L’ORDINARIA FOLLIA DEL SIGNOR AFANARSIS
Mi trovo nella cella del penitenziario che abito da dieci anni in esecuzione di una pena detentiva. Sono dieci anni che penso di rivelare alcune circostanze sulla morte del Signor Afanarsis. È giusto, penso, rivelare adesso il segreto ai venticinque lettori di questo libro.
Esattamente il 31 dicembre del 1999 passeggiavo, come sempre quando voglio sgranchirmi le gambe, nella stazione centrale della nostra capitale sgualdrina e sorniona. Ad un certo punto, anzi, di punto in bianco compare un personaggio che soltanto in seguito inventariai con il suo cognome: era il poeta Afanarsis. “Chi sia questo bizzarro personaggio, in verità, non ne ho la più pallida idea ma ho la sensazione di averlo già incontrato da qualche parte”, pensai quel giorno in un pensiero interiore. L’aspetto esilarante è che nel prosieguo degli avvenimenti incontrai il personaggio in questione sempre in momenti cruciali della mia esistenza, come dirò nel prosieguo.
Gli daremo subito un nome: era Afanarsis, un letterato, un solitario; ma è una questione che non vorrei discutere in questa sede.
È alla stazione centrale, disperso tra la folla che formicola a raggiera. I treni ruglianti vomitano altra folla. Indossa una sorta di frac d’un nero logoro, il cappello un tempo forse lucido che nel ricordo mi pare piuttosto simile ad un cilindro bolso. Cammina oscillando lievemente il busto con aria insieme smarrita ed altera. Il pomo d’avorio del suo bastone da passeggio lampeggia nervosamente; anche i suoi occhi lampeggiano; la folla sorride visibilmente incuriosita. Afanarsis solca il vuoto con il suo incedere oscillante, esitante, come febbricitante.
Io che ho avuto la ventura di leggere le sue ultime grandi poesie, non ho dubbi: è stato il più grande poeta del Novecento. Assolutamente impareggiabile, geniale. Aveva sempre disdegnato rendere di pubblico dominio le sue carte, ed io forse dovrei attenermi strettamente alle sue disposizioni; non so, penso che forse sarebbe più giusto consegnare gli scartafacci ad un qualche editore. E sia quel che sia. A volte, penso invece che sia più giusto rispettare l’ ultima volontà, come quando rispettiamo l’ultima volontà dei condannati a morte, e gettare gli scartafacci nella spazzatura. Ma ora basta col rimuginare. Lo rivedo col suo passo dinoccolato, dimesso, l’abito a rattoppi, gualcito. Rammento un cachinno, lo sguardo di sguincio da grande imperatore, o impostore. L’impostore, ovvero il poeta, ebbe su di me l’influsso d’un dèmone maligno. Lo rammento sempre col suo sogghigno da sputacchiera, da postiglione di carrozza, con il gozzo che va su e giù…
«Io sono il signor Lupo», gli dico presentandomi e tendendogli la mano, ma Lui non accenna il menomo saluto e si guarda bene dallo stringermi la mano.
Ciò fu nell’anno millenovecentononricordo. Noi siamo immobili, sul molo del porto di Civitavecchia. La stazza del transatlantico salpava. Non lo rividi mai più.
Di lui posso con assoluta certezza affermare che era solito intrattenersi con un dèmone, con il quale giocava a tressette o imbastiva una partita a due, che la sua stanza era sempre affollata di dèmoni oltre che di libri polverosi; tutto così, alla rinfusa, e che soleva onorare gli ospiti con sontuosi brindisi che facevano tintinnare i bicchieri di cristallo. I miei occhi stralunano ancor oggi al ricordo. Il Sig. Afanarsis era solito tenere convito con il nulla.
Seppi più tardi che morì avvelenato nell’altro mondo, o ciò che in seguito fu chiamato il nuovo mondo, da una tazzina di caffé. Forse si trattò di un suicidio. Forse no, dissero gli inquirenti che stesero il rapporto di polizia giudiziaria; forse il caso avrà avuto la sua parte o il gioco o il fuoco, chi può asserirlo?, sui giornali apparve la notizia della morte del poeta in quelle rubriche funebri a pagamento ad opera di un suo anonimo estimatore. Ancora oggi mi capita di vederlo che cincischia con la tazzina di caffé mentre strabuzza gli occhi e saluta un dèmone.
Oggi mi chiedo chi sia quell’idiota di sceriffo che ha steso il rapporto di polizia giudiziaria. O forse lo dovrei ringraziare per quella clausola aperta, quel dubbio che balenava verso la fine della relazione. Il Signor Afanarsis si era suicidato, senza ombra di dubbio, ma forse qualcuno lo aveva spinto al suicidio come per gioco o per scommessa. Nella relazione al giudice balenava l’ipotesi della «induzione al suicidio». Un mazzo di carte fu trovato sul tavolo che mimavano una contesa, una sfida. La morte doveva essere la posta in palio. Uno dei due contendenti doveva necessariamente uscire di scena.
Ma io non ho dubbi. Il misterioso ospite, l’ipotetico interlocutore-contendente non poteva essere altri che lui: il diavolo in persona. Il suo démone.
incontro in internet del signor Afanarsis
Ho trovato tra gli appunti e gli scartafacci di Afanarsis questo scritto autografo del poeta che considero della massima importanza per gli ammiratori della sua poesia.
«Ho sempre dubitato della mia esistenza: da bambino (ammesso che io abbia mai avuto qualcosa di paragonabile all’infanzia), ero letteralmente terrorizzato dal pensiero, o meglio, dal non pensiero del sospetto della mia inesistenza. Nessuno tra i miei precettori si accorse mai dei miei turbamenti. In questo ufficio dissimulatorio ero diventato un vero maestro: dissimulavo la mia inquietudine con perfetto stile e padronanza, ma mi restavano lunghissimi, interminabili momenti di assenza e di silenzio durante i quali ero perfettamente convinto della mia inesistenza: temevo di assottigliarmi fino a scomparire del tutto. Direi che tutta la mia infanzia è stata una tremenda lotta contro la mia temuta inesistenza; quel bambino pensava di essere inesistente; o meglio, pensava che a volte fosse facile passare dall’esistenza a quella sorta di zona neutra che chiamiamo inesistenza; ma non propriamente la morte, giacché per gli infanti la morte non esiste; per un infante la morte è soltanto un geroglifico dell’assenza. Per tornare in me, spesso mi sottoponevo ad un conteggio ossessivo ed infinito: contavo e ricontavo tutto ciò che mi capitasse a tiro, ogni oggetto del tutto trascurabile, lo sottoponevo ad una dettagliatissima analisi al termine della quale periclitavo in una aritmomania minuziosa ed ossessiva. Interminabile.
Continuo a pensare al delitto come all’unica condizione di senso della mia vita; vivo dissolto e dissoluto in mille rivoli: pensieri e angosce contrastanti che si increspano, spumeggiano, zampillano ed infine trovano il proprio alveo, tornano nel nulla da cui sono venuti; che il nulla sia il presupposto dell’essere, anzi, la sua vera e profonda sostanza, mi sembra assolutamente incontrovertibile; sono cosciente di oscillare perpetuamente tra il nulla e quel qualcosa di più del nulla che comunemente denominiamo Essere.
Ma il delitto è una cosa oltremodo sciocca; compiere un semplice delitto lo trovo esteticamente riprovevole, lo considero indegno, assolutamente indegno della mia intelligenza. Devo sì compiere il capolavoro di un delitto, ma per far ciò dovrei incontrare la mia anima gemella, dovrei ucciderla dopo averla amata.
Così, ho iniziato a cercare la mia preda tra gli annunci dei cuori solitari. Ho passato in rassegna le proposte femminili di incontri erotici: mesi di ricerche a tappeto, ostaggio di una angoscia montante, delirante. Alla fine, ho creduto di individuare la mia preda in un sito sperduto di Internet. L’inserzione recitava: «ex fotomodella bellissima cerca aguzzino che sappia seviziarla, stuprarla e strangolarla»; seguivano alcune indicazioni in ordine alle modalità dell’incontro. Devo confessare che non è stato semplice entrare in comunicazione con la mia anima gemella, ho dovuto superare innumerevoli prove, innumerevoli filtri. La Signora era di una avvenenza disumana; al nostro primo incontro indossava un cappellino di seta nero con la calotta tonda e una rete che rendeva difficoltoso l’esame del suo volto dagli occhi lunghi e sensuosi come gondole nere; la Signora appariva evasiva, elusiva, con l’esile corpo sempre fasciato da un abito di raso o di velluto nero; mi interrogava circa i miei propositi; io replicavo che ero un aguzzino sadico e spietato, disposto a tutto, allo stupro e forse anche all’assassinio. L’ignota interlocutrice, alla fine parve convenire circa la bontà dei miei propositi, mi fissò un appuntamento in un confessionale di una delle numerose chiese barocche e orrende dalla nostra capitale ingorda e facinorosa; avrei dovuto presentarmi in abito grigio e cravatta gialla con indosso una maschera nera che mi coprisse interamente il volto.
Era caduta la gonna di velluto della sera che baluginava alla debole luce dei lampioni; ed ecco che la mia ignota interlocutrice si presenta celata dietro un velo dal quale traspaiono due occhi color smeraldo al di sopra dei quali indovinai due lunghissime ciglia finte. “Deve essere terribilmente bella”, pensai.
La dea mi conduce in un confessionale che giace incassato in un pesante organo barocco, vi penetra furtivamente; rimane in attesa. Io la seguo a distanza con il cuore in gola; il cuore mi batte così furiosamente che ho temuto per un attimo che all’esterno si potesse udire il suo tambureggiare dentro la grancassa del mio petto. Mi guardo intorno: non c’è nessuno, tranne due vecchine inginocchiate intente a pregare. Rapido come un’ombra penetro nel confessionale come l’ombra furtiva di Cagliostro: attraverso la grata, odo una voce soave e sottile che mi chiede se sono ancora deciso a seviziarla e a strangolarla durante l’amplesso; io mi limito a replicare che avrei eseguito, senza indugio, i suoi desiderata.
Ho appena il tempo di riflettere sulle parole appena pronunciate che la soave figura femminile si alza e scompare dalla grata che ci divide.
Qualche tempo dopo, il trillo del mio cellulare mi richiamò alla realtà: era la dea che mi convocava di nuovo per un abboccamento. Una villa di periferia circondata da un alto muro con in cima cocci aguzzi di bottiglia. Il cancello era chiuso. Non c’era alcun pulsante che indicasse l’esistenza di un campanello; ero in preda ad un’ansia feroce, lunghissimi minuti dietro il cancello della villa in preda ad un’angoscia intollerabile. Finalmente, la mezzanotte scoccò ed il cancello si aprì, come per incanto.
Un giardino di rovi e piante inaridite mi si fece incontro in una notte di luna piena. Io sono abbigliato con un inappuntabile vestito fumo di Londra, calzo delle scarpe di vernice nera che brillano al riflesso della luna e una maschera anch’essa nera mi copre interamente il volto. Avevo trascorso lunghe notti insonne, in stato febbricitante in attesa di quel momento!, sono ancora febbricitante. percepisco distintamente il battito frenetico del mio cuore nelle vene delle tempie.
Oltrepasso le aiuole di rovi del giardino selvatico e penetro nell’ampio salone illuminato da un lampadario di cristallo dalle molteplici braccia barocche sulle quali brillano una miriade di esili luci rossastre. La mia vittima è lì, indossa un elegantissimo vestito di seta nera che le cinge il collo ed aderisce perfettamente ad un corpo stupendamente modulato. Una criniera aurea pari ad uno zampillo di acqua spumeggiante circonda un volto di diafana porcellana; da una vertiginosa fenditura posta al centro del suo abito, sono visibili due gambe nervose ed affusolate inguainate in calze sottilissime del colore delle perle del mare. Una veletta protegge una fisionomia nobile e altera che – ho pensato - deve essere stupendamente seducente. Un brivido, non so se di terrore o di lussuria, scuote le sue ciglia. Mi inoltro nell’ampio salone simulando la gelida indifferenza che la mia maschera mi impone.
Perlustro il salone spalancando con il bastone da passeggio con l’impugnatura d’avorio le porte di tutte le stanze per sincerarmi che non vi sia nessuno nascosto in qualche latebra di oscurità. L’«oscurità», che parola è questa?, siamo tutti abituati all’oscurità o, almeno, dovremmo esserlo. In questo preciso momento ho la certezza della nostra solitudine assoluta. Rivolgo l’attenzione del mio sguardo assorto alla mia dea. I miei occhi hanno l’ardire di sostenere lo sguardo dei suoi occhi, le circondo con un braccio la vita sottile con la padronanza del personaggio che mi sono imposto e la conduco per l’ampio salone come in una danza funebre mentre risuonano le note di un notturno di Chopin. Le mie labbra si posano sulle sue, algide. È stato il bacio di Giuda. Così intenso ed appassionato che oggi comprendo come fino allora non avessi in realtà mai baciato veramente nessuna donna. È stato, adesso lo posso dichiarare, il primo e l’ultimo «vero» bacio della mia vita. Il suo corpo flessuoso aderisce al mio come un guanto alla mano, come il plettro alle corde della chitarra. La mia mente è ottenebrata dal pensiero dominante: “A quando il delitto?” - Al termine della danza, ci allontaniamo l’uno dall’altra, come in ossequio ad un pensiero condiviso e prestabilito. Estraggo, dal bastone del passeggio, con studiata lentezza per esibirlo in tutta la sua seducente bellezza, un pesante nerbo di cuoio; mi avvicino alle sue spalle e giungo in prossimità della sua nuca, la mordo freneticamente e la spoglio. Un solo gesto, e le faccio cadere le spalline dello splendido vestito di raso: il suo corpo ceruleo rifulge nel lucore rossastro in tutto lo splendore di un’opera d’arte. Un fremito, un sussulto. La dea mi volge le magnifiche nude spalle, l’incavo nervoso ed affusolato delle reni e le natiche scultoree separate da un solco tanto netto da apparire irreale; un sottilissimo reggicalze perlaceo sostiene una calza dal tessuto quasi invisibile, ornata sulla sommità da raffinatissimi e preziosi ghirigori. Il nerbo che stringo nel pugno si abbatte ripetutamente sulle spalle della dea con l’imprevedibile evidenza di un nubifragio, lasciando sulla sottile pelle eburnea lunghe striature rosseggianti. La dea emette un gemito lungo ed evanescente, modulato, non so se di lussuria o di dolore; indietreggia fino ad un divano di cuoio nero, appoggia un ginocchio sul divano sempre volgendomi le spalle, poi, inclina il busto lentamente volgendomi il viso oscurato dalla veletta; durante questo movimento, l’incavo delle reni piomba nell’oscurità e rifulge la perfetta sfericità delle natiche. Un lunghissimo intervallo durante il quale medito il preambolo del secondo atto. Una improvvisa e violenta nerbata si abbatte di nuovo sulle spalle della dea che emette un lunghissimo gemito dalla colonna sonora superbamente ondulata e seducente; ne sono certo, la dea squittisce di dolore e di lussuria; il dolore le fa piegare anche il secondo ginocchio che si posa sul divano; la dea tiene i gomiti sulla spalliera, il volto tra le mani e la schiena ondeggia come un ponte di corda sospeso tra i piloni degli alti glutei. Getto il frustino in un angolo; ormai è completamente disutile. La belva è stata domata. In quella immonda posizione la dea spia i miei minimi movimenti, non perde nessuno dei miei atti. Io passeggio facendo schioccare il frustino sul pavimento. Le sue terga brillano d’un lucore opalescente. Interrompo all’improvviso il mio andirivieni: le ficco con indifferente prepotenza il mio fazzoletto in bocca, poi le lego i polsi con un lacciolo e mi pongo in contemplazione delle sue terga sontuose. La prendo con ferocia mentre nell’amplesso animalesco le stringo intorno alla gola una cinghia di cuoio. Sono istanti terribili: ancora una leggerissima pressione e la dea esalerà l’ultimo singhiozzo. Esito. È un istante che mi sembra una eternità. Raggiungiamo l’acme dell’orgasmo mentre le stringo con tutte le forze la cinghia attorno alla gola.
Inspiegabilmente e fortunosamente, all’ultimo istante, prima della fine dell’ultimo respiro, abbandono la presa e fuggo.
Da allora non ho più rivisto quella splendida creatura. Non ho più trovato il coraggio di renderLe visita.
Io la amo».
IL CLIOBLASTOMA CEREBRALE DEL SIGNOR AFANARSIS
Voglio condividere un segreto con i miei venticinque lettori. Ho deciso di comunicarvi un segreto. Ovviamente, dal momento che ve lo comunicherò, il segreto cesserà di essere tale e diventerà di pubblico dominio. E questo è precisamente quello che voglio. Questa è la mia volontà, rendere di pubblico dominio questa singolare vicenda.
Per i posteri, se mai posteri verranno, ecco qui il resoconto stenografico del mio segreto.
6 gennaio 2003
Stamattina mi sono recato al laboratorio di analisi sito nei pressi della mia abitazione ed ho ritirato il referto delle analisi cliniche che avevo effettuato qualche tempo addietro. Per la verità, me ne ero completamente dimenticato. Fatto sta che una gentile signorina del Laboratorio mi aveva chiamato al cellulare per segnalarmi che lì era a mia disposizione il referto delle analisi. Quando ho aperto la busta contenente il referto stavo ammirando le gambe dell’infermiera accavallate che spuntavano piacevolmente dal grembiule bianco della divisa: i ginocchi della ragazza erano torniti straordinariamente bene: la minuscola rotula appariva ancor più piccola a confronto dell’interno delle cosce che trasparivano parzialmente dall’indumento. Così, distrattamente ho letto sul foglio bianco intestato al Laboratorio di analisi quella parola dal suono sinuoso come un’ansa di un fiume: clioblastoma.
Sì, mi è stato diagnosticato un clioblastoma cerebrale. La T.A.C. esclude ogni possibilità di dubbio, ho al massimo sei mesi di vita. Improvvisamente, mi trovo dirimpetto alla morte. Torno a casa. La faccia gialla e flaccida di mia moglie mi incute noia e disgusto. Un tempo, quando eravamo giovani, prima di unirci in matrimonio, ci accoppiavamo in amplessi virtuali. Come sarebbe a dire? Beh, diciamo che io mi masturbavo mentre la guardavo spogliarsi e lei si masturbava a sua volta dopo che avevo raggiunto l’orgasmo. Tutto qui. Eravamo rivali in amore come in ogni altra cosa. Adesso siamo rimasti soltanto rivali. L’odio ha occupato lo spazio lasciato vuoto dall’amore. Mio figlio è un perfetto imbecille. Sono almeno dieci anni che non ci scambiamo neanche il saluto. Negli ultimi dieci anni abbiamo vissuto come estranei nella medesima abitazione: in perfetto reciproco disconoscimento. Considero il silenzio perfettamente eloquente, molto più eloquente dei miliardi di parole vuote che utilizzano gli umani. Il resto degli uomini mi è indifferente. In verità, mi è sempre stato completamente indifferente il commercio con gli esseri umani. Per quanto riguarda i rapporti sessuali con la mia consorte, confesso che con lei non ho mai avuto alcun tipo di rapporto o commercio del sesso. Fin dal primo giorno del viaggio di nozze le precisai subito che non avevo alcuna intenzione di concederle alcunché sul piano sessuale. Le «confessai» che ero diventato completamente impotente e che la avevo sposata proprio per umiliarla, per umiliare la sua femminilità.
È bene confessare subito che l’ultimo amplesso l’ho avuto con una puttana proprio ieri l’altro quando ancora non sapevo nulla della mia sorte. Sono entrato nella sua alcova digrignando i denti dall’eccitazione. Le ho ingiunto di spogliarsi con accurata lentezza. Lei si è spogliata lentamente dinanzi al mio sguardo, comodamente assiso in poltrona mentre fumavo una sigaretta. Ondeggiando sulle anche e sugli alti trampoli, si è tolta il bustino che le allacciava il seno copioso e la vita. È rimasta in perizoma e autoreggenti. Poi si è tolti anche quei significativi dettagli dell’abbigliamento, diciamo, erotico facendo oscillare il bacino davanti al mio sguardo vitreo e alla mia faccia di gesso.
Appena fu tutta nuda, le ho chiesto di avvicinarsi; le ho ordinato di inginocchiarsi e di piegarsi dinanzi a me e mostrarmi le terga. La prostituta dopo un momento di esitazione ha obbedito, si è posta prona dinanzi al mio sguardo mostrandomi il solco concavo della sua schiena magra e lo spazio tra le natiche oscenamente aperto. Senza dire una parola, controllando con la ragione i singoli movimenti e con la massima calma, le ho inserito nell’ano il lapis che tengo sempre nel taschino della giacca, proprio come un ladro serba il grimaldello; poi, le ho ingiunto di camminare in su ed in giù per la stanza. Lei camminava sugli alti tacchi a spillo e mi lanciava occhiate di sottecchi, ammiccante e seducente.
Io la guardo senza che i miei occhi evitino di incontrare i suoi; lei mi guarda fingendo l’intensità di incontrare il mio sguardo.
«Sei omosessuale o normale?», mi chiede con una certa villania la sgualdrina.
«Sono un normale omosessuale», rispondo.
«Allora vuol dire che sei un frocio maschio; a me piacciono i froci maschi, mi fanno eccitare».
«Sei la mia troia preferita», le ho detto dopo una lunga pausa.
«E tu sei il mio cliente più bizzarro», mi ha risposto con semplicità la prostituta.
«È per questo che andiamo perfettamente d’accordo».
«D’accordo?, che significa d’accordo?».
«Vuol dire che viaggiamo in direzioni diverse che non si incontreranno mai. Più o meno questo», ho precisato laconicamente con voce metallica.
«Che non devono incontrarsi mai?».
«È questa la condizione del nostro rapporto?», ho replicato senza esitazione.
«Esattamente, è questa», ha precisato la sua voce sensuosa come il bocciolo d’un garofano.
12 gennaio 2003
Dopo il tramonto sono uscito per le strade dell’EUR. Ho parcheggiato l’utilitaria sul margine di una strada dove un tempo c’era il luna-park, e adesso c’è un giardino immerso nel buio. Nel taschino interno a sinistra della giacca tenevo il mio revolver. Ho deciso di ammazzare il tempo. Non so bene cosa farò, ma qualcosa pur farò.
Mi sono inoltrato a piedi nell’ampio parco semibuio che circonda il palazzo della «Civiltà e del lavoro» all’EUR.; il duce del fascismo gli aveva dato questo nome per sbeffeggiare gli operai e la loro lotta di classe, penso; il mausoleo di cartapesta marmorizzato rifulgeva alla luce dell’illuminazione artificiale. Sono andato avanti a zig zag un po’ a tentoni nel buio, quando ho avvistato una punto bianca nel buio parcheggiata tra gli alberi. Mi avvicino con circospezione, senza far rumore, ed ho sbirciato all’interno dell’abitacolo. Lì dentro c’era una coppia che amoreggiava teneramente. D’istinto, tocco il revolver e un’idea terribile mi sfiora la mente; faccio appena in tempo a scacciarla che le mie gambe già si affrettano sulla strada del ritorno.
13 gennaio 2003
È scesa la notte sulla mia città desolata. D’istinto, i miei piedi mi hanno condotto nei pressi del luogo dove ieri sera ho avvistato l’automobile bianca con dentro quella coppia. Con un rapido colpo d’occhio mi accorgo che l’automobile è posteggiata nel medesimo luogo solitario della sera innanzi. La finta gigantomachia di cartapesta dell’EUR rifulge in tutta la sua panoramica imbecillità. C’è una coppia che fornicava selvaggiamente dentro l’abitacolo. Si intuisce la donna, semivestita; è in posizione prona con l’uomo sopra di lei. Gli amanti non si sono neanche accorti della mia insistente presenza. Vengo colto da un senso di nausea e di furore. Mi avvicino all’automobile senza sapere neanch’io il perché. Un istante dopo estraggo il revolver dalla tasca, ho inserisco la pallottola in canna ed premo il grilletto dell’arma come un automa, in stato di incoscienza: esplodo due colpi precisi alla testa dei due individui. Mi guardo attorno: non c’è anima viva. Mi accendo una sigaretta, aspiro profondamente il suo profumo e mi allontano dal luogo del delitto con la tranquillità di un pedestre pedone che passeggia.
L’indomani sfoglio i giornali, distrattamente, e trovo la notizia che appare a caratteri cubitali in tutte le prime pagine con la foto dei cadaveri coperti da un lenzuolo bianco. «Tutto ciò è molto noioso», commento tra me.
30 gennaio 2003
Oggi pomeriggio, mentre scorrevo le notizie di Borsa, all’improvviso, mi s’è annebbiata la vista. Forse, è il primo indizio del tumore che avanza, ho pensato. Sono rimasto lucido e calmo. Ho teso la mano davanti agli occhi. La mia mano, la mano che ha impugnato la rivoltella non trema. La osservo: è ferma, perfettamente padrona di sé. «Va bene così», mi sono detto.
Mi sono accorto che mia moglie mi guarda in modo strano ed ossessivo. Forse sospetta qualcosa. Le ho nascosto il contenuto della mia cartella clinica. Ma potrebbe comunque aver parlato con i medici della clinica che potrebbero averle rivelato la diagnosi della mia malattia. Sono convinto che lei sa. Io so che lei sa. Ma faccio finta di niente. Lei sa che io so, ma fa finta di niente. Sono calmo, determinato a comportarmi come un uomo, non le darò alcuna soddisfazione, non mi vedrà mai frignare come un bebè imbelle dinanzi alla condanna a morte.
Davanti alla morte si gioca l’ultima e definitiva partita a scacchi. Lei di qua, noi di là. Non c’è scampo. Non ho nessuna angoscia, nessun tentennamento. Io e la morte siamo agli antipodi, siamo nemici giurati. Finché io sono, lei non c’è; quando lei verrà, io non ci sarò più. Questo mi sembra l’abbia già scritto un filosofo antico. Oh, i filosofi, altra genia di pidocchi da spiaccicare al muro!, quello che non è mai stato investigato, riguarda l’assenza che separa la morte da ognuno di noi; ed è questa assenza che sarà mio compito investigare, d’ora in poi. Certo, non sono un filosofo, non è mio compito produrre filosofemi, molto più semplicemente, mi considero un uomo d’azione: un killer, un professionista. Ho sempre provato una sottile invidia per i killer spietati e determinati che talvolta vedevo in televisione nei telefilm di terz’ordine che mandano in onda dalla mattina alla sera. Inoltre, ho sempre avuto l’abitudine di leggere con avidità tutti gli articoli di giornale che riguardano i delitti passionali e quelli di cronaca nera; ne provavo una eccitazione atroce.
10 febbraio 2003
Stamane, ho telefonato ad una mia vecchia fiamma. Le ho dato appuntamento in un caffè fuori mano. Ci siamo seduti ad un tavolino e abbiamo sorseggiato il solito insignificante caffè. È una donna un po’ avanti negli anni e, inoltre, terribilmente brutta. Senza perifrasi, le ho detto chiaramente che ho al massimo cinque mesi di vita, che presto interverrà la paralisi, la cecità e, dulcis in fundo, l’arresto cardiaco. E che durante questi cinque lunghissimi mesi l’angoscia mi roderà dal di dentro, corroderà le mie certezze e le mie incertezze, minerà la mia lucidità, magari mi renderà vile e codardo come tutti gli altri umani e comincerò a frignare come un bebè; per farla breve, le ho chiarito il concetto che non abbiamo più tempo da perdere; e così ci siamo subito accordati su una somma di denaro e ci siamo diretti verso un sordido albergo ad ore nei pressi della stazione ferroviaria dove abbiamo fornicato furiosamente per alcune ore. Solo, il pensiero che abbia fornicato con me per via della mia malattia, mi rende furioso. Non amo essere compatito, tantomeno da una mia amante.
15 febbraio 2003
Ho trascorso tutta la notte a guardare film porno. Poi, intontito ed eccitato, mi sono riversato per strada come un lupo. Ho vagato per le strade di cartone verniciato di bianco dell’EUR in preda ad una fame spasmodica. Le luci dei riflettori illuminavano d’argento le facciate dell’ultimo impero romano di cartapesta.
Un bellissimo transessuale passeggia su alti trampoli avvolto in una pelliccia argentata quando la mia faccia da schiaffi arresta l’automobile proprio davanti alla dea... ed ecco che quella Semiramide con un movimento rapido si apre la pelliccia e mi mostra il suo corpo nudo avvolto in un tanga di pizzo nero. La dea entra in macchina e le infilo la canna del revolver in bocca, le ingiungo di farmi una fellatio. La dea si affretta ad obbedire. È terrorizzata. Mi premuro di eiacularle direttamente in bocca. Finito il lavoro la liquido con un calcio. Poi, sempre in silenzio, con aria svogliata le punto il revolver sulla fronte, innesto con tutta calma il silenziatore ed esplodo due colpi, proprio al centro della fronte tra gli occhi.
3 marzo 2003
Sono seduto alla mia scrivania. Sono già tre ore che fisso immobile il vuoto. Il revolver nel primo cassetto a destra, la rubrica delle puttane nel primo cassetto a sinistra, la lista degli idioti nei due volumi dell’elenco telefonico della Telecom. Ho fame. Mangio un sandwich. Ho di nuovo fame. Apro a caso il primo volume dell’elenco telefonico. Il mio dito scorre la lista delle mie prede e si ferma in un punto. Indica un nome e cognome, e un indirizzo. È il primo casuale idiota dell’elenco. Prendo nota delle sue generalità e dell’indirizzo, e mi dirigo speditamente alla volta del suo domicilio. La mia vecchia automobile ha eseguito il compito con precisione. L’ho parcheggiata nei pressi di via degli Stradivari. «Che bell’indirizzo!», non posso fare a meno di pensare alla chiave di violino. Dalla cabina telefonica posta sotto l’abitazione del Signor X, chiamo al telefono la mia preda designata. Gli dico che sono il suo assassino, che mi trovo sotto il portone della sua abitazione e che tra poco, tra pochissimo sarò lì. Gli ingiungo di contare fino a sessanta e sarò da lui, veloce come un lupo, assetato di sangue come uno sciacallo. Sono attimi di terribile incertezza da parte del mio interlocutore. Probabilmente, penso che crederà che sia uno scherzo. Uno, due, tre, quattro…aggancio la cornetta, entro nel portone e mi precipito su per le scale. Dieci, undici dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici… giungo al secondo piano; mentre salgo le scale inserisco il silenziatore… diciassette, diciotto, diciannove, venti, ventuno, ventidue… ora sono davanti all’appartamento del Signor X. Esplodo due colpi nella serratura… la porta si spalanca come un ventaglio… ventitre, ventiquattro, venticinque, ventisei, ventisette, ventotto… compare un uomo in vestaglia. Indossa una faccia inespressiva ed insignificante. Ventinove, trenta, trentuno, trentadue, trentatre…segue un lungo, interminabile silenzio durante il quale istintivamente smetto di contare; lo guardo fisso negli occhi; anche lui mi guarda fisso negli occhi; è una situazione del tutto bizzarra; noto le sue pupille che, progressivamente, si dilatano, si dilatano… mormoro: cinquantasette, cinquantotto, cinquantanove, sessanta… ed esplodo due colpi, sempre sulla fronte, sopra le due sopracciglia della mia vittima ammutolita. Il corpo adesso giace sul pavimento in una pozza di sangue avvolto in un lunare ovattato silenzio.
Mi spolvero le scarpe. Controllo se ci sono schizzi di sangue sui miei abiti; no, non ci sono, ed esco furtivamente ma con la massima tranquillità dal portone attraverso il quale pochi istanti prima sono entrato. Nessuno mi ha visto entrare e nessuno mi ha visto uscire.
19 marzo 2003
Visita al museo delle cere. Accanto alla statua di uno degli idioti ivi effigiati nella cera, ho lasciato un bigliettino con su scritto l’elenco delle mie vittime e le date degli assassinii. Questo per i posteri e la polizia, ovviamente; ah, dimenticavo: l’ho sottoscritto senza tralasciare di trascrivervi il mio autoritratto. C’era scritto: «Come ogni autoritratto, quello che segue è un falso ma, in quanto tale, il falso rivela da vicino l’originale; e, in questo senso, è perfettamente verosimile e somigliante all’originale. Il mio volto ha una fessura sul mento che quando sorrido mi conferisce un aspetto sibillino e sardonico. Ho il portamento altezzoso. Credo che sia palese e del tutto implicita – ho precisato - la scissura tra l’essere e l’apparire. L’occhio è strabico. Il naso camuso. I riccioli corvini. Il maniacale moto ciliare. L’eloquio forbito. L’inquietudine, l’intemperanza, il modo irriguardoso verso gli estranei mi accompagnano come un cavaliere accompagna la sua donzella. A tratti, un gesto, uno scarto, un lampeggio giallo del volto attraversa la mia coscienza. Forse, il baluginare di un lampione serale mi rivela crudamente per quello che sono - ho tenuto a precisare - ad un tempo dèmone e signore borghese. In verità, sono duro come il porfido, ma anche fragile come il vetro. Manierato, educato, archiviato nel disordine del nostro tempo. Urbano quanto basta, mi cruccio con atrocità. L’orologio nel taschino, l’ombrello per quando pioverà. L’elegante mocassino. Il gilet scozzese. Un gin-fizz. Il poker. La roulette. Pigro, scortese, ho rinunciato alla celerità, alla speditezza. Preferisco la sicurtà dell’aleatorio alla roulette della certezza. Amo la frusta raffinatezza, l’indolenza cerebrale. Frigido, verginale come un fucile automatico».
L’aspetto buffo e provocatorio della situazione era che si trattava della versione in prosa di una mia poesia pubblicata trenta anni prima su una pessima rivista letteraria. Che nessuno aveva letto, ovviamente, altrimenti sarei stato subito individuato e arrestato. Devo ammettere che, dopo aver lasciato il bigliettino olografo accanto alla statua in cera dell’idiota padre della patria, mi rammaricai e mi pentii di quanto da me esternato. Dovevo lasciare un’orma ben più visibile, riconoscibile e di più facile decrittazione. Dopotutto è un gioco, mi sono detto. Il gioco del lupo e della volpe.
20 marzo 2003
Avverto uno strano malessere nella mente: un ronzio insistente alle orecchie e un dolore ai lobi parietali. Forse, è l’annunzio di qualcosa, o di qualcuno che mi occupa progressivamente. È la metastasi che avanza inesorabilmente all’interno del mio cervello, penso con orrore.
Vorrei lasciare per ultimo l’uxoricidio. Quello dovrà essere il mio ultimo atto creativo.
Con passo felpato e morbido, mi sono recato all’edicola più vicina alla mia abitazione ed ho fatto incetta di tutti i giornali del mattino. I quotidiani sono pieni delle notizie del mostro che «uccide a caso». Tutta questa pubblicità mi eccita, mi dà sollievo, mi fa diminuire l’emicrania.
È notte. Vago come un lupo famelico. La groviera dell’EUR ha un brillio astrale alla luce dei riflettori. Transessuali e prostitute brulicano dappertutto.
«Apprezzo i vostri manufatti», mormoro con ironia ad una signorina che passeggia sul marciapiede con una gonnellina trasparente.
«Prediligo i vostri raffinati prodotti», mormoro ad un’altra signorina che dondola in perizoma sotto la luce gialla di un lampione serale.
23 marzo 2003
Stamane sono sceso nella cabina telefonica sotto casa ed ho telefonato al commissariato di zona. Ho chiesto del commissario in persona. Mi hanno risposto che il commissario era occupato. Allora, ho replicato chiedendo di nuovo del commissario, ma quelli mi hanno detto che se volevo potevo sporgere denuncia di furto…
Ho mormorato: «sono io l’assassino. Sono qui, in carne ed ossa, abito all’EUR, venite a prendermi prima che uccida altre persone!», ed ho agganciato il ricevitore.
Ritengo tutto ciò molto noioso: idioti, imbecilli, puttane, piedipiatti. Forse, nella vita non c’è molto da scoprire. È tutto molto semplice. Anche i polizieschi degli scrittori oggi in auge li ritengo oltremodo noiosi.
È notte. Vago per le strade dell’EUR come un lupo famelico. La groviera dell’EUR brilla come al solito alla luce di stupidi riflettori. Transessuali e prostitute brulicano dappertutto.
28 marzo 2003
Ho caricato in macchina una transessuale. È bionda e sottile come una foglia e polputa come un’anatra. Indossa una minigonna sconveniente e delle calze a rete. È eccitante. Parla in fretta e gesticola appiccicando le parole in modo irriguardoso, almeno per la mia persona.
«Se ti agiti come una scimmia e strilli come un’aquila finirai per essere impallinata come un fagiano», le dio manifestandole tutto il mio disprezzo.
Ci siamo appartati in uno spiazzo deserto e accordati sul prezzo per una sodomia. La bellissima meretrice ha esigito il pagamento anticipato. Io l’ho accontentata di buona lena. Anzi, le ho versato il doppio del prezzo richiestomi. La zoccola dapprima ha mostrato meraviglia per la mia generosità, infine mi ha ringraziato e si è subito posta prona nella immonda posizione del coito anale. Ho toccato le sue natiche polpute e mi sono sbottonato la giacca. Con la massima calma, ho estratto il revolver, inserito il silenziatore, tirato l’otturatore, mirato dritto sul suo ano ed ho esploso un colpo. Un solo colpo. Il sangue è schizzato a raggiera in tutte le direzioni imbrattandomi il vestito e tutto l’abitacolo.
Con schifo e raccapriccio, mi sono sbarazzato del cadavere gettandolo con un calcio in una cunetta.
Ho appena fatto in tempo a tornare a casa per cambiarmi d’abito e dargli fuoco, che già udivo le sirene della polizia. È un godimento inesauribile. Mi inseguono, mi braccano, mi annusano. Ed io fuggo, lasciando numerose e ben visibili le orme dei miei delitti.
25 marzo 2003
Sono seduto alla scrivania del mio studio. Da circa un’ora fisso il vuoto della parete bianca dinanzi a me. Penso con amarezza a quanto ancora mi resta da vivere e quanti delitti dovrò ancora necessariamente commettere.
Squilla il telefono. Dall’altra parte del filo una voce sottile di donna gentile ed intimidita chiede del signor Afanarsis (ovvero, del Signor Lupo).
«Sono io in persona il signor Afanarsis», rispondo con voce altrettanto gentile.
La medesima voce sottile balbetta ripetutamente. Mi dice: «Sono veramente desolata ma devo dirle che si è trattato di un futile ed imperdonabile errore; ma sì, insomma, si è trattato di un futile errore di persona, di uno scambio di cartelle cliniche… capisce?».
Dall’altra parte del filo risuona il rumore del mio silenzio.
«Insomma, non è lei la persona che ha il clioblastoma cerebrale!» mi grida impacciata alla cornetta la voce sottile e giuliva della signorina.
«Vuole dire che non sono io il condannato a morte?», pronuncio queste parole stando bene attento alla loro sillabazione e alla dizione.
«Sì, certo!, lei è in perfetta salute!», insinua la vocina gentile ed insolente della signorina.
«Davvero? – replico laconico - lo considero davvero un peccato… è davvero un peccato che non sia stato io il prescelto».
Pronuncio queste ultime parole a voce bassa, così bassa che la vocina giuliva risponde che non mi sente e mi chiede di parlare a voce più alta.
DIALOGO DEL NERO LUPO E DEL POETA
Una cella di cemento grigio. Tre metri per tre e mezzo. Il pavimento di cemento è stato riverniciato con una vernice epossidica ed ignifuga. Anch’esso è grigio. Un tavolo di una materia simile alla formica e una sedia anch’essa dello stesso materiale e dello stesso colore grigio sono saldati al pavimento. In alto, pende un piccolo globo oculare tenuto da una cordicella. Sempre di colore bigio. Una luce egualmente grigia e bigia si arrampica sulle pareti della stanza, angusta quanto basta per tenere in vita un condannato. La guardia che staziona davanti alla porta ermeticamente sprangata indossa una divisa sgualcita che un tempo doveva essere azzurrina ed ora è dello stesso colore del pavimento. L’agente mi introduce nel corridoio antistante la cella occupata dal Mostro. Mi indica con il manganello la porta della cella. Il Lupo, o il Mostro, come lo chiamano qui, indossa qualcosa di simile a un pigiama a righe. Il pigiama è grigio chiaro mentre le righe sono grigio scuro. «Davvero, le autorità carcerarie non brillano certo per l’immaginazione», pensai. Il Lupo appare di spalle. Ha spalle tarchiate e leggermente ricurve. Al mio saluto, si volta lentamente come di chi sia stato svegliato di colpo da un lungo dormiveglia. Mi mostra il suo profilo, che pende impercettibilmente verso l’alto, che non saprei definire: ad un tempo perpendicolare ed obliquo, sfuggente e imperioso.
«Buongiorno signor Lupo», pronuncio con una voce che sortisce dalle mie ugole come in falsetto.
«Perché Ella è entrata nel mio imbuto?», chiede il distinto signore con il pigiama a righe grigie da dietro le sbarre.
«Ho saputo che Lei era qui e sono venuto per conoscerLa di persona», replica sempre in falsetto la mia voce che sortisce come quella di un barbagianni da un pertugio.
«Mi hanno riferito che Lei scrive poesie. Mi dica: Lei è un poeta?» – incide come su un disco in vinile la voce beffarda del Mostro.
«Sì, sono un poeta», replica con tono ancor più stridulo la mia voce.
«E mi dica: perché scrive poesie?», insinua la voce melliflua del Lupo.
Ammetto che questa domanda, così a bruciapelo, mi ha meravigliato non poco ma ho tentato di dissimulare in tutti i modi la mia sorpresa ed ho tentato di rispondere con un tono quanto più naturale.
«Glielo dirò – rispondo con circospezione - in un certo senso, perché sono dannose per l’umanità… e, in secondo luogo, perché sono perfettamente inutili».
«Allora, siamo simili – risponde con una piega sardonica della voce l’uomo in pigiama, - o meglio, omologhi. Anch’io sono dannoso. Rectius, perfettamente inutile e dannoso per l’umanità».
«Mi vuole dire che allora anche Lei, in un certo senso, scrive poesie?», oso inferire con macabro senso dell’humour.
«In un certo senso, le mie poesie le scrivo compiendo i miei delitti», - mi risponde la faccia diafana e bianchiccia del mio interlocutore. Adesso che posso osservarlo con tranquillità il lucore della sua faccia mi ricorda il colore bianchiccio dei vermi in un verminaio.
Attraverso le lenti incrinate degli occhiali cerchiati da una antiquata e spessa montatura in tartaruga, mi appare il volto dell’assassino. Glabro. Completamente calvo e perfettamente rasato. Emana un profumo di ottima acqua di colonia. L’occhio dell’osservatore può transitare, senza alcuna fatica, dal cranio calvo e lucido alle guance glabre e perfettamente rasate. L’incarnato pallido mi rammenta in qualche modo il colore bianchiccio dei vermi che proliferano nelle dispense.
«Ero piuttosto curioso di conoscere il nero Lupo», obietto con un filo di ironia senza guardarlo negli occhi.
«Le manifesto il mio profondo disprezzo per tutto ciò che Ella rappresenta», replica il mio interlocutore con una voce come se provenisse dalla remota fissità di una fotografia.
«Ed io, al contrario, Le manifesto tutta la mia attenzione per tutto ciò che Ella rappresenta e per ciò che significano tutti gli assassinii da Lei compiuti, replico con circospezione, aderendo, inconsapevolmente, alla parete grigia del corridoio della prigione che sta alle mie spalle».
«Ella è penetrata nel mio sudicio imbuto come un treno blindato tra i denti», insiste il mio interlocutore come se intendesse completare un pensiero interrotto. «Ella non sa, non può sapere, nessuno in verità sa l’orrore dei miei stupri, dei miei assassinii. Entrare nell’inferno dantesco è un gioco di queruli scolari… Ma il mio inferno!», esclamò con una punta di orgoglio e di sarcasmo l’assassino «è qualcosa che ben pochi sono in grado di ammirare e tollerare!».
«Ed io sarei tra i pochi eletti?», chiedo con voce flebile più per orrore che per stupore.
«Lei è tra i pochissimi ammessi», replica metallicamente l’interlocutore dal volto glabro.
«Il suo inferno non è dissimile da quello degli altri uomini», tento di replicare senza convinzione; ecco perché sono qui.
Mentre le parole escono dalla mia bocca mi accorgo di quanto esse siano inadeguate malgrado ch’io tenti di rispondere con una circospezione e una determinazione che mi sorprende.
«Mi creda, il mio inferno – prosegue come se nulla fosse l’uomo pallido e bianchiccio, come se continuasse a ripercorrere il filo di un suo pensiero interrotto – farebbe impallidire quello della più stravagante e originale creazione letteraria. Ella, mi è stato riferito, è un artista, per l’esattezza, un poeta. Probabilmente, oso pensare in crisi di ispirazione e di idee, altrimenti non ci sarebbe motivo per giustificare la sua presenza in questa sede. Ciò premesso, – continua in tono ieratico l’uomo dal volto glabro e bianchiccio - non posso non esprimerLe i sensi di tutta la mia disistima. Se fossimo entrambi uomini liberi, l’accoglierei senz’altro tra i miei delitti in qualità di osservatore».
«Il poeta abita i propri fantasmi, a volte ben più luttuosi del più nero Lupo, più neri della notte, - replico con orgoglio e un pizzico di stizza».
«Ma ora il fantasma è qui, in carne ed ossa. Più nero di un feretro, più oscuro della notte. Parallelamente, mi consenta, gli uomini normali conoscono sì gli orrori della follia, ma si tratta di una normale follia, della follia normalizzata. La mia, invece, è una follia creata appunto come un’opera d’arte: una follia perfetta. Ed inoltre… me lo lasci dire: lei è pallido, terribilmente pallido. Ho sempre disprezzato gli uomini pallidi, esangui… muoiono senza lasciare traccia di sé».
Il Lupo pronuncia queste parole esattamente come un professore di filosofia espone la sua tesi a memoria. È immobile e la sua dizione non ha alcuna inflessione dialettale, come se si fosse addestrato da lunghissimo tempo ad usare le parole con la massima circospezione e la massima oggettività.
«Sì, lo so, Ella ha lasciato dietro di sé una lunga ed orripilante scia di delitti, di orrori e, diciamo così, di onori».
Pronuncio anch’io queste parole con un filo di macabra ironia, ma il nero Lupo non se ne avvede o, almeno così mi sembra che voglia dare ad intendere, e riprende il filo del discorso dianzi interrotto.
«Chiunque mi guardi in volto deve essere almeno fiero di aver osservato, per un istante, dirimpetto, l’orrore. Tuttavia – aggiunge laconicamente – un tempo ero uno stimato professore di filosofia. Per quanto invece riguarda la poesia, ebbene, nei suoi confronti ho sempre nutrito una radicale avversione, il più forbito disprezzo. Condividevo e condivido tuttora l’estetica del gioco, se è questo che vuole sapere. La tesi dell’avanguardia, ovvero, la poesia come gioco futile, fatuità e amenità, va bene, è una tesi che mi aggrada e che condivido. Ho anche scritto dei saggi sull’estetica, diciamo, del gioco per dare il mio contributo all’estetica, per così dire, della fatuità. Il delitto, in fin dei conti, dal mio punto di vista, altro non è che la massima sublimazione del gioco, un perfetto congegno ad orologeria, dove calcolo e caso convergono e coincidono nel risultato. In altre parole, i miei delitti sono la verifica, nella praxis, della nota tesi dell’avanguardia…».
«La Sua filosofia dell’arte sarebbe dunque una teratologia, una teleologia del delitto, se ho capito bene», aggiungo non poco meravigliato e disgustato.
«Precisamente. Direi una teologia del delitto. In questo, mi considero l’erede più convinto, l’assertore più radicale delle teorie che asseverano la tesi della morte dell’arte. La morte. Appunto».
Dopo queste parole del Mostro, con il ghiaccio nel cuore, mi congedai dal Signor Lupo con una sensazione di freddo nella mente e nel cuore.
I miei pensieri si accavallavano e si affastellavano l’uno sull’altro in una confusione babelica… ero come inebetito e intontito…
L’INTERROGATORIO DEL PROCURATORE
Mi sono consegnato al procuratore. Ormai non riuscivo più a controllare la mia follia. O la mia saggezza, se preferite. Gli ho scritto un biglietto postale con l’indirizzo del mio domicilio, il mio nome e cognome. C’era scritto: «Esimio Signor Procuratore, perché non provate a indagare sullo scrivente? potreste fare luce sull’assassinio di tutte quelle prostitute dell’EUR. In fede, Suo Michele Afanarsis».
Sapete chi era Tachka Witka?, più conosciuto come Cavallo Pazzo?, è stato il più grande capo indiano che combattè valorosamente contro gli invasori yankee. Un giorno Tachka Witka disse che «un grande uomo deve seguire la sua grande visione come l’aquila segue il profondo blu del cielo». Io, per parte mia, molto semplicemente, dico che una grande visione è simile a una grande follia e una grande follia è simile ad una grande saggezza. A mio avviso, un grande uomo deve sempre perseguire il disegno di una grande follia. E che cosa è mai una grande follia se non un disegno grande e quasi sovrumano che soltanto i grandi uomini sanno perseguire e inseguire? E che cos’è una grande follia se non una grande visione? Alessandro Magno, Giulio Cesare e Gengis Khan non perseguirono scientemente il disegno di una grande visione? Probabilmente, senza quella grande visione non avrebbero mai compiuto le gesta per cui sono diventati famosi. Attingere una completa follia è operazione davvero molto costosa e complessa. Oso affermare che una grande follia deriva da un grande sogno e, forse anche da una grande disperazione. Soltanto pochi eletti possono eleggere la grande follia quale loro appartamento ammobiliato, quale loro appuntamento con il destino. Tutti noi per tutta la vita non facciamo altro che perseguire e completare l’equipaggiamento del nostro appartamento. Ah, in questa mansione le donne ci sopravanzano di almeno cento miglia! Sono delle vere regine nel loro appartamento ammobiliato. E non hanno la minima titubanza o sospetto che ciò che esse perseguono è ben altro da ciò che infine conseguono.
Ma la mia follia ha qualcosa di così particolare che la rende assolutamente singolare ed inimitabile: è la capacità che ha il mio cervello di ascoltare e sorvegliare la mia follia… di osservarla, insomma, di controllarla, di tenerla a distanza, diciamo, agli arresti domiciliari. In fin dei conti, la mia coscienza non smette mai di essere vigile e di esercitare il controllo della ragione sulla mia follia. In una parola, direi da buon illuminista che la mia follia è il trionfo della Ragione.
Ho voluto tessere questo breve elogio della follia come preambolo agli appunti di «viaggio» che la mia privatissima follia mi ha prescritto, perché, dovete saperlo, la mia privatissima follia è abitata da un démone assolutamente imprevedibile e incontrollabile. Lui agisce come e quando vuole seguendo le sua ubbie, le sue idiosincrasie, i suoi capricci senza che io ne sappia nulla o ne abbia in qualche modo contezza. Non so quando agirà, non ho idea di quando darà inizio all’azione. So che Lui c’è. A volte si assopisce, anche per lunghi mesi, senza darmi conto delle ragioni che lo hanno condotto all’assopimento; poi, si sveglia bruscamente, senza ragione apparente, e mi detta i suoi comandamenti, come un sovrano assoluto che sieda nel suo trono…
Il procuratore mi accoglie nel suo studio stile impero. Ha un’aria austera e severa. È affondato in una poltrona dall’alta spalliera con delle imbottiture fermate con delle borchie di metallo. È seduto e poggia le mani sulla scrivania. Sembra perfettamente padrone di sé. La scrivania ha delle gambe in guisa di cariatidi che reggono con una finta architrave la superficie sulla quale non puoi rintracciare neanche un granellino di polvere.
Il procuratore è un uomo anziano, elegante ed affabile, il volto segnato da una corona di rughe sottili e regolari. Mi fa accomodare con squisito sussiego nella poltrona di fronte alla scrivania, mi stringe la mano. Mi chiede se desidero un caffé. Alle mie spalle siede il segretario davanti al monitor di un computer acceso. Non lo posso vedere ma ne percepisco distintamente la presenza indifferente.
È con meraviglia che noto il procuratore che apre un sottilissimo fascicolo sul quale è stampigliato il mio nome e cognome. La sua estrema gentilezza mi mette leggermente a disagio. È la gentilezza dell’amico o la melliflua stoltezza dell’inquisitore di rango?; tenta di affievolire le difese dell’imputato per meglio colpirlo d’infilata?; sono teso allo spasimo. I miei cortocircuiti mentali sono tutti accuratamente innestati. Il mio volto deve apparire sereno e disteso, forse un poco stanco del viaggio. Il mio abbigliamento è precario ma decente. Indosso un vecchio cappotto color cammello un po’ stinto che ormai mi va troppo stretto, indizio se non di povertà, di assoluta essenzialità di vita come di chi non bada molto a quisquilie come un cappotto nuovo ed elegante. Penso che negli ultimi tempi mi sono un po’ ingrassato, e nel cappotto stretto mi sento un po’ a disagio.
Siamo l’uno di fronte all’altro: imputato ed inquisitore. La sua vittoria deriverebbe irrevocabilmente dalla mia sconfitta, e viceversa. C’è sempre un momento in cui sei di fronte all’avversario, sulla pedana, con il fioretto ben saldo nel pugno e lo guardi dritto negli occhi. Cerco le sue pupille per definire meglio la mia strategia. Ma l’inquisitore evita di osservarmi, evita il mio sguardo, sfoglia negligentemente i due biglietti dell’incartamento che reca impresso il mio nome e cognome, come di chi sia imbarazzato o svogliato e sia costretto ad eseguire suo malgrado gli atti del proprio ufficio. Seguo il movimento regolare delle sue dita che tambureggiano leggermente sulla superficie della scrivania, ascoltando il fruscio dei fogli che passano tra le sue mani. Quel linguaggio mi parla distintamente, vuole significarmi che non è nulla di importante, che sono tutte quisquilie, due domande e tutto è fatto. Il suo imbarazzo è un linguaggio chiaro, troppo chiaro per essere vero. Con il tempo ho imparato a dubitare dei linguaggi chiari ed univoci, ho sempre dubitato della chiarezza, così come della leggerezza, ma questa è un’altra questione che lascio volentieri al lettore. Il vero è necessariamente oscuro, emerge dall’oscurità per ritornare nell’oscurità. Ma non lo puoi cogliere in alcun modo se non con l’ausilio della leggerezza. S sì, miei cari lettori, e qui interviene la questione della leggerezza, che ha una sua legittimità soltanto se la mettiamo in connessione con quella della «oscurità»… Dai modi tranquilli che ostenta il procuratore ne deduco che non ci sono sufficienti indizi contro di me. Sì, ci sono degli indizi che il procuratore tenterà di tramutare in prove concrete e presentabili. La questione è tutta qui. Io, per parte mia, ho soltanto il problema di derubricare quegli indizi in inezie processualmente non presentabili. Il procuratore ha soltanto due fogli, due fragili e sottili fogli, e nulla più. Ed io ho soltanto i miei due occhi con i quali posso leggere, come in filigrana, il gioco dell’avversario. E anticiparlo. Comunque sia, il movimento di quelle dita, apparentemente regolare, ha qualcosa di convulso e di confuso e mi induce al sospetto, ma non do a vederlo. Assumo un’aria serena ed affabile. Addirittura, un sorriso mi attraversa il volto e mi imbarazza davvero darlo a vedere ma forse il procuratore equivoca il significato e l’identità del mio sorriso dando ad esso un significato ultroneo.
«Vorrei sapere – esordisce il procuratore – dove si trovava il 13 gennaio, il 5 febbraio e il 3 marzo di quest’anno signor Afanarsis dall’una alle tre di notte?».
Davvero, la sortita del procuratore mi ha colto di sorpresa, non mi aspettavo un fendente così diretto, un colpo al cuore, di primo acchito; oh, certo il procuratore è un uomo di esperienza, nella sua vita avrà avuto a che fare con una moltitudine di assassini e di delinquenti, ma il fatto che utilizzi con me questi trucchi da rigattiere, questi mezzucci da confessionale mi turba profondamente, quasi mi umilia. Il fatto che il procuratore abbia messo in piedi tutta questa pompa magna dell’ufficio sgombro, della sua aria trasandata e un po’ svogliata, il fatto che abbia messo in piedi tutta questa risibile commedia forse vuole significare che mi ritiene un soggetto potenzialmente degno di attenzione, un soggetto potenzialmente imputabile. Ed io devo fare di tutto per confermarlo in questo suo concetto. È veramente stupefacente – penso – la stupidità del procuratore, ma veramente ritiene di mettermi a disagio con questi mezzucci da bartabaccheria?
A questo punto, ritengo opportuno passare immediatamente al contrattacco, di cogliere di sorpresa il mio antagonista».
«Lei è un ingenuo, signor procuratore, se pensa che io intenda confessare i miei delitti, così semplicemente, dopo tutta questa sudicia messinscena che lei ha allestito»; scelgo istintivamente di rispondere colpo su colpo al suo colpo di fioretto; senza infingimenti e senza titubanza. «Allestimento, becero e sudicio, – mi permetta, signor procuratore – dal momento che ella mi tratta da delinquente comune; come un comune e volgare assassino, o un comune e volgare delinquente… così facendo ella, mi consenta, commette il più grande errore; eh, no, mio caro procuratore – aggiungo con una punta di ironia – lei non vorrà privarsi della felicità di una mia completa confessione, ma se non altro esigo che mi si rispetti, che mi si mostri del riguardo... dopotutto... sono un “mostro”, o ciò che il comune volgo chiama con termine inequivoco: “mostro”…».
Calco la pronuncia dell’ultima parola. Interrompo con sussiego ed altezzosità il mio discorso e sbircio la fronte del procuratore per vedere l’effetto che hanno fatto le mie parole...
«Oh, no… si figuri, non la considero un “mostro”, la considero per quello che è».
Il tono e il lessico del procuratore non lasciano margine a dubbi: non ha nessuna prova contro di me ma soltanto una schiacciante mole di indizi, quegli indizi che mi sono premurato di lasciare in bella evidenza, le tracce che ho gelosamente conservato per la felicità degli organi inquirenti.
«E che cosa sarei, se è lecito, a suo giudizio?».
Pronuncio queste parole non tanto per avere la risposta del procuratore, che considero scontata, quanto per guadagnare tempo e colpirlo con il secondo colpo di fioretto.
«Lei è un volgare assassino», mi dice il procuratore con un tono che non vuole lasciare nulla di equivoco. Un tono ed un lessico sommamente univoco. Forse vuole spaventarmi, vuole darmi ad intendere che mi ha smascherato, che numerosi indizi convergono contro di me.
«E lei è un volgare inquisitore se crede di potermi provocare con queste astuzie da confessionale!», replico con supponenza, con tono referenziale e oggettivo, a voce bassa, tanto bassa che l’inquisitore fa fatica ad udirmi. Lui non capisce che sto giocando come il gatto gioca col topo, che l’ho invitato ad entrare nel carnaio della mia macelleria. E che, dopotutto, ci tengo che mi si mostri del riguardo... dopotutto, si deve pur avere del riguardo per gli ospiti! Dopotutto, ci tengo all’etichetta. Perbacco!
«Lei sa che noi sappiamo… e non potrà sfuggire all’ergastolo che sa di meritare, - dopo queste parole il procuratore ha come un sussulto, e mi osserva dal di sopra dei suoi occhiali ornati di finta tartaruga con quegli occhi grigi e azzurri che vorrebbero colpire. «Signor Afanarsis, suvvia, ci faciliti il compito, confessi i suoi delitti e noi la metteremo al sicuro in una cella di uno sperduto penitenziario… e sarà salvo… finalmente…».
«Sì, finalmente…».
STORIA INFAME DEL SERPENTE BOIGA
Stanotte, nell’oscurità della mia cella, ho fatto un sogno che vorrei condividere con i miei venticinque lettori. Con un salto, mi sono aggrappato alle sbarre della cella e mi sono issato all’altezza della finestrella piccola e stretta: al di là c’era il mare rumoroso e solitario che parlava la sua lingua di sempre.
Sì, è vero, io sono il mostro. Ho qualcosa nella mente che non comprendo. Il mio, lo so, è stato un disperato tentativo di salvare l’umanità. Ho tentato in tutti i modi, credetemi, ho aspettato fino all’ultimo istante, ma non è stato possibile tergiversare oltre. Chiedo quindi venia per il mio tentativo andato a vuoto.
A volte, percepisco distintamente le intrusioni della follia nelle fessure della mia mente. Ma io amo la mia follia! L’ordine, la razionalità, la geometria della mia follia è qualcosa di sublime, grazie ad essa attingo l’apice del sublime. Diciamo che vivo su di una torre, altissima, e di qui guardo l’esistenza scomposta degli uomini come dall’alto di un grattacielo consideriamo le formiche. Considero i dolori e i dilemmi degli umani, i loro affanni e le loro ambasce come un alieno, un marziano. Devo confessare che le loro angosce mi riescono completamente incomprensibili, totalmente insane.
Brevemente dirò chi sono: sono uno scienziato di quarantatre anni. Sono nato ad Istanbul ed ho studiato nelle principali università americane come ricercatore specializzato nella mutazione del DNA di alcuni ofidi.
Questo è quanto ritengo possa essere utile al lettore di questi brevi appunti. Avrei potuto guadagnarmi fama ed onori, con tutta probabilità, anche il Nobel se mi fossi impegnato nelle ricerche sulla vita. Invece, mi sono trovato ad imboccare una strada senza ritorno: lo studio delle mutazioni genetiche indotte in un tipo particolare di serpente. Voi vi chiederete perché mai un énfant prodige come me si sia impegnato in un tipo di ricerche così astruso e apparentemente lontano dal campo dell’applicabilità. Ma vi ingannate. In verità, sono stato abile nel presentare la finalità dei miei studi come un modo geniale per isolare in laboratorio il gene della giovinezza. Sono stato perfino convincente: ho detto che gli ofidi sono la specie che ha raggiunto l’eterna giovinezza, una sorta di perfezione genetica che non ha eguali in natura. E mi sono detto che sarebbe stato possibile innestare il gene di un ofide nel DNA dell’uomo per renderlo per sempre giovane e virile. Come un serpente, appunto.
Il laboratorio dove ho trascorso la mia giovinezza in studi e ricerche sorge in mezzo al deserto del Texas. Una gigantesca campana di cemento bianco circondata da una duplice altissima muraglia di cemento armato anch’esso dipinto di bianco. Sui camminamenti scorrono i fili dell’alta tensione e uomini armati camminano con indosso delle speciali tute, anch’esse bianche, con degli scafandri simili a quelli che un tempo indossavano i palombari. Non un solo insetto può entrare in quel luogo senza essere fotografato e registrato innumerevoli volte. Siamo nell’epoca del bunker tecnologico, onorevoli colleghi! Sì, opino che si possa vivere ventiquattro ore al giorno dentro una armatura-carlinga che ti separa dal pianeta terra e dal cielo. Opino che sia preferibile vivere tutta la vita dentro una carlinga di cemento armato piuttosto che nelle città depravate e melmose della nostra civiltà!
Così, ho trascorso i miei primi vent’anni: ibernato ed isolato dal resto del pianeta. Al di là della campana si estendeva il grande deserto del Texas. Fu allora che mi convinsi di essere un alieno, un marziano catapultato, per sbaglio, sul nostro pianeta. Detestavo gli uomini, sapevo che essi non avrebbero mai raggiunto la felicità. Giunsi alla convinzione che bisognasse tagliare il filo, il cordone ombelicale che tiene unito l’uomo all’universo. Che bisognava dar loro la felicità tanto agognata. Il senso tanto ricercato. Sì, il senso, gli uomini ricercano il senso ed io sono qui per concederglielo. La mia missione sul pianeta terra è appunto questa: concedere un senso agli uomini.
Grazie a questa mia, diciamo così, chiaroveggenza, avrei dovuto scoperchiare il vaso di Pandora delle sciagure e delle pestilenze da subito, senza alcun indugio ulteriore. Invece, incontrai il poeta. Lo so che tutto ciò vi sembrerà incredibile o addirittura insulso. Il poeta? Già la parola ci fa sorridere: con tutte le decine di milioni di persone che scrivono poesie, parlare di poeta è come parlare del cielo… Dirò che aveva un aspetto d’un signore assolutamente convenzionale. Indossava occhiali spessi con una montatura che imitava la tartaruga (si trattava di una pessima imitazione). Scriveva poesie. Anzi, mi correggo, molto tempo addietro aveva scritto alcune poesie. Qualcuno le aveva stampate ed erano giunte, attraverso chissà per quale tortuoso viottolo, sulla mia scrivania, all’interno del mio bunker scavato nel deserto del Texas. Qualcuno si era preso la briga di segnalare il mio indirizzo all’editore che aveva pubblicato il libretto e il postino che mi aveva recapitato il plico imbustato aveva fatto davvero un lavoro certosino individuandomi in quello sperduto punto del deserto del Texas.
Verrò al dunque. Avevo deciso di incontrare il poeta e parlargli. Feci di tutto per rintracciare l’indirizzo del poeta. Finalmente lo rintracciai e gli chiesi un appuntamento dicendo che ero uno scienziato, un ricercatore impegnato nella ricerca dell’eterna giovinezza e altre consimili facezie tentando di incuriosire l’interlocutore. non posso certo dire che riuscii a convincere il mio interlocutore, il quale mi interruppe con un laconico «venga al dunque». Diciamo che il dialogo fu breve, anzi brevissimo.
Il poeta aveva smesso da tempo di scrivere. Aveva deciso che il silenzio fosse la migliore soluzione. Questo lo avevo appurato, anzi, era un dato certo. «Ma perché mai ha smesso di scrivere poesie?», mi chiedevo senza potermi dare una risposta convincente.
Gli avevo dato appuntamento al tavolino di un bar di periferia della nostra capitale. Amo le periferie delle metropoli, sono gli unici posti che posso tollerare. Il luogo prescelto era tanto anonimo quanto banale: c’erano una stazione ferroviaria dimessa, mucchi di carcasse di automobili arrugginite, carcasse di tubi e capannoni disabitati e abbandonati, contenitori dei rifiuti divelti e capovolti, carcasse di televisori di un tempo e rottami di frigoriferi (…) era senza dubbio il luogo adatto. Giunto in presenza del poeta, senza mezzi termini, gli ingiunsi perentoriamente di riprendere a scrivere poesie, nel caso contrario avrei dato la stura alla prima (e ultima) mortale pestilenza dell’umanità: avrei autorizzato l’introduzione e la moltiplicazione del «nemico». Si trattava di un tipo di ofide – precisai - la cui mutazione genetica lo aveva reso quasi invulnerabile. Parlai con nonchalance, voce asettica, ed anche, perché no?, con una certa eleganza, come si conviene ad un gentiluomo. Dissi che avevo letto della fine del mondo in alcune sue poesie e che ne ero rimasto colpito… e che mi ero chiesto come mai questo sconosciuto poeta potesse aver previsto, per filo e per segno, la morte del genere umano così come io l’avevo prevista e architettata. Non so se il mio diktat fosse in ultima analisi un invito di adesione al suo disperato solipsismo o se, in realtà, si trattasse di «un atto di disperato umanesimo». Aggiunsi anche questo ridicolo pensiero pensando che potesse far colpo sul poeta.
Ma quello naturalmente respinse con gentilezza ma con fermezza il mio ultimatum. Disse che non v’era alcun legame tra il mio serpente a sonagli e le sue poesie – disse proprio così: «serpente a sonagli» - e che quindi nulla a me era dovuto da parte sua. E viceversa.
Io tentai di replicare con il noto argomento dell’umanesimo e della civiltà di contro alla barbarie imperante, etc. etc. e con altre amenità filosofiche... ma le mie elucubrazioni si rivelarono subito del tutto inadeguate e inefficaci. Il mio interlocutore si congedò con gentilezza ma con la massima determinazione; si allontanò dal tavolino del bar leggermente infastidito, ondeggiando, quasi scivolando sulle gambe lunghe e magre.
Io gli gridai dietro che «avrei aspettato dieci anni», allo scadere dei quali avrei scoperchiato il vaso di Pandora. E ripetei non senza alzare la voce per farmi udire: «aspetterò ancora dieci anni. E saranno gli ultimi!».
Dieci anni dopo quel colloquio, esattamente allo scadere del decimo anniversario, scoperchiai il vaso di Pandora e liberai il serpente.
V’è uno spazio giallo che contraddistingue l’esistenza degli uomini. Ma questo essi non lo sanno. Dobbiamo cercare in questo spazio giallo se vogliamo scoprire qualcosa di essenziale. Ma come giungervi?, ci sono delle scale?, c’è un corridoio per entrarvi?, no, non ci sono scale o corridoi che possano condurvi in questo spazio giallo. C’è una via retta e diretta. Bisogna affrontare una parete. E sfondarla.
Poco tempo dopo, sul «New York Times» apparve un articolo del più illustre biologo ambientale, già premiato con il Nobel. Si trattava di un vero e proprio ultimatum alle autorità: «affinché adottassero delle iniziative finalizzate al contenimento della proliferazione di questo nuovo tipo di serpente, che costituiva un vero e proprio mostro ecologico. Non esistevano avversari in natura capaci di contenerlo».
Com’è noto, ufficialmente, l’articolo non suscitò alcun interesse presso le autorità politiche del Globo e contribuì ad alimentare un vago senso di malessere e di insicurezza presso l’opinione pubblica internazionale. In realtà, i servizi segreti di tutto il mondo erano già da tempo all’opera per tentare di individuare l’organizzazione terroristica che aveva prodotto un tale mostro biologico ma nessun risultato di rilievo era stato raggiunto. Piovvero alle redazioni di tutti i giornali del mondo una miriade sterminata di lettere di curiosi e di imbecilli, come è d’uso in questi casi. Accadde che alcuni mediocri scrittori pubblicarono, in fretta e furia, dei racconti horror sul temibile ofide, riscuotendo anche successo di vendita e di pubblico.
Fu a questo punto che sentii il bisogno di contattare di nuovo il Poeta. Avevo bisogno di consultarmi con lui. Gli telefonai e gli fissai un nuovo appuntamento al solito sordido bar di periferia frequentato da prostitute, ladri e avanzi di galera.
Senza molte complicazioni, gli dissi che avevo liberato il primo «tipo» di serpente. Invece, il serpente della seconda mutazione genetica, quello che attingeva la massima pericolosità, lo avrei liberato di lì a poco. Gli dissi che tutto dipendeva da lui. Poteva, se voleva, salvare l’umanità dal disastro incombente. Per una volta – aggiunsi maliziosamente – era nelle mani della poesia la salvezza dell’umanità. A questo terribile dilemma cosa avrebbe risposto il poeta?
Il mio interlocutore non battè ciglio. Disse che l’arte non può né deve salvare il mondo. Anzi, dirò di più – aggiunse laconicamente il poeta – qualora lo tentasse perderebbe la sua identità. La funzione dell’arte, se così vogliamo esprimerci – interloquì ironicamente il poeta – è quella di inviare dei segnali su Marte, come se i marziani esistessero davvero; dei segnali di fumo che soltanto l’appartenente alla sua tribù può comprendere. La grande arte – aggiunse il poeta – in fin dei conti non è altro che un colloquio che l’artista stabilisce con i marziani. Qui si esaurisce la sua funzione, può solo mandare degli «avvisi», dei «segnali di fumo» al mondo. La sfera della ricezione – interloquì con malizia – non sono affari dell’arte, né tantomeno del poeta in carne ed ossa.
«Allora, anche l’arte è complice dei mali del mondo», insinuai con malizia e finta costernazione.
«Naturalmente», fu la secca replica del poeta.
Tentai un ultimo disperato salvataggio: «Si sta rendendo conto che così condannerà l’umanità all’estinzione?».
«La poesia non può salvare il mondo, non le può essere addossato un tale onere né un tale onore, e lei non ha alcun diritto di formulare dei diktat», mormorò laconico e infastidito il poeta.
Tentai il tutto per tutto: «Lei è pazzo! Vuole condannare l’umanità alla morte?», pronunciai queste parole affettando una costernazione che non provavo, tentando di drammatizzarne il contenuto ideativo.
«Io sono un re spodestato dal trono e dallo scettro, non mi compete alcun onere, né come ho detto, alcun onore, né ormai alcun potere di intervento», replicò con visibile stizza il Signore in grigio che mi stava di fronte. Poi, con un movimento leggero e preciso si alzò dal tavolino del bar. Si voltò per controllare il portafogli che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni e si allontanò, proprio come dieci anni prima, sussiegoso e gentile, dal solito tavolino del bar di periferia.
In verità, mi concessi altri dieci anni di tempo per meditare sull’opportunità di sospendere o revocare la mia decisione. Durante questo periodo, il poeta rimase in silenzio. Attesi inutilmente dieci lunghi anni un suo cenno o una sua parola. Fedele alla mia promessa, allo scadere della seconda decina di anni, scoperchiai il vaso di Pandora e liberai il serpente della morte.
Il Boiga – spiegavano gli esperti – vive sugli alberi della foresta tropicale, da cui pende a testa in giù come un grosso spaghetto scotto, utilizzando la coda prensile; preferisce andare a caccia di notte, quando può sorprendere le sue vittime nel sonno e nel buio.
Altri esperti rilevarono che il “boia” (come era stato soprannominato) era in grado di vivere per qualche tempo perfino sottoterra, senza respirare, e di sortire fuori all’improvviso, non appena avvertiva nei paraggi la presenza di un essere vivente dotato di sangue caldo. Si avventava contro la malcapitata preda con una furia micidiale: fauci spalancate e denti affilatissimi.
La stampa riportava notizie da brivido con uno stile singolarmente rassicurante. È bene che io dia un esempio di questo grottesco e cinico giornalismo, caso mai l’umanità trovasse il modo di debellare, magari in estremis, anche questa peste della civiltà del giornalismo ininterrotto: «I Boiga penetrano nelle abitazioni, preferibilmente di campagna, introducendosi da ogni pertugio, dal buco del water, dalle condutture dell’acqua potabile, dall’impianto di condizionamento delle abitazioni moderne, dal tetto attraverso i camini e dà l’assalto a hot dog e hamburger, bistecche e salsicce, perquisisce frigoriferi e dispense, non disdegna il cibo per cani e i tamponi femminili usati, nonché i bambini dormienti e tutti i neonati che trova amorevolmente deposti nelle culle. Gli ospedali sono pieni zeppi di persone morse da Boiga affamati e miracolosamente scampati alla morte.
Il Boiga è moderatamente velenoso, provoca forte irritazione sulla pelle degli adulti e può causare gravi shock anafilattici».
Il Pentagono e tutti i governi dell’Europa sono in realtà paralizzati dal terrore e dall’impotenza. Gli esperti sono divisi sul da farsi. Il più grande entomologo vivente, il prof. H.D., padre della teoria della «invasione biologica», sostiene che «lo sconvolgimento provocato dall’attività umana nei vari ecosistemi terrestri sia il fattore determinante dell’insorgenza di questi mostri ecologici», e che, «nell’immediato futuro, la civiltà dovrà rassegnarsi a fronteggiare la minaccia ‘esponenziale’ di simili mostri ecologici». L’illustre entomologo portava a riprova innumerevoli esempi, come «la strage degli animali domestici e della fauna locale come polli e conigli», nonché l’invasione dei cosiddetti «mitili zebratili», che hanno ormai colonizzato il mar Caspio, il mar Nero, il Mediterraneo e i grandi laghi nordamericani. L’unica cosa da fare, a parere dello scienziato, è di consentire a tutti (criminali e non, bambini e anziani), di circolare armati di un buon revolver e di sparare a vista ad ogni fantasma di Boiga in giro per strada o per le campagne. L’illustre scienziato ammette che ormai «allo stato delle nostre conoscenze scientifiche, non c’è niente da fare; c’è di mezzo la sopravvivenza della specie umana; l’unica soluzione è l’autodifesa individuale».
Inutile dire che il parere dell’illustre entomologo ha gettato nell’angoscia e nella disperazione il Pentagono e i governi europei.
Ormai anche il governo comunista della lontana Pechino ha ammesso l’esistenza di un problema «boiga» e la necessità di affrontare alla radice la questione.
*
Il Boiga ha ormai attraversato a nuoto l’Atlantico ed il Pacifico. È un perfetto nuotatore ed un rapace cacciatore dei mari, dove si ciba di ogni forma di fauna marina; ormai è chiaro che la minaccia del serpente comprende ogni angolo del mondo, nessuno escluso, con le uniche eccezioni dei mari freddi ed artici. Il serpente intelligente preferisce svernare nei climi caldi e temperati, ma non disdegna comunque le temperature glaciali che può raggiungere in tempi brevissimi divorando ogni tipo di pesce che incontra sulla sua rotta.
L’aspetto inquietante è che la stampa internazionale tenta ancora maldestramente di esorcizzare il pericolo con articoli accattivanti e moderatamente ironici. In realtà, maleodoranti di cinismo a buon mercato.
Ormai, le notizie sul Boiga sono quotidiane: una scia funebre di vittime azzannate e sbranate dal temibile ofide. I governi di tutti i paesi del mondo si sono arresi, hanno autorizzato i loro cittadini a girare armati e a sparare a vista. L’O.N.U. si è dichiarato impotente. Squadre speciali di volontari pattugliano le strade delle nostre città: negli angoli più remoti delle nostre bidonville come anche delle più moderne e civili metropoli dei paesi ricchi, si odono colpi di arma da fuoco e strida di persone mutilate e sbranate.
Gli scienziati, in una disperata corsa contro il tempo, stanno apprestando un «contro-mostro ecologico» – così è stato definito - che potrebbe però rivelarsi ancora più sinistro del Boiga, perché potrebbe sfuggire al controllo degli scienziati. Questo è il parere dell’illustre scienziato.
*
A volte, vengo preso da scrupoli: mi dico che forse ho sbagliato a scoprire il vaso di Pandora, che ho ecceduto in zelo; a volte, penso invece con orrore che forse l’umanità riuscirà a sopravvivere anche al «serpente-vampiro». Forse, il genere umano riuscirebbe a sopravvivere anche al «contro-mostro ecologico», così come l’homo sapiens sapiens è sopravvissuto all’uomo di Neanderthal.
Io non so dire se io abbia commesso un imperdonabile errore oppure no. Forse, soltanto Dio lo sa. Ma Dio è un orologiaio impazzito; del resto, sospetto che orologio ed orologiaio siano speculari: l’uno costruisce e giustifica l’altro; reciprocamente; a loro modo entrambi inseguono il nulla. E lo giustificano.
Ci sono molti modi per giustificare l’esistenza del mondo.