

in fin dei conti l'imperatore ha bisogno di soldati

e non va tanto per il sottile, bada al sodo

e al solidus. Mi riabiliterà?, o mi darà in pasto

alle murene della sua piscina? Non lo so

e non lo voglio neanche sapere ma ciò che so 

è che non posso stare qui in eterno 

all'ombra del sicomoro e al canto degli uccelli.

A un battito di mani accorrono le schiave. 

«Portatemi la praetesta con la danda bianca, 

i calzari di cuoio e la tunica lussuosa».

Adesso sono pronto. Ho già fatto testamento.

In ogni caso mi preparo al peggio.

Ho deciso: domani andrò alla corte di Cesare,

gli dirò che amo la vita di campagna

stare in compagnia di villici e di bifolchi,

in qualche modo mi giustificherò,

lui capirà, capirà che faccio ammenda

dei miei trascorsi, mi riabiliterà,

sorriderà di certo, non so se di scherno

o altro, vedremo...*

* Risposta alla poesia di Zbigniew Herbert «Il ritorno del proconsole»

 

Portatemi del veleno

«Portatemi del veleno. Qui, nell'anello

c'è una capsula, proprio sotto il topazio.

Là vivrà il suo tempo, ed io il mio.

Ascolterò i lari della mia casa

mi rimetterò ad Esculapio».

Che dire? Il potere logora chi non ce l'ha.

I vincitori non hanno neanche richiamato le legioni, 

né arruolato guardie private, 

o emesso decreti o ordinanze di epurazioni,

non ce n'è stato bisogno.

Decio e Luciano hanno già fatto 

le valigie, Gaio Cornelio anche lui 

ha traslocato in Bitinia con la sua amante 

Lucrezia che ha dichiarato apostasia;

altri ha abiurato gli dèi, per il galileo, s'intende.

Dopotutto, avranno avuto le loro ragioni, 

un dio più potente, dicono,

ha preso il posto degli dèi in Campidoglio

accanto alla gigantesca statua di Costantino.

Osservo sempre con circospezione la porta 

d'ingresso della mia stanza, ed evito 

di guardare negli occhi il capo delle guardie, 

evito di pronunciare

parole inopportune davanti alle astiose orecchie del Prefetto. 

E vada come deve 

mi rimetto alla volontà di Poseidone enosigèo.

Le colonne del Foro sorreggono in cielo gli dèi assenti.

«E adesso, la lettiga, portatemi al circo equestre

voglio divertirmi, svagarmi, non pensare

a quale nume domani dovrò votarmi,

quale sarà il mio destino».

 

Sono ottimi consigli, Decio

Luciano mi porta a spasso al Foro 

e alle terme. Dice che mi devo 

far vedere in giro per non destare sospetti.

Mi porta perfino ai combattimenti dei gladiatori

e alle corse delle bighe,

dice che mi devo mostrare al pubblico 

che devo apparire come tutti gli altri,

ilare e di buon umore,

portare a spasso la mia toga di patrizio. 

E che devo sorridere,

scambiare chiacchiere con tutti, 

insomma, apparire normale,

e anche dichiarare gli dèi insolventi,

oziosi, e prostrarmi al dio dei galilei.

Sono ottimi consigli, Decio, 

dovrei seguirli, lo so.

Luciano mi porta anche alle serate di 

Navigonelloro quel macellaio 

arricchitosi con le navi onerarie

dove saltellano i nani e danzano 

odalische egizie

e i poeti recitano le loro poesie,

ché farne cartocci per le olive 

sarebbe un lusso.

 

Gaio Cornelio Gallo amò follemente Licoride

Il poeta Gaio Cornelio Gallo amò follemente, 

sotto lo pseudonimo di Licoride, 

una donna seducente quanto spregiudicata,

tale Citeride, una ex schiava, un'attricetta 

da postribolo (che si chiamava Volumnia) 

già amante di Bruto e di Antonio 

che in seguito liquidò il poeta

per seguire un giovane ufficiale 

tra le nevi delle Alpi e il freddo del Reno. 

La «pulchra Lycoris» ebbe tuttavia 

gli onori della poesia nei quattro libri

di elegie che il poeta compose col titolo 

di «Amores», o col nome di lei, «Lycoris», 

dove si narra del servitium nei confronti 

della domina e si fa accenno alla nequitia, 

alla dissolutezza dei suoi costumi

e alla sventatezza dei suoi amori.

In seguito, il poeta cadde in disgrazia

e fu esiliato in uno sperduto distretto

della lontana Bitinia e i suoi libri

con editto di Cesare furono requisiti ed arsi

e a noi non restano che sporadici versi

citati da altri poeti...

 

I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo: «Vedo il liberto Calpurnio...»

Vedo il liberto Calpurnio, il fedele servo 

di Mecenate, che mi viene incontro.

Il callido offre libagioni agli ospiti

e offerte agli dèi, recita gli osceni versicoli

del suo padrone...

reclama applausi incondizionati,

un vassoio sulla mano destra colma di leccornie

e, con la sinistra, mi invita a bere, 

mi offre un cratere di buon vino della Sabina...

un ghigno affiora sul volto glabro

di Calpurnio quando mi guarda il mento

che ha un sussulto.

D'istinto sbircio il capo delle guardie

alle mie spalle 

(alle prese con la questione di Gaio Silio

e della sua sposa segreta, Messalina*).

Penso che sarebbe preferibile 

tagliare la corda adesso, 

non si sa mai...

affrettarmi, ritirarmi dagli affari pubblici,

dedicarmi ai negozi privati, 

attendere al disbrigo dei miei 

possedimenti, fare il pesce in barile,

magari prendere congedo con una scusa,

per non offendere, s'intende, il gran Cesare,

far diffondere la voce

che Gaio Cornelio è malato, molto malato,

che intende ritirarsi a vita privata

nella sua villa di campagna in Umbria

a coltivare radicchio e uve spinose,

o qualche altra amenità...

* Gaio Silio, attore, sposo segreto di Messalina invitato a suicidarsi per ordine dell'imperatore Claudio.

 

Epistola del generale Germanico a Giulio Decimo sulla Grande Bellezza dell'Urbe

Un giorno o l'altro scriverò una lettera 

a Giulio Decimo, gli dirò della Grande Bellezza dell'Urbe,

gli dirò che c'è un tempo interiore

ed un tempo esteriore,

gli dirò che è tempo di rientrare in patria,

gli dirò che gli ostracismi sono finiti, 

che l'imperatore ha condonato gli eslegi 

ed ha concesso l'indulto a tutti i malfattori, 

gli scriverò: «Ti prego Giulio Decimo

torna nella tua Roma, ritorna come sei,

come un cittadino qualunque: se sei povero

ritorna come povero, se sei ricco ritorna

in quanto ricco; le tue sostanze?, no

mio caro, non verranno confiscate,

e poi, perché dovrebbe?

In fin dei conti Cesare è clemente, magnanimo,

preferisce tenere in vita i suoi nemici,

così può sempre ricattarli, morti non saremmo

utili alla sua causa, non credi?.

In fin dei conti, si vive bene qui nell'Urbe,

qui il tedio non è di casa, gli amores 

non mancano, le matrone non sono certo caste

come nella sperduta Bitinia, alle terme

non ci si annoia, e poi qui tutto è spettacolo

circense, qui tutto è frivolo e leggero,

dal Tevere spira il tiepido vento del Tirreno

e gli uccelli gorgheggiano anche d'inverno,

e l'inverno è mite quant'altri mai

e ci sarà dolce annegare in questa città».

Devo affrettarmi a scrivere a Giulio Decimo,

devo fare in fretta, gli dirò che mi sono ricreduto,

lo pregherò di tornare, che il tempo si è compiuto,

gli dèi sono fuggiti, che la città eterna

continuerà ad essere eterna, e così via... 

mi devo sbrigare, sì,

scriverò a Giulio Decimo, gli dirò

di far presto, che non è mai troppo tardi,

di non frapporre il tempo al tempo,

così potremo reciderci le vene dei polsi

al tepore delle vasche delle terme, 

e insieme brinderemo con il rosso vino di Falerno,

potremo vivere gli ultimi istanti della nostra vita

che ormai non ha più senso...

 

Risposta di Giulio Decimo a Germanico

Caro generale Germanico

il tuo fidato amico Giulio Decimo è stanco

ha il ventre molle e le gambe malferme,

sono vecchio caro amico

per tornare a Roma,

e poi, come ci tornerei?, da vinto?, da servo?,

perdonami Germanico, perdona

la mia stoltezza, o la mia viltà,

chiamala come vuoi,

la nostra è stata una seconda Teutoburgo,

siamo dei vinti, amico mio, e poi

quale Roma vedrei?, la Roma di Mecenate

con il suo codazzo di poeti di corte

e di pretoriani?, no, caro fratello,

risparmiami questo scacco, quest'onta, 

un'altra disfatta sarebbe rovinosa,

non potrei tollerarla,

preferisco stare qui, nella mia villa

a Calcedonia, lontano dalla vile lussuria dell'Urbe

voglio stare qui all'ombra del sicomoro

e al dolce canto degli uccelli

ad occuparmi della mia insalata che coltivo

con mestizia,

Roma è un lontano ricordo

che voglio allontanare sempre di più,

sempre di più.

Voglio dimenticare Roma, le sue meretrici

e i suoi poeti di corte,

voglio dimenticare la mia vita passata,

le nostre gloriose battaglie,

le nostre ingloriose sconfitte,

adesso voglio riposare, lasciami,

amico mio riposare all'ombra del sicomoro

e al dolce canto degli uccelli.

Dimenticami.

 

Risposta di Germanico a Lucio Decio e a Giulio Decimo

Caro amico, tu dici: «Cesare è ancora vivo».

Ben detto. Ma non capisci che non possiamo

disertare proprio adesso?, non capisci che Roma

ci chiama?, che non possumus non rispondere

al suo appello?, Roma chiede libertà, libertà...

E noi cosa rispondiamo?, ci diciamo che siamo

vecchi, che abbiamo il ventre molle e le gambe

malferme, ci diciamo che è meglio stare

all'ombra del sicomoro e al dolce canto degli uccelli...

Ma, siamo impazziti?, Roma si sgretola ogni giorno di più,

sei un soldato Lucio Decio, sei ancora un soldato,

un soldato delle vittoriose legioni del Nord!,

è al soldato di un tempo che chiedo di imbracciare

le armi e colpire!...

Tu mi rimproveri «Quanti ne abbiamo ammazzati?».

Ebbene, ti rispondo: «Non ne abbiamo ammazzati

abbastanza, perché tra i nostri amici

c'erano i traditori, i doppiogiochisti, gli inani, i vili...

ed abbiamo perso, sì, siamo stati sconfitti.

Ma, ti chiedo: 

ha senso la sconfitta senza una riscossa?

Dimmi, ha senso?, ha senso vivere coltivando

l'insalata nel proprio orto?, ha senso vivere

sapendo che ci hanno derubato della libertà?

Ma, siete impazziti?, a questo vi ha ridotto il Cesare?

Alla rinuncia, alla resa?...

Tu pensi che Cesare ci ha disarmati?

Errato caro Lucio Decio, Cesare non mi ha disarmato,

almeno, non del tutto, ho ancora dei soldati fedeli

al mio seguito...

Ma non capisci?, loro credono in me,

aspettano da me un segnale di riscossa,

ed io cosa debbo rispondere loro?, 

che il loro generale ha abbassato l'aquila di Roma?,

l'aquila delle sue legioni?...

Ma non capisci che non ho altra scelta

che quella di combattere?, cosa altro potrei fare?,

quello che ci si aspetta da un generale: 

combattere. Fino alla fine». 

 

Germanico scrive  all'amato Giulio Decimo

...mio amato Giulio Decimo, mi scrivi:

«Non son sicuro di voler tornare

ma tornerò alla corte di Cesare,

domani o anche dopodomani».

Cosa vuoi che ti dica?, un tempo 

sei stato un valoroso soldato, 

il tuo generale era fiero di te,

vessillifero della centuria, ti ho visto 

in cento battaglie sempre davanti ai manipoli,

forse sei stato inviso agli dèi ctonii

se mille frecce non ti hanno colpito

e cento spade si sono spezzate sul tuo scudo...

Tu mi dici che adesso pianti gli alberi

di ulivo sui declivi dei colli di Miromagnum

e insegni ai bambini le poesie di Ennio

e dei neoteroi di Roma, e che sei

contento così, che il tuo animo

ha trovato la quiete che cercavi...

Lascia che io ti dica come tutto ciò 

è fallace amico mio

Cesare si pasce della nostra quiete,

lui è munifico e beffardo, sordido

e astuto, distribuisce frumento

alla plebe, sesterzi ai fedeli pretoriani

e spettacoli con i tori, i leoni e con curiosi

cavalli dal lungo collo che vengono dall'Africa,

le arene sono rosse per il sangue

dei gladiatori, i prezzi della Suburra

sono alla portata di tutte le tasche

e il regime è democratico, temperato;

ci danno ad intendere che il Principato

sia lo sbocco naturale del peripato...

Cinquanta inverni ci pesano sul volto

attraversato da spighe di grano maturo.

Ti chiedo: per quanto tempo ancora dovremo 

tollerare questo Cesare di argilla?

Per quanto tempo ancora dovremo fingere 

assenso alle sue magagne e inneggiarlo 

con iperboli sottili e lambiccate?

Per quanto tempo, Giulio Decimo?

Già, dicono le folle che Cesare è magnanimo,

che alla corte di Cesare c'è posto,

che c'è sempre un posto al sole

per chi accetta di stare all'ombra.

«Appunto - dico io - per chi accetta di stare all'ombra».

 

Epistola del generale Germanico a Selene: «E tu, Selene»

E tu, Selene, non ne hai abbastanza del despota?

È un mestatore, suona la cetra 

e gorgheggia i suoi orridi versicoli

alla plebe che lo acclama poeta urbi et orbi,

è un Cesare di terracotta, non lo vedi?

Guardalo nel volto. Lì c'è scritto tutto.

È un rotolo aperto. Basta saper leggere.

Bilioso, acido, infingardo,

ti ha usato per il suo piacere fintanto che eri

giovane e bella e adesso

che non è più virile giace con i giovinetti

di Pergamo e di Ctesifonte come una spintria,

e di notte si aggira per il lupanare come

una nottola al flebile lume delle torce.

Oh sì, paga bene il capitano delle guardie

per i suoi servigi,

quel tizio che profuma di sesterzi

sarà la sua rovina...

 

Risposta di Germanico a Giulio Decimo

...sia fatta la volontà degli dèi

stattene nella tua Castrumlaino 

nell'esilio che ti sei scelto,

gioca a dadi con i bifolchi

pianta pure i tuoi ulivi sui declivii 

di Miromagnum se ciò ti aggrada

e dimenticami, porterò con me

pochi fidati, chi ancora crede 

nel loro generale e la schiava Greca,

la bellissima Selene è ancora la più bella dell'Urbe

la sua bellezza acceca chi la guarda

ma io non mi volterò come Orfeo

ad ammirarla, no, la porterò

come trofeo di guerra al mestatore,

gli dirò che Germanico è tornato

alla corte di Cesare, gli dirò che voglio

servirlo e onorarlo, gli dirò, gli dirò...

di guardarsi dal capo delle guardie,

che ignoti, di notte, hanno spalancato le porte

del tempio di Giano...

lo metterò in guardia... sai, il despota 

è sospettoso, acrimonioso, irascibile, gli insinuerò

il dubbio nell'orecchio scaltro,

il terrore nell'occhio sempre vigile,

vedrai, entrerò nelle sue grazie

con le arti del postribolo e della menzogna,

gli dirò che uccelli del malaugurio

volano a strapiombo sul tetto della Domus aurea

che una stella è caduta dal cielo,

gli dirò che indizi funesti e infausti

preannunciano grandi eventi e calamità

sull'Urbe e sulla sua onorevole persona...

sai, il menagramo è superstizioso

e vanitoso e ha paura anche delle nottole

che si levano in volo al tramonto.

Gli dirò, gli dirò...

 

Replica di Germanico a Giulio Decimo e a Selene

Sette corvi si alzano in volo dal tempio di Vesta

Un'aquila è caduta stamane sul campo di Marte

e un leone morto si è seduto davanti al tempio di Giano

i battenti delle porte prede di venti contrari.

Gli aruspici hanno profetato l'avvento di una guerra

in qualche parte del nostro smisurato impero,

grande come il nostro orgoglio

e il canto bituminoso di un cuculo risuona insistente

tra il Palatino e l'Aventino.

Oggi, forse le stelle mi sono amiche,

un'eclisse di sole si è posata sulla città eterna...

Cesare ha rafforzato le guardie, il suo palazzo

è illuminato da mille torce...

uno sfarzo, uno scintillio di luci trapela dalle finestre

serrate...

Cesare, al sicuro nel suo palazzo, trema di paura,

sparge menzogna sul suo generale Germanico,

dentro di sé sa che c'è un solo Germanico

che torme di barbari già premono ai confini,

hanno oltrepassato il Danubio, e che i nomadi

del deserto saccheggiano a sud le ricche città dell'impero.

Sette corvi si alzano in volo dal tempio di Vesta

Un'aquila è caduta stamane sul campo di Marte

e un leone morto si è seduto davanti al tempio di Giano

i battenti delle porte prede di venti contrari.

 

Epistola di Germanico a Selene

...mia amata Selene quello che 

tu chiami «popolo di Roma»

è ormai una plebe insolente e servile, 

una escrescenza del nobile idioma latino, 

un obbrobrio, un mostro, un ircocervo

dalla lingua bifide e cortigiana 

che sa solo adulare e incensare 

i potenti e gli ottimati...

Sono lontani i tempi dei valorosi tribuni!

Vieni, se vuoi, nell'Urbe, la città 

brulica di bighe, di odalische 

e di traditori, di faccendieri,

e Cesare col faccione intriso di cerone da teatro

gorgheggia con la sua arpa dorata

finge sordido sollievo e cordoglio posticcio,

devi vedere che battimani quando il despota

cinguetta i suoi versicoli! 

Quella che tu chiami Musa

è caduta nelle mani di questi sciacalli

di questi pipistrelli.

Pensa, il sordido Cesare gorgheggia 

con la cetra i suoi versicoli,

ne ha già pubblicato settecento rotoli

e adesso altri cinquecento hanno invaso

la nettezza urbana dell'Urbe...

Che altro dire: 

è un codardo panzuto che striscia come una biscia
come una lingua nel palato di un lebbroso...

 

Ultima epistola di Germanico a Giulio Decimo

Come Mitridate ogni giorno bere un sorso

di veleno... 

so aspettare, mio amato Giulio Decimo,

l'attimo propizio, so attendere il tempo,

so aggiungere tempo al tempo,

non temere, Chronos è più antico della Notte

e la Notte più antica dell'Erebo;

mi affiderò a Chronos dunque,

saprò essere saggio ed anfibio, prudente

ed audace, come Odisseo mi travestirò da 

mendicante ed entrerò nella corte di Cesare

tra i faccendieri e i navigonelloro,

dirò che gli àuguri hanno preannunciato

i fasti del mio arrivo, dirò che sette corvi

volano dall'alba sul Foro ed hanno beccato

il fegato di sette colombi, dirò della imminente 

vittoria delle legioni del nord,

che il generale Germanico è pronto

con le armate a vendicare i morti romani,

lo stuzzicherò nella vanità di cui è guasto,

predirò che i profeti di sventura verranno

puniti e i codardi soppressi in un lago di sangue

che l'immortalità dei Campi Elisi 

è il pegno per gli audaci...

dirò che Cesare è un poeta degno dei posteri,

dirò tante menzogne che stordirò

il Cesare di argilla, plaudirò alla sua astuzia,

simulerò plauso e dissimulerò l'obbrobrio 

che mi incute il suo torbido faccione

impomatato  con la malta del mar Morto,

applaudirò i suoi  osceni versi...

e lo colpirò con la daga tra la scapola e il collo,

un solo colpo, e la testa di Cesare rotolerà

nel fango da cui è venuto, e Roma

sarà libera, libera di tornare alla repubblica,

e ai parchi costumi di Catone l'uticense.

 

Dedico queste parole alla carneficina che avverrà

Dedico queste parole alla carneficina 

che  avverrà.

Nottetempo, quando sette corvi si alzeranno

in volo sul Foro, quello sarà il segnale, 

e il Tevere sarà rosso di sangue. 

Druso si è soffocato con un acino d'uva,

Lucio Vero è caduto; lo so, hanno detto  

che è inciampato su una daga, 

anche Gaio Duilio hanno colpito alle spalle, 

il Prefetto del Pretorio ha chiuso 

le indagini contro ignoti; 

afferma, il malvissuto, che sono stati 

dei cani sciolti, dei briganti... 

Gli amici di un tempo si sono dileguati, 

Selene rimpiange gli amorazzi di Cesare

e tu Giulio Decimo, anche tu mi hai abbandonato.

Ma non temere, tutto è pronto,

 un corvo gracchia sul frontone del Foro 

e un gabbiano, dicono, ha posato un uovo d'oro 

sul tempio di Vesta. Il piano aspetta 

 i suoi interpreti come la cetra i suoi musici,

tra poco, mio amato Giulio Decimo, 

vedrai la testa di Cesare spiccata dal corpo 

sul vassoio delle vivande, gli dirò:

«Un tempo sei stato Cesare, tra breve sarai Nessuno»,

un solo colpo sotto la pappagorgia

e sarà Germanico ad invitare la sordida

feccia della plebe con il codazzo dei suoi 

falsi tribuni al banchetto

che verrà...

da Germanico a Giulio Decimo

da Nyx nasce un Uovo pieno di vento,

da questo Uovo emerge Eros dalle ali d'oro, 

unitosi durante la notte al Chaos, 

Eros genera la stirpe degli uccelli

quindi Urano e Oceano, Gea e gli dèi 

tra cui Eros, principio di armonia 

perché è la forza che spinge gli opposti 

e i diversi all'unione e all'armonia. 

Eros quindi è più antico di Thanatos, 

più antico e potente delle Moire 

perché in grado di sconfiggerle.

 

Risposta di Giulio Decimo a Germanico

Tu l'hai detto: 

«Chronos è più antico della Notte»,

ed io ti dico: 

«Chaos è più antico dell'Erebo».

Guardati, Germanico, dalla tua folle idea

di abbattere il Cesare, condurrà alla morte

te e i tuoi seguaci; ti scongiuro ancora 

una volta, per l'ultima volta forse, 

io ormai ho deciso

me ne starò qui nella mia Castrumlaino

tra i villici e i bifolchi, come tu scrivi,

a piantare ulivi e a coltivare i porri

a insegnare ai bambini le poesie

dei nostri padri, a piantare la vite

e a coltivare i fiori,

io ormai ho abbandonato

la spada per il vomere, la vendetta

per la saggezza, la repubblica è

soltanto un lontano sbiadito ricordo,

siamo degli sconfitti, Germanico,

ed anche un generale deve capire

quando è  il tempo di ritirarsi;

no, non è viltà la mia, è saggezza,

vecchiaia forse, non è più il tempo 

delle spade, lasciami qui a dormire

il sonno eterno quando Chronos entrerà

nella Notte e il buio prenderà per mano

il tuo vecchio compagno d'armi 

Giulio Decimo.

 

Germanico risponde a Giulio Decimo

Chi è Cesare?, proprio tu, Giulio Decimo,

mi chiedi di deporre la spada per la cetra?

Sei tu a chiedermi questo? Proprio tu?

Tu, mio compagno d'armi d'un tempo? 

Dimmi: per chi abbiamo combattuto, 

per Roma o per Cesare?, no, caro fratello,

abbiamo combattuto per Roma, per la Repubblica,

non per il livido Cesare.

Passeggia Cesare  negli orti di Cesare?

Bene, fa che passeggi in preda al tremore. 

Pensa, il bastardo non si fida neanche dei pretoriani,

si fa seguire dai suoi fedeli mercenari batavi

financo dentro l'alcova e alle Terme. 

Dovrei scrivere poesiole in onore della spintria? 

In onore del tiranno? 

Non puoi chiedermi questo, Giulio, 

neanche morto, neanche da morto.

Ricordi il nostro antico motto? 

«Non accettare mai di fare un passo indietro».

Abbiamo combattuto contro i germani,

i goti, e li abbiamo ricacciati da dove erano venuti.

Bene, ciò che è bene non è male.

La ruota di Issione si è fermata

Tantalo non patisce più la fame e la sete,

Chronos è dalla mia parte, parteggia per Germanico,

Cesare invece invoca gli dèi con inutili suffumigi

interroga gli àuguri, chiede agli dèi immortali

l'immortalità per il suo potere di argilla

e per i propri versi spocchiosi.

Il marmo nasconde l'argilla di cui è fatto il suo palazzo. 

Credimi, Giulio, ancora per poco Cesare potrà passeggiare 

negli orti di Cesare, e ammannire alla plebe

giochi equestri e  combattimenti di galli.

Ancora per poco.

 

Epistola di Giulio Decimo a Germanico

Quante volte Germanico abbiamo invidiato

la felicità del delfino mentre guizza tra le onde 

del Baltico e ammirato la libertà dei gabbiani

nell’aria che volano via ad un battito di mani

più leggeri del discobolo di Crotone… 

Davvero!, noi tutti li abbiamo invidiati e amati

li abbiamo riconosciuti come nostri simili, 

di un’altra dimensione però, più leggera, 

gioiosa, ilare, felice della nostra, terrestre…

«Ma tu – ti chiedo – se un dio ne avesse facoltà,

ti ci cambieresti?, cambieresti la tua sorte con la sua?».

 

Trenta anni più tardi. Il ritorno di Giulio Decimo

Sono tornato a Roma. Inondata di luce.

Il Foro splendeva al sole, anche il Pantheon

era un tripudio di marmi, di luce. 

Il biondo Tevere

scorreva come negli anni della mia infanzia.

Leoni alati e Cesari in bronzo mi salutano.

«Urania è più vecchia di Clio», 

dicevi un tempo Germanico.

«Davvero - mi sono detto - nulla sembra mutato».

Cesare nella Domus aurea ha cambiato nome

emana editti e batte moneta

con la sua effigie in entrambi i lati.

S'intende, sono tornato in anonimato, 

sotto mentite spoglie.

Si viaggia bene nell'impero, 

le strade lo solcano dritte, 

non sai mai dove finisce il tempo

e dove comincia lo spazio, o viceversa.

Tutto il mondo è l'impero, 

tutti i mari lo bagnano, dall'Atlantico 

all'Adriatico.

Siamo tutti cittadini del tedio.

Siamo tutti cittadini di Roma.

«Sì, ma Roma dov'è?», mi sono chiesto.

Allora ho deciso. 

Non potevo non rivedere Roma.

Prima di morire. E così sono tornato. 

Il Foro splendeva al sole, anche il Pantheon 

era un tripudio di marmi e di luce. 

Il biondo Tevere

scorreva come negli anni della mia infanzia.

 

Monologo dell'Imperatore Giuliano l'apostata

Come quando sei a teatro e vedi 

sul fondale trascorrere delle ombre indecifrabili, 

incomprensibili icone, però, che parlano

una loro lingua muta;

geroglifici, criptogrammi, tracce misteriose 

degli dèi scomparsi, di infausti eventi;

e credi di riconoscere un profilo, 

un volto, una immagine, un segmento, 

una mano tesa in aiuto

(o pronta ad impugnare una spada…)

Io Cesare, davanti allo specchio, chiedo a Cesare: 

«È il tuo quel volto?», «Sono per te quei segni?»

Il mio dèmone mi dice che «le Moire 

sono più antiche del Fato, che la mia filosofia

è aggiogata ad un carro più antico».

Mi dice anche: «Guardati dai tuoi generali, Cesare!»*

«È tua l'immagine che vedi riflessa nello specchio!»

«Una mano compirà quel gesto. Ti colpirà alle spalle. 

Una Moira l'ha deciso.

Che tu forse speravi avesse dimenticato. 

Ma è lì il gesto, nel nodo che Lachesi ha intessuto nel filato

del tuo manto di porpora, che dimora

nel secchio senza fondo della tua anima».

Mi chiede ancora il dèmone: «È  tua quella mano,

la mano che ha impugnato la spada?

La spada chiama altra spada, Giuliano,

l'odio chiama altro odio».

«Sì, chiedo al dèmone: quel volto che vedi riflesso nell'immagine 

dello specchio corrisponde alla mia “anima”?».

«Sì, - ha risposto il dèmone -

quel volto corrisponde al tuo profilo, 

alla linea sghemba del tuo mento leporino, 

alle rughe che hai agli angoli degli occhi 

almeno nelle sue linee, diciamo così, generali».

«Sì - ha replicato Cesare - ritengo di essere sempre io 

il riflesso di quel volto che ho considerato, 

troppo spesso, in modo incongruo, discontinuo, 

a volte fraudolento, 

scambiando l’effetto per la causa

o la causa per l’effetto.

Sì, sono proprio io quel volto,

il volto che gli dèi mi hanno dato,

il destino che le Moire mi hanno concesso».

*giunto nel 363 d.c. con il suo esercito a Ctesifonte, Giuliano, a soli 33 anni, fu assassinato da una congiura di alcuni ufficiali cristiani. Ecco il resoconto di Ammiano Marcellino sugli ultimi istanti di vita dell'imperatore:

"Giuliano, giacendo sotto la tenda, rivolse la parola ai circostanti depressi e tristi "é venuto il tempo, amici, di uscire dalla vita. Sono in procinto di pagare alla natura il debito che chiede, non afflitto e addolorato, ma ammaestrato dai pareri dei filosofi su quanto l'animo sia più beato del corpo, conscio che tutti i dolori, come infieriscono sui codardi, così cedono il passo a chi persiste. Non rimpiango alcuna delle mie azioni nè mi opprime il ricordo di un grave delitto, sia quando venivo relegato nell'ombra e nelle ristrettezze, sia dopo la mia ascesa al principato. Ho conservato l'animo esente da macchie, come penso, reggendo l'impero con moderazione. Considerando che il fine di un giusto impero fosse l'interesse e la salvezza dei sudditi, fui sempre alquanto propenso ad una situazione tranquilla. Ora me ne vado lietamente, e ho venerazione per il nume eterno, poiché prendo congedo non dopo una lunga e dolorosa malattia, ma nel mezzo della gloria fiorente"